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Cinema – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 Bloom https://www.threemonkeysonline.com/it/bloom/ https://www.threemonkeysonline.com/it/bloom/#respond Mon, 01 Aug 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/bloom/ Per la maggiorparte delle persone, l'idea di leggere l'Ulisse di James Joyce può rappresentare una prospettiva angosciante. Il regista Sean Wlash si è spinto ancora più in là e lo ha addirittura sceneggiato trasformandolo in un film di due ore. Bloom parte dal tomo di Joyce e lo converte in una drammatizzazione di tipo convenzionale, […]

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Per la maggiorparte delle persone, l'idea di leggere l'Ulisse di James Joyce può rappresentare una prospettiva angosciante. Il regista Sean Wlash si è spinto ancora più in là e lo ha addirittura sceneggiato trasformandolo in un film di due ore. Bloom parte dal tomo di Joyce e lo converte in una drammatizzazione di tipo convenzionale, concentrandosi sugli aspetti umani dei percorsi di vita dei personaggi principali, catturati in questo ritratto lungo una giornata. Per i profani e per coloro per i quali non vale la pena disturbarsi per l'esperimento stilistico di Joyce, il film di Wlash è un distillato dell'essenza di questo enorme romanzo.

Il processo di semplificazione di un'opera così tremendamente dettagliata può apparire un incubo. Walsh illustra come la stesura della sceneggiatura abbia preso il suo tempo: “Ho lavorato sulla sceneggiatura per circa sei anni e il film è il risultato di tale lavoro. Ciò che feci era leggere e rileggere ogni capitolo, estraendo le parti che mi affascinavano. In termini generali, queste parti erano i momenti più divertenti e gli elementi umani. Il risultato è che la sceneggiatura rispecchia l'umanità di Joyce e il suo senso dell'umorismo.”

L'umanità dell'Ulisse è stata catturata in maniera raffinata da Stephen Rea nel ruolo di Leopold Bloom. Il suo dolore per il figlio (che non superò l'infanzia) e per il padre (che si suicidò) è inciso in ogni cosa che lo riguarda, dalla sua aria sconfitta e depressa alla sua voce stanca ed incerta. Il dolore di Bloom per il figlio si lega in modo impeccabile nel film con l'accettazione della morte della propria madre da parte di Stephen Dedaelus. Commovente è il tentativo di Bloom di raggiungere Stephen dopo la di lui avventura bevereccia con gli studenti di medicina: Stephen sparisce dietro un angolo e per un momento a Bloom pare di vedere suo figlio Rudy che gioca sotto un lampione, come avrebbe fatto se fosse sopravissuto. Dico a Walsh che ciò sembra intenzionale da parte sua in veste di regista. Non è d'accordo: “Molto è stato scritto sul rapporto fra Leopold Bloom e Stephen Dedaelus, su come i loro percorsi si incrocino e si uniscano. Questo mi interessava di meno. Ciò che mi interesava era quello che succede a Leopold Bloom in quanto uomo, a Molly Bloom in quanto donna e a Stephen Dedaelus in quanto ragazzo. Se c'erano connessioni, bene, ma a me interessava di più l'individuo. Se si prende Leopold Bloom, le ha viste tutte: è stato felice, è stato triste. E' un prammatico: sa di non poter cambiare il mondo in cui si vive; si deve andare avanti e lui lo fa. Molly è abbastanza simile; Credo che siano più simili Molly e Bloom che non Bloom e Stephen. Stephen naturalmente, essendo un giovanotto, non le ha passate tutte; è più tormentato in quanto non ha ancora assimilato quel prammatismo”.

Il prammatismo del signore e delal signora Bloom si estende alla sfera sessuale, in cui entrambi vengono mostrati cercare e trovare il loro piacere separatamente l'uno dall'altra: Leopold si masturba in spiaggia mentre controlla una giovane e frustrata istitutrice, mentre Molly riceve le attenzioni di un virile (e in qualche modo unidimensionale) promotore musicale, Blazes Boylan. In termini di casting, Molly sembra male abbinarsi al marito per la bellezza fisica. Faccio notare a Sean Walsh che Angelina Ball è semplicemente troppo attraente per questo ruolo. Ancora una volta non è d'accordo: “Non so in che punto dell'Ulisse si dica che Molly Bloom non era di bell'aspetto, perché lo era: era molto attraente. In secondo luogo, non credo che Angelina sia un'attrice-modella di tipo hollywoodiano. Il motivo per cui ha avuto la parte è molto semplice: è fantastica. Ha occhi bellissimi, è bellissima, ma ancora meglio, possiede un ritmo naturale che le permette di sviluppare il monologo di Molly proprio nella maniera in cui deve essere recitato. Ci sono ben poche persone che ne siano capaci. Se la tua critica è rivolta ad Angelina, la confuto totalmente”.

Poiché Bloom dura solo due ore mentre ci vuole un'eternità a leggere il romanzo in sé, sembra inevitabile che molto si perda nel passaggio dal testo allo schermo. Concentrandosi sugli aspetti umani ed umoristici dell'Ulisse, Walsh è riuscito a rendere il proprio compito più gestibile; resta però un punto debole sul quale non riesco a non stuzzicarlo: l'episodio dei Ciclopi. Per molti lettori questo rappresenta uno dei momenti più sublimi del libro, in termini di enfasi sul messaggio centrale di amore alla faccia dell'odio e della bigotteria. In Bloom viene invece ridotto fino quasi all'inconsequenzialità, ad un mero spiacevole contrattempo nella giornata di leopold Bloom. Inoltre, il suo potenziale comico viene perso completamente. Chiedo a Wlash se non abbia avuto la tentazione di farne qualcosa di più. “Sì, e direi lo stesso di molto altro nel film. Direi che dopo cinque anni avevo buttato giù tutta la sceneggiatura; poi mi ci sono voluti tre anni per toglierne dei pezzi, per comprimerlo, cercando di farlo funzionare. Tutto è stato compresso, compreso la scena dei Ciclopi. Ma sono soddisfatto di come è venuto, perché non volevo che questa cosa anti-semita rimanesse ad aleggiare sul film, non volevo fosse un film sull'antiebraismo in Irlanda. Volevo che rappresentasse una parte di ciò che accade nella vita di Bloom. Non volevo dargli un'indicazione precisa; non è come con Schindler's List per cui lo sai di andare a vedere un film sulla Germania nazista”.

L'apice di Bloom è invece l'episodio di Circe, che è stato fedelmente riportato in tutto il suo surrealismo comico. Alla vita mentale di Leopold Bloom è dato un rilievo pieno di vita e colore contro uno sfondo di comparse, e questa lunga scena raggiunge un trionfo drammatico genuino in termini di trasposizione visuale di un capitolo tanto complesso. Per Walsh è Circe a rappresentare il nucleo dell'Ulisse? “L'episodio di Circe in molti modi rappresenta il nocciolo del libro e allo stesso tempo non lo è. Data l'interconnessione fra personaggi e temi, ovviamente essi si intrecciano per tutto l'Ulisse, ma per la maggiorparte questo viene a compimento nell'episodio di Circe. Tutte le cose che hai visto, imparato o letto in precedenza tornano qui sebbene in maniera caleidoscopica, in un modo completamente differente. Inoltre, credo che sia un capitolo eccezionale, non gli si puù fare giustizia in un film. Se fosse stato pubblicato oggi, manderebbe in visibilio il pubblico. A me piace la fantasia, la sua natura bizzarra. La sceneggiatura prende una direzione lineare ma ciò che accade in termini di personaggi, costumi e location è completamente innaturale. Ma rappresenta il nucleo [del libro]? No, credo che il cuore sia [il capitolo] Itaca e il monologo di Molly (ovvero l'episodio di Penelope). E naturalmente, per quanto riguarda Itaca, che rimane il mio capitolo preferito e che era il preferito di Joyce, non ci sono rimaste che due scene!”

A prescindere dagli inevitabili difetti del film e degli indubitabili pregi, quello che non si può negare è la sua accessibilità, una aspetto che deriva dalla motivazione principale di Walsh a realizzare Bloom: “Per anni, l'Ulisse è stato considerato il miglior romanzo del ventesimo secolo, specialmente da noi irlandesi, che riveriamo Joyce come un granse scrittore. Il problema &egrave
; che nessuno di noi ha letto il libro; tutti ne posseggono una copia e nessuno l'ha letto! E' stato questo paradosso a spingermi: come può quest'opera essere considerata un capolavoro se nessuno l'ha letta?”

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Cinegael Paradiso. La storia di un regista irlandese di seconda generazione: intervista a Robert Quinn. https://www.threemonkeysonline.com/it/cinegael-paradiso-la-storia-di-un-regista-irlandese-di-seconda-generazione-intervista-a-robert-quinn/ https://www.threemonkeysonline.com/it/cinegael-paradiso-la-storia-di-un-regista-irlandese-di-seconda-generazione-intervista-a-robert-quinn/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/cinegael-paradiso-la-storia-di-un-regista-irlandese-di-seconda-generazione-intervista-a-robert-quinn/ Il regista irlandese Robert Quinn è cresciuto in un cinema. Non è un cliché per dire che gli sono sempre piaciuti i film e che in gioventù ha speso tutti i suoi risparmi frequentando sale cinematografiche. No, Rober Quinn è cresciuto in un cinema nel senso letterale dell'espressione. Suo padre, il regista Bob Quinn, fondò […]

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Il regista irlandese Robert Quinn è cresciuto in un cinema. Non è un cliché per dire che gli sono sempre piaciuti i film e che in gioventù ha speso tutti i suoi risparmi frequentando sale cinematografiche. No, Rober Quinn è cresciuto in un cinema nel senso letterale dell'espressione. Suo padre, il regista Bob Quinn, fondò negli anni '70 il Cinegael, cinema indipendente in lingua gaelica, in cui appunto si proiettavano film in lingua irlandese. E' un'infanzia che Quinn ha portato sullo schermo in Cinegael Paradiso – Once upon a time in Connemara [N.d.T.: Cinegael Paradiso – C'era una volta in Connemara; Cinegael è il termine gaelico per Cinema].

“Originariamente il film doveva essere incentrato sul cinema in cui vivevamo, e niente più,” spiega Quinn. “A dire la verità, divenne qualcosa di più di questo a causa delel interviste che inizia a fare. Non solo a lui, a mio padre, ma anche a mia madre. Mia madre rappresenta una gran parte del tutto. C'erano tutti questi rivoluzionari pazzoidi in giro che giravano film in Irlanda occidentale. Era come essere nel bel mezzo del Messico negli anni '50, e questo gruppetto arrivò senza TV, senza elettricità e iniziò a parlare di metter su un'industria cinematografica. Era come spingere il carro senza i buoi, o qualche cliché del genere. C'era però qualcosa in tutto ciò che mi affascinava, e in qualche modo mi piacerebbe tornare indietro e rifare tutto da capo.”

Quinn appartiene quindi alla seconda generazione di registi irlandesi. E' cresciuto all'interno di un'industria già esistente, pur se frammentaria. “Non avevo alcun interesse specifico per i film,” ammette ridendo. “A casa c'era sempre tutta questa febbrile attività, gente che andava e veniva con le cineprese, che girava scene, e cose del genere. In casa avevamo una moviola, per esempio. Era una situazione strana, non che io abbia deciso di punto in bianco una mattina leggendo il giornale: 'Mi piacerebbe fare questo'. Qualche volta anzi mi chiedo cos'altro potrei fare se non film, perché fa talmente parte del mio retaggio.”

Il suo lavoro retribuito fu sul set del film, premiato con l'Oscar, Il mio piede sinistro, e nel corso dei quindici anni successivi, si è fatto strada, imparando costantemente. Da La moglie del soldato al terribile Cuori ribelli a Nel nome del padre, se si tratta di un film importante girato in Irlanda, è probabile che Quinn vi abbia lavorato, dalla modesta posizione di galoppino su su fino a assistente alla regia. “E' la migliore scuola che ci sia a voler essere onesti. Niente ti può più intimidire dopo che l'hai fatto!” E lui sì che può dirlo, dopo esser tornato all'università per un master in studi cinematografici.

In realtà, come dimostra Quinn, non deve per forza essere una scelta obbligata fra l'uno o l'altro, e anzi il frequentare una scuola di regia può esaltare il talento di un regista. “Ho frequentato un master in cinematografia e questo mi ha aperto gli occhi sulle incredibili possibilità che ci sono per chi fa un film oggi. Puoi cullarti nell'idea che sia solo una questione di inquadrature, campi lunghi e primi piani. Una delle cose che ho notato a proposito dei nuovi registi di successo è il loro occhio estetico, la ricerca di quelle cose che appagano l'occhio. Quindi adesso ho un modo nuovo di guardare alla regia.”

Il debutto di Quinn come regista, Dead Bodies [Cadaveri], vincitore del Premio del pubblico al Festival internazionale Cinénygma in Lussemburgo, è un thriller , una produzione a basso costo che finora è stato distribuito in più di venti 'territori' (in gergo cinematografico). Fu, a suo dire, uno di quei film che “ottenne più di quanto ci si apsettasse”. Mentre ha ricevuto le lodi della critica e una buona quota di audience, non ha incendiato i botteghini. Ma, pragmaticamente, non ne aveva bisogno. “Non ha avuto un gran successo ai botteghini,” ammette, “ma ha permesso a me di essere considerato come un regista, e al produttore come tale, quindi chi se ne frega se non ha fatto soldi? Non ci si può sedere sui propri allori, particolarmente quando questi non sono un granché. Avevamo un budget limitato e una telecamera ad alta definizione – qualcosa di intentato ai tempi in questo Paese – e ne abbiamo ricavato qualcosa [di valido].”

Riposarsi sugli allori non è qualcosa con cui assoceresti Quinn. Pur se piovevano lodi da parte della critica sia per Dead Bodies che per Cinegael Paradiso, lui era già passato al lavoro successivo, Breakfast on Pluto [N.d.T.: Colazione su Plutone], come primo assistente alla regia per un veterano del cinema irlandese, Neil Jordan (La moglie del soldato, Intervista col vampiro, Michael Collins, ecc).

“Jordan era davvero bravissimo,” si entusiasma Quinn. “Ogni volta che faceva qualcosa, era da 'WOW', in quanto erano cose cui tu neanche avresti pensato. Solo dopo quattro mesi, quando cominci a vedere il film nella sua interezza, che ti rendevi conto del suo modo di pensare e chiedevi a te stesso 'sarò mai capace di pensare in questo modo?'. Continua, “Una sera dopo le riprese, mentre bevevamo qualcosa insieme, chiesi a Jordan, 'Come fai?' e lui rispose, 'Credo incondizionatamente in ogni film che faccio. Ci metto tutto il cuore e l'anima', ed è questo che devi fare da regista. Devi andare al di là della semplice convinzione che ciò che stai facendo sia il tuo lavoro e basta. Anche se si tratta di una commedia a basso costo, che è quello che mi accingo a fare ora, devi metterci cuore e anima.”

Jordan non è solo un regista di successo, ma anche un apprezzato scrittore. Fino a che punto aiuta esserlo? “Neil Jordan è un grande scrittore,” afferma Quinn. “Alcuni registi possiedono il talento di fare entramebe le cose. Personalmente ho rinunciato, per il momento, alla scrittura. Mi interessa maggiormaente ciò che hanno da dire gli altri. Dopo l'uscita di Dead Bodies ho ricevuto un gran numero di copioni, la maggiroparte dei quali non erano un granché. Alcuni erano molto validi, e più o meno tre di essi mi colpirono e credo ci sia una buona possibilità di realizzarli. Ecco come funziona.”

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La realizzazione di MirrorMask (Neil Gaiman/Dave McKean) https://www.threemonkeysonline.com/it/la-realizzazione-di-mirrormask-neil-gaimandave-mckean/ https://www.threemonkeysonline.com/it/la-realizzazione-di-mirrormask-neil-gaimandave-mckean/#respond Fri, 01 Apr 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/la-realizzazione-di-mirrormask-neil-gaimandave-mckean/ “E' un progetto originale e venne alla luce più o meno così”, attacca lo scrittore Neil Gaiman, rivolgendosi ad un pubblico di fans devoti, riunitisi a Bologna, desiderosi di sapere di questa sua nuova collaborazione per il film MirrorMask. “Nell'estate del 2001 ricevetti una telefonata da Lisa Henson, la figlia di Jim Henson, che mi […]

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“E' un progetto originale e venne alla luce più o meno così”, attacca lo scrittore Neil Gaiman, rivolgendosi ad un pubblico di fans devoti, riunitisi a Bologna, desiderosi di sapere di questa sua nuova collaborazione per il film MirrorMask. “Nell'estate del 2001 ricevetti una telefonata da Lisa Henson, la figlia di Jim Henson, che mi disse 'saresti interessato a scrivere, insieme a Dave McKean alla regia, un film fantasy per famiglie, nella tradizione di Labyrinth?'.” Il pubblico è rapito, pende dalle sue labbra.

“Lisa disse che per la realizzazione Labyrinth e The Dark Crystal, i film fantasy per famiglie realizzati da Henson negli anni '80, furono spesi circa 40 milioni di dollari, ma che ora non avevano quei soldi a disposizione e lei stessa si chiedeva se si sarebbe riusciti a produrne uno con 4 milioni di dollari” continua lo scrittore inglese, impassibile. “Lei mi disse che non si poteva permettere di pagarmi quella cifra se avessi accettato di scrivere il film, così forse io avrei potuto ideare una storia e poi lei avrebbe trovato qualcun altro per la sceneggiatura. Io dissi che se il regista fosse stato Dave McKean avrei scritto la sceneggiatura e non avremmo più parlato di soldi. Dave accettò di dirigerlo e così cominciammo a scambiarci idee via email, su ciò che volevamo fare in un film per bambini. A Dave venne l'idea di una ragazza che andava verso una città con un mondo scuro e un mondo chiaro. Io ebbi l'idea di una ragazza che era come divisa a metà, due ragazze che si potevano scambiare a vicenda e poi”,conclude con una pausa drammatica, “Dave cominciò a lavorare e realizzò il film con quattro milioni di dollari”.

mirrormask - a film by dave mckean and neil gaiman

MirrorMask racconta la storia di Helena (Stephanie Leonidas), una ragazza di quindici anni che lavora nel circo di famiglia e che desidera scappare da lì per raggiungere la vita reale. Ma non è questo ciò che accadrà, perché Helena si troverà a fare uno strano viaggio nelle Terre Oscure, un paesaggio fantastico popolato da giganti, uccelli scimmia e pericolosissime sfingi. Durante la ricerca della strada per tornare a casa, Helena tenta di scovare MirrorMask, un oggetto dai poteri straordinari, la sua unica speranza di fuggire dalle Terre Oscure.

Apparentemente, MirrorMask è un film per ragazzi. Ma solo apparentemente, perché è improbabile che una coppia come Gaiman e McKean, che ha già collaborato meravigliosamente a numerosi romanzi illustrati e progetti editoriali (compresa la premiata serie a fumetti di Sandman), realizzi qualcosa inquadrabile in una categoria. James Greenberg dell'Hollywood Reporter ha commentato che “se Il Mago di Oz fosse rinato nel ventunesimo secolo assomiglierebbe a MirrorMask”. Il confronto con Il Mago di Oz è interessante, perché MirrorMask racconta la storia di una ragazzina trasportata in uno strano mondo fantastico, pieno di possibilità, pericolo e mistero. “Credo che Alice e Dorothy siano due termini di paragone molto validi”, concorda Gaiman quando Three Monkeys suggerisce che ci sono dei parallelismi tra la protagonista del film, Helena, e le eroine di Alice nel Paese delle Meraviglie e de Il Mago di Oz. Cosa c'è di attraente e stimolante nell'assegnare il ruolo di personaggio centrale a una ragazza che sta per entrare in un mondo fantastico? “C'è un aspetto molto interessante in questo, e molto vicino al mondo delle giovani adolescenti, ovvero il passaggio dall'essere ragazza all'essere donna. E' molto più difficile comprendere questa fase nei maschi perché è un processo molto più graduale. La cosa bella in una realizzazione come MirrorMask è che proprio questo è ciò di cui volevamo parlare. Questa trasformazione. Come smetti di essere una ragazza e diventi una giovane donna? Puoi impedire questo cambiamento? Che significato ha?”.

Il film è una gioia visiva, con l'intrusione di vari motivi, familiari tanto ai fan di Gaiman che di McKean. “Gatti con facce umane sono stati personaggi delle opere di Dave McKean per più di quindici anni”, sottolinea Gaiman mentre ci mostra un trailer del film per la stampa, con uno di quei gatti. “Le maschere sono un'altra ossessione di McKean. Alcuni dei temi diversi, che appaiono inaspettatamente, sono invece opera mia. Infatti, durante le riprese del film Dave ed io discutevamo su che uso fare del tema del sogno perché la gente mi conosceva per Sandman, e questa fu una delle ragioni per la quale finimmo col fare dei giochi molto strani intorno alla natura dei sogni nel film”.

Ma torniamo agli aspetti tecnici della pellicola. Gli straordinari effetti speciali del film potrebbero far credere che il budget di partenza fosse molto alto. Non è così, come ha già spiegato Gaiman. Ma allora, come siete riusciti a realizzare un film da 40 milioni di dollari spendendone 'solo' 4? “Innanzitutto, si hanno a disposizione due settimane per le riprese live. Per filmare tutto quello che è ambientato nel 'nostro' mondo. Poi ti sposti in uno studio con uno schermo blu, dove tutti i muri sono dipinti di blu, e per sei settimane resti lì con gli attori che recitano davanti allo schermo blu. Poi, Dave McKean si chiude in una grande stanza con quindici giovani esperti di animazione che hanno appena terminato il college – non era nemmeno il loro primo film, era il loro primo lavoro. Hanno trascorso i 18 mesi successivi a fare il film. In seguito, a mano a mano che restavano senza soldi, lasciavano andare il primo tecnico dell'animazione, poi un altro, fino a rimanere solo in quattro a lavorare nella stanza. Poi ne restano due e alla fine c'è solo Dave McKean. Durante quei 18 mesi telefonavo a Dave e lui era convinto che ad un certo punto qualcosa di terribile sarebbe successo, che qualcosa sarebbe andato storto e che avrebbero chiuso la produzione del film il giorno seguente. Così, ogni volta che lo chiamavo gli chiedevo 'Ciao Dave, come va?', e lui emetteva il suono che Lurch fa nella Famiglia Addams, 'uuurgh'. In qualche modo siamo sopravvissuti e abbiamo finito il film”.

È proprio il caso di dire che questo film è un prodotto eccezionale che combina McKean, Gaimam, un budget ristretto (“perché l'economia è molto in basso nella lista delle priorità di George Bush, – scherza Gaiman, – quattro milioni di dollari erano due milioni e mezzo di sterline quando iniziammo e due milioni di sterline quando finimmo, così il 20% circa del nostro budget scomparve mentre stavamo realizzando il film”) e tecnologia. Ridurre il tutto a un mix ben riuscito di effetti speciali sarebbe un errore: “La cosa che mi rendeva più felice era guardare Dave che creava un mondo tutto suo”, continua Gaiman. “Lui fa così tanto con l'azione viva, reale, che con le produzioni animate. La sequenza iniziale è questo piccolo circo di famiglia come lo ha immaginato McKean. Non ho mai visto qualcosa di simile al di fuori del suo lavoro. E lui ha realizzato tutto questo praticamente senza soldi. Mentre lo scrivevo si faceva avanti l'idea che solo Dave
sapeva cosa avrebbe potuto realizzare con il suo budget e cosa no. Io non lo avrei capito, perché venivo dalla scuola di scrittura cinematografica dove, se stai facendo qualcosa di normale, è economico, e appena ti addentri nel campo degli effetti speciali diventa costoso. Dissi a Dave 'Giriamo una scena in un'aula scolastica' e lui rispose 'Costa troppo'. Perché? Beh, perché devi affittare un'aula, riunire i bambini, sorveglianti, l'insegnante, e un giorno di riprese e tutto il resto. Lui vide il mio viso rabbuiarsi e disse 'Ti dirò una cosa, tu puoi far collassare il mondo e trasformarlo in un fiore e non ti costerebbe niente!'”.

Il film fu una sfida tecnica per tutte le persone coinvolte. “Quando Dave terminò di girare davanti allo schermo blu, mostrò i provini al team dell'animazione e alla fine se ne andarono e si riunirono in privato. Dopo un po', uno di loro ritornò e chiese quante scene con effetti speciali ci fossero nel film e Dave rispose che ce n'era solo una, ma che durava ottanta minuti”.
McKean, parlando della realizzazione del film sembra un uomo che è passato attraverso l'occhio del ciclone ed è sopravvissuto. “Direi che ho imparato molto sulle mie forze e debolezze. Ho la tendenza ad innamorarmi della purezza della soluzione formale ad un problema, e poi divento cieco alle sue possibili imperfezioni, e ogni piccolo cambiamento mi fa sentire come se stessero diluendo, affogando, la mia idea. Credo che questo mi abbia causato molte difficoltà con il film, e penso che d'ora in avanti sarò consapevole di quella visione ristretta”. Probabilmente, senza quella visione ristretta, il film non si sarebbe fatto. O almeno, non nella forma in cui poi è emerso. “Abbiamo portato il film al Sundance Film Festival, dove sono stati molto felici di vedere che era un film indipendente, nonostante fosse finanziato dalla Sony, perché fondamentalmente era fatto da Dave”, racconta Gaiman, quasi a difendere l'intenso lavoro del regista. “Non c'era un comitato, niente riunioni intorno a un tavolo con gente che dice 'dovresti scegliere quello…' Non è mai accaduto. Non abbiamo mai avuto soldi per i provini. È davvero una produzione indipendente, quasi un film fatto a mano”.

Dopo aver lavorato così intensamente al film, così a lungo, si può perdonare a McKean di essere a pezzi. Forse lo è più che se avesse lavorato a un film 'normale', dove c'è un gran numero di collaboratori che lavorano alla produzione e alla post-produzione. McKean era conscio del lavoro quando ha iniziato, ma non era sicuro che sarebbe riuscito a portare a termine il film come lui stesso, Gaiman e i produttori avevano sperato. La reazione del pubblico è l'ultima rassicurazione, per qualsiasi regista. “Quando Dave sentì che i primi spettatori del film, un pubblico di quindicenni, – sorride Gaiman, – applaudivano e ridevano agli scherzi, entrò in sala. Di fronte a me, una ragazza si girò verso la sua amica e disse 'cioè, è stata la cosa più beeeeeeeeella che abbia mai visto in vita mia!'. A quel punto, Dave cominciò a sorridere [ride]”.

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Viva Zapatero – verso una nuova informazione https://www.threemonkeysonline.com/it/viva-zapatero-verso-una-nuova-informazione/ https://www.threemonkeysonline.com/it/viva-zapatero-verso-una-nuova-informazione/#respond Tue, 01 Mar 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/viva-zapatero-verso-una-nuova-informazione/ Viva Zapatero! spalanca una porta su una nuova anomalia vergognosa (o vergogna anomala) tipicamente, ed esclusivamente ITALIANA, rispetto alla situazione globale dell'Europa sulla satira.E' sconvolgente, durante l'evoluzione del film, notare e riflettere sulle differenti modalità di organizzazione e svolgimento della satira nei paesi limitrofi al nostro: chi fa satira in Francia, Germania, Olanda, Inghilterra è […]

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Viva Zapatero! spalanca una porta su una nuova anomalia vergognosa (o vergogna anomala) tipicamente, ed esclusivamente ITALIANA, rispetto alla situazione globale dell'Europa sulla satira.E' sconvolgente, durante l'evoluzione del film, notare e riflettere sulle differenti modalità di organizzazione e svolgimento della satira nei paesi limitrofi al nostro: chi fa satira in Francia, Germania, Olanda, Inghilterra è considerato un artista, portatore di un sapere informativo integrante e 'parallelo' rispetto alla diffusione 'classica e standard' delle informazioni ad arte dei mass-media tradizionali (telegiornali, radiogiornali, stampa periodica e quotidiana).

In uno stato in cui il governo è pulito, onesto e tranquillo rispetto al proprio operato, la satira non è temuta, anzi è invocata come sano e ironico, nonché divertente, mezzo di riflessione auspicabile; e della satira sono vittime i più elevati organi di governo, su tutti gli aspetti della loro vita, privata e pubblica, quasi come fosse 'il dazio' da pagare, con cui misurarsi, visto il ruolo rivestito.Credo valga la pena citare il caso francese in cui TUTTE le sere alle ore 20 (orario di massimo audience) va in onda, su un canale di stato, un programma satirico, Les Guignols de l'info, per un'ora intera, che ha come principale, se non esclusivo, oggetto di spirito Chirac… Chirac beffeggiato, ridicoleggiato, trucidato mentre siede tranquillo in poltrona, da due sicari vestiti come John Travolta e Samuel Jackson da Pulp Fiction perché non ha mantenuto le promesse avanzate durante la campagna elettorale. Proviamo solo ad immaginare cosa accadrebbe in Italia a chi osasse inscenare una tale situazione? Vista la fine dei vari Biagi, Santoro, Luttazzi, Guzzanti, Fò, è lecito intravedere per il malcapitato solo il patibolo…

La Guzzanti ha portato il suo Viva Zapatero! a Venezia, dove ha conquistato 12 minuti di applausi, per chiedere che venga fatta giustizia e, soprattutto, perché tutti sappiano i veri motivi per cui RAIOT, il suo ultimo programma satirico, è stato sospeso dalla Rai, aggrappandosi a false motivazioni e appigli puramente formali, soggettivi e inesistenti.
La tattica utilizzata è stata quella di lanciare alla Guzzanti querele milionarie per diffamazione, calunnia, mancanza di buon senso, volgarità da parte, rispettivamente di: Mediaset, Fininvest, Canale 5, … In una mattinata Sabina ha ricevuto querele per 23 milioni di euro condite da accuse, ingiurie e divulgazione di notizie non vere.
La Cassazione, dopo mesi di indagine, scagiona in maniera assoluta Sabina, dichiarando che non sussiste il presupposto né per calunnia, né per offesa, né per volgarità inespresse.Il titolo Viva Zapatero!, oltre ad essere una citazione di un noto film di Marlon Brando Viva Zapata!, vuole rappresentare un omaggio al Premier spagnolo, soprattutto in riferimento all'iniziativa che non permette più che sia il potere politico a gestire e invadere l'informazione pubblica, le tv di stato e la stampa a diffusione nazionale. Perché, anche se molti vogliono farci credere che la libertà è un lusso, non bisognerebbe assuefarsi a questa idea, oppio delle menti vive e attive.

La Guzzanti è stata accolta da un fiume di applausi anche nella stipata sala bolognese, dove a metà settembre ha presentato il suo documentario. Il pubblico, a stragrande maggioranza giovanissimo, si è mostrato entusiasta, attento, coinvolto, interessato, attivo e partecipe; Sabina ce l'ha fatta, ha trascinato con sé il 'popolo'; c'erano voglia di conoscere, curiosità e interesse in quella sala..

RAIOT era piaciuto e, dopo la sospensione della sua messa in onda sulla tv pubblica, Guzzanti e Co. organizzarono una sorta di sommossa popolare, andando in scena all'Auditorium di Roma in collegamento via satellite (l'aria è ancora libera…APPROFITTIAMONE!!!!): le immagini riportate nel documentario mostrano 15 mila persone all'esterno dello stesso Auditorium per seguire sul megaschermo RAIOT, che in quella occasione raccolse anche centinaia di presenze di personaggi famosi, amici e solidali con Sabina (forse anche perché, come lei, molti erano già state vittime del 'regime mediatico'…)

In Viva Zapatero!, gli incontri e gli scambi di opinioni della Guzzanti con i comici satirici europei svelano come, ancora una volta, la nostra povera Italietta, attualmente devastata sotto tutti gli aspetti, rappresenti una 'mosca bianca' in tutta l'Europa, essendo appunto l'unica nazione in cui la politica imbavagli volutamente i comici satirici. Confrontandosi con un Paese governato da un uomo, Silvio Berlusconi, che è l'incarnazione vivente del conflitto di interessi, tutti i colleghi d'oltralpe di Sabina, qualora intervistati, affermano strabiliati come nei loro Paesi, Berlusconi non potrebbe nemmeno candidarsi per il ruolo che invece in Italia gli è concesso di ricoprire.

Sabina però su questo punto è chiara, e davanti ai giovani bolognesi, al cinema Rialto, tiene a sottolineare: “Viva Zapatero! non è un film contro Berlusconi, è un film contro il sistema italiano, che è un sistema televisivo mass-mediatico marcio e succube di un regime. E in effetti la pellicola non fa sconti soprattutto a chi, almeno in teoria, dovrebbe fare opposizione: non a caso, i momenti più esilaranti, che hanno strappato più applausi anche in sala, sono quelli in cui vediamo gli imbarazzi e le esitazioni di esponenti del centrosinistra, di fronte alla censura. Memorabili sono le rincorse di Sabina, lungo la strada sottostante la sede della Commissione di Vigilanza all'inseguimento dei vari esponenti, senza ottenere MAI una risposta esauriente o almeno pertinente: l’intervista all’attuale presidente Rai, Claudio Petruccioli, all’epoca numero uno della Commissione di Vigilanza si articola in una serie di imbarazzatissimi silenzi, dinanzi alle domande della Guzzanti.

Insomma: non si tratta di propaganda anti-premier e basta. Anche perché, come ricorda Santoro, “la censura c’era già prima di lui, e in parte sempre ci sarà. E' il metodo, il sistema italiano che non funziona, è l'organizzazione in sé che crea le basi per la censura. In Italia è successo qualcosa di più: una malattia profonda, una degenerazione. In questo senso, il film non è contro Berlusconi, ma parla invece del dopo Berlusconi, avanzando una profonda critica accusatoria anche alla 'nostra' parte di politici: ai tutti quei politici dell'opposizione che avrebbero dovuto battersi, interpretando la volontà dei cittadini, e non l’hanno fatto”.

La critica a Berlusconi sarebbe stata troppo scontata, anche perché a questo punto sarebbe forse troppo semplice…una sparatoria contro l'ambulanza! La critica grave e profonda avanzata da Viva Zapatero! è rivolta alla sinistra, a quanto non ha fatto, nel momento in cui poteva risolvere il conflitto di interessi, nel periodo in cui avrebbe potuto sconvolgere e ripristinare un innovativo sistema di elezione del CDA [Consigli Di Amministrazione] della televisione pubblica, in maniera globalmente indipendente da interferenze politiche… E' rendersi conto di queste gravi “nostre” mancanze che lascia l'amaro in bocca alla fine del documentario.

Quello che amareggia è l'ascoltare testimonianze di noti giornalisti della Rai che raccontano di come vengano stralciate intere notizie a pochi minuti dalla messa in onda, eliminati interi servizi, sostituiti con pezzi di cronaca, gossip o dati metereologici, servizi p
roiettati in ordine che nulla ha di giornalistico, ma solo improntati a distogliere l'attenzione degli utenti, incanalandola laddove risulta meno 'pericolosa'; e poi, continuando su questa onda, si presentano dibattiti in cui non esiste il contraddittorio, in cui il giornalista intervistatore mediatore della discussione altro non fa che porgere il microfono, senza indagare e approfondire nei confronti di quanto gli/le viene propinato dal politico di turno.Il giornalista italiano, criticano tutti gli amici di Sabina stranieri, ha il terribile difetto di arrendersi, accontentarsi della prima risposta….errore madornale: il politico con la prima risposta è salvo, è la seconda domanda che può spiazzarlo, e in Italia conviene mai fatta. (Un esempio? “Lei è implicato nel tale processo per corruzione?”
“No, certo che non lo sono!”
“Ok, passiamo ad altro…”)

Il film documentario è talmente pregnante di significati e spunti che andrebbe riportato 'stenograficamente'; tutte le frasi, i gesti., gli eventi sono in grado di sconvolgere lo spettatore e palesargli di quanto quotidianamente si viene tranquillamente presi in giro, abbindolati da trucchi mediatici e televisivi.

Di particolare impatto emotivo e commovente risulta l'intervento di Enzo Biagi, veterano della Rai, licenziato in malo modo con “ricevuta di ritorno”; il viso di Biagi è sconvolto, gli occhi a stento trattengono le lacrime; Enzo è deluso da quella ricevuta di ritorno, che in lui ha significato un “Così non puoi dire che non avevi ricevuto la lettera di licenziamento”… Devastante per chi ha dedicato la vita al giornalismo, quello vero, quello profondo, quello in cui si crede, il giornalismo per la cui conquista si è combattuto.

E poi testimonianze di Luttazzi, Santoro (“Ho fatto di tutto per tornare a lavorare…”), Paolo Rossi, Beppe Grillo, che colleziona querele, senza arrendersi o impaurirsi.

Sabina prima di lasciarci alla visione del documentario aggiunge che al film è connesso un ulteriore obbiettivo concreto: ”far capire ai politici che devono fare quello per cui vengono votati . All’uscita del film è legato infatti un appello al prossimo governo, promosso da diverse personalità del mondo dell’informazione e della cultura, in cui si chiede che l’informazione venga sottratta al controllo politico, che la legge Gasparri venga abolita e che ne venga fatta una seria sul conflitto d’interessi. Sarà possibile firmare l’appello all’uscita di ogni sala.”.
Tale appello è stato stilato grazie alla collaborazione con l'associazione “VIVA ZAPATERO”, sul cui sito si può trovare, leggere e, se si desidera, firmare lo stesso appello.

Un tempo la libertà dall'uomo era vissuta e concepita in termini molto più concreti, pratici, rappresentava un valore fisico, di movimento, di conquista del proprio spazio vitale; Viva Zapatero! fa invece riferimento ad un concetto di libertà mentale, spirituale, di espressione all'interno di quello spazio televisivo, mediatico, informativo che deve essere di tutti, spazio dove tutti devono trovare l'opportunità di esprimersi.
Sabina Guzzanti ha voluto dimostrare che nel momento in cui il sistema riesce a farci vedere e ascoltare solo quello che esso dall'alto ci vuole imporre, il suo trasformarsi in “regime” per farci poi fare quello che esso stesso vuole, ne è la diretta inevitabile conseguenza…

George Orwell docet….


www.VivaZapatero.org

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Il Saverio Costanzo Show: Private, un&apos;opera prima d&apos;autore. https://www.threemonkeysonline.com/it/il-saverio-costanzo-show-private-unopera-prima-dautore/ https://www.threemonkeysonline.com/it/il-saverio-costanzo-show-private-unopera-prima-dautore/#respond Tue, 01 Feb 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/il-saverio-costanzo-show-private-unopera-prima-dautore/ E' ingiusto, si sa, incolpare i figli delle colpe dei padri – e il trentenne Saverio deve esser pur conscio di portarsi dietro un cognome che è come un marchio: Mediaset, da daa da daaan, P2, la camicia coi baffi, ecc ecc – ma quando ha vinto il Pardo d'Oro a Locarno alzi la mano […]

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E' ingiusto, si sa, incolpare i figli delle colpe dei padri – e il trentenne Saverio deve esser pur conscio di portarsi dietro un cognome che è come un marchio: Mediaset, da daa da daaan, P2, la camicia coi baffi, ecc ecc – ma quando ha vinto il Pardo d'Oro a Locarno alzi la mano chi, in questa nostra Italia, moderna e clientelare, non ha pensato subito al giornalista più potente del video (insieme a Messer Vespa, ovviamente)…

E invece poi guardi il film, Private, e senti lui, il premiato e orgoglioso regista di questo gioiellino, parlarne e ti convinci che di talento vero qui ce n'è, e anche fosse stato aiutato dal cognome o dal genitore non importa, perché ha creato un'opera prima di valore, sia dal punto di vista dei contenuti che della realizzazione.

Poco più che ventenne e fresco di laurea in Sociologia delle Comunicazioni, ha già al suo attivo conduzioni radiofoniche, sceneggiature per telefilm RAI e un paio di spot pubblicitari, quando approda negli Stati Uniti, dove si dedica al documentario, lavorando dapprima come operatore, poi aiuto-regista e finalmente come regista, per poi tornare in Italia dove mette a frutto le conoscenze accumulate oltreoceano e gira la docu-fiction per la TV Sala Rossa, ambientata al Policlinico Umberto I di Roma.

Tre anni dopo, il debutto sul grande schermo con questo Private, ambientato in Palestina e metafora dei grandi conflitti e delle convivenze forzate che questi generano. “L'idea non è originale, ma viene da una storia vera che appartiene alla striscia di Gaza, e racconta della convivenza 'coatta' che va avanti dal 1992, anno in cui la casa di questo intellettuale palestinese, professore di inglese, preside di una scuola media secondaria, viene occupata dall'esercito israeliano, perché verrà costruita una colonia a cinque metri dalla sua abitazione. Nella storia vera la vicinanza con la colonia è irrisoria: si apre la porta della cucina e ci si ritrova nella colonia. Nel film abbiamo cambiato moltissime verità della storia reale per, naturalmente, farne un film”, spiega Costanzo in occasione della presentazione del film a Bologna, lo scorso gennaio. Un sorta di documentario, quindi, o, nella definizione di Costanzo stesso, uno psicodramma (“poi io lo chiamo 'psicodramma' … forse Moreno [Jacob Levi Moreno, fondatore del “Teatro della Spontaneità”, N.d.R.] se la prenderebbe a male, perché non è che abbiamo adoperato proprio il metodo psicologico, però lo chiamiamo così perché c'è dentro moltissimo del nuovo psicodramma”).

“Per motivi di sicurezza” non è stato possibile girare il film in Palestina, per cui Costanzo e i suoi collaboratori hanno dovuto ripiegare sulla Calabria. Non che uno si accorgerebbe del trucco se non lo si sapesse, in quanto le scene esterne sono veramente molto limitate (e la Calabria di Private potrebbe essere Palestina, Libano, Grecia, Albania, … – una faza, una raza – un paese povero, un mediterraneo polveroso e arso dal sole). “Probabilmente se fossimo stati in Palestina o in Israele”, continua il regista, “saremmo stato distratti dal checkpoint, dal carro armato, invece il fatto di restare sempre in una casa, e di non avere fuori niente se non la Calabria, ci costringeva a trovare non soltanto gli escamotage narrativi della sceneggiatura, in fase di scrittura [sebbene Costanzo abbia trascorso sei mesi in Palestina/Isreale a raccogliere materiale, N.d.R.], ma anche in fase di ripresa, e loro [gli attori] dovevano dare al salotto, piuttosto che alla camera da letto, l'aria della Palestina o di Israele, dovevano riempirli dell'anima del loro paese.”

Ed eccoci al 'metodo psicologico' adottato da Costanzo per indurre i protagonisti, un intensissimo Mohammad Bakri e uno splendido Lior Miller in primis, e poi Tomer Russo, Areen Omari, Hend Ayoub, fino ai bambini, a mettere in gioco le proprie emozioni, per dare al film un carattere realistico e per astrarlo dalla sua italianità (la troupe, oltre alla location, è infatti nostrana): “In genere nel cinema si danno riferimenti agli attori, dove sono le telecamere. Noi abbiamo ribaltato tutta la questione, dando all'attore uno spazio come a teatro, uno spazio libero in cui potersi muovere e poi dovevamo essere noi, con una tecnologia molto leggera, con la camera a spalla, ad andare a cercare l'emozione. Anche perché essendo la scena in arabo, e non parlando noi alcun arabo, era un po' una continua traduzione che col movimento di macchina tentavamo di fare per noi stessi. Non ci siamo perciò interessati ad una grammatica cinematografica – anche se poi, ripeto, il film ha una forma di cinema in qualche modo – ci siamo però più che altro occupati di una grammatica umana. Volevamo che l'uomo fosse il protagonista, non il regista. Per questo dico che non è un film di regia: non si costruisce l'emozione con il dettaglio, col campo lungo, col mezzo campo, … si costruisce anche facendo recitare anche a spalla un attore. Penso sia l'unico film […] dove non c'è mai un primo piano. Il nostro lavoro era di cogliere le emozioni in una scena. Sì qualche volta avevamo una faccia, ma se altre volte avevamo una schiena, anche la schiena in qualche modo ci diceva qualcosa. Bakri recitava tutto, non recitava solo con la faccia, con la sua voce. Quindi giravamo questi lunghi piani-sequenza non interrompendo mai il flusso emotivo che doveva essere privilegiato rispetto al piano tecnico, e poi in montaggio abbiamo adoperato una terza scrittura del film – la prima la sceneggiatura, poi la ripresa e la terza il montaggio – per cercare quello che l'occhio deve, perché è abituato e anche perché è giusto, vedere, e cioè un campo, contro campo, un'azione, un movimento [perché] l'azione che non sia troppo statica”.

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In lotta con il passato – un incontro con Michael Cimino https://www.threemonkeysonline.com/it/in-lotta-con-il-passato-un-incontro-con-michael-cimino/ https://www.threemonkeysonline.com/it/in-lotta-con-il-passato-un-incontro-con-michael-cimino/#respond Tue, 01 Feb 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/in-lotta-con-il-passato-un-incontro-con-michael-cimino/ Come vi immaginereste Michael Cimino, regista de Il cacciatore e I cancelli del cielo? Questa domanda mi occupa la mente, mentre me ne sto seduto con una birra nel cortile dell'elegante Cinema Lumière di Bologna ad aspettare l'arrivo del celebrato cineasta americano. Una domanda, sì, perché non ho idea della risposta. Esistono fotografie che lo […]

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Come vi immaginereste Michael Cimino, regista de Il cacciatore e I cancelli del cielo? Questa domanda mi occupa la mente, mentre me ne sto seduto con una birra nel cortile dell'elegante Cinema Lumière di Bologna ad aspettare l'arrivo del celebrato cineasta americano. Una domanda, sì, perché non ho idea della risposta. Esistono fotografie che lo ritraggono sul set de Il cacciatore, pettinatura gonfia come ci si aspetta si addica ad un regista cinematografico negli anni '70 (e poi non così lontano da come appere Christopher Walkien ne Il cacciatore), ma, a tutti gli effetti, il regista americano si è ritirato dall'immagine pubblica dopo il tragico fiasco de I cancelli del cielo. In un certo senso. In realtà ha diretto altri film, come L'anno del dragone, senza infamia e senza lode da parte della critica, a confronto con i due film precedenti. Ha anche scritto un romanzo, Big Jane, che, secondo alcune dichiarazioni del 2001, avrebbe intenzione di sceneggiare e trasformare in un film. Eppure, l'interesse generale rimane pur sempre focalizzato su quei due film coraggiosi, che hanno fatto e disfatto il suo successo. Che apparenza avrà? Sarà ingrigito e appassito dal suo viaggio dedaleo tra fama e infamia?

La partecipazione di Cimino all'annuale festival del Cinema Ritrovato a Bologna è attesa con impazienza. E', come si dice in Italia, un 'grande'. Una leggenda del cinema. Nato, ufficialmente, nel 1943 (si rumoreggia che sia nato qualche anno prima), Cimino si affaccia al mondo della cinematografia come sceneggiatore ed è menzionato nei titoli di coda dell'importante film di fantascienza 2002: la seconda odissea e nel secondo episodio della saga dell'ispettore Callaghan di Clint Eastwood, Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan. Ed è stato proprio Eastwood a lanciare il newyorchese come regista, essendo stato favorevolmente impressionato dal suo lavoro nel film sull'ispettore Callaghan. Una calibro 20 per lo specialista del 1974 ha avuto un ragionevole successo, e si trasformò in un film cult. Dopodiché diresse Il cacciatore, premiato con l'Oscar per Miglior Film, un successo di critica e di botteghino che rese Cimino uno dei registi più richiesti di Hollywood. Il film successivo, I cancelli del cielo, avrebbe distrutto questo successo e mandato in bancarotta uno Studios di Holywood allo stesso tempo.

La pace del tardo pomeriggio è improvvisamente spezzata dal subitaneo arrivo di tre eleganti macchinoni neri dai vetri oscurati. Si fermano in sterzata, lentamente, e da una di esse esce questa figura medio-piccola, vestita con un completo in terra di Siena e il cappello da cowboy più impressionante/ridicolo mai visto al di fuori dei confini texani. Il Michael Cimino version 2005 è arrivato.

Da vicino, il viso è oscurato sia dal cappellone, che lo rimpicciolisce, sia da un paio di occhiali da sole scuri, che devono rendere la penombra all'interno del Lumière simile al lato scuro della luna. Non se li toglierà neppure per un momento.

“Sono veramente orgoglioso di aver ceduto una copia della mia sceneggiatura di lavoro personale de Il cacciatore alla biblioteca di Bologna,” osserva, mentre studia l'interno del cinema, le labbra quasi immobili. La pelle del viso appare stirata; la mandibola sembra muoversi autonomamente. Forse è maleducato, ma mi viene in mente Michael Jackson…

Il regista è qui sia per presentare il suo capolavoro del '79, Il cacciatore, sia per tenere una lezione agli studenti di cinema dell0università di Bologna. “Uno dei motivi per cui mi sono offerto di tenere questi seminari è, se posso essere volgare per un momento, che credo che gli studenti siano stufi di stronzate,” dice sorridendo. “Mi piacciono i film, – continua, – mi piace la parola movie [N.d.T.: film in inglese], perché è questo che sono, 'in movimento'. Il cinema è un'altra cosa. Quando smetti di muoverti, sei morto. Troppe sciocchezze sono state propinate agli studenti in merito a tecniche, ruoli, riguardo a così tante cose che non hanno nulla a che vedere con il cuore di un film. Dobbiamo riprenderci, gli studenti devono riprendersi la loro parte spirituale; anche se questo può sembrare pretenzioso, o persino ridicolo, è verissimo.”

Il cuore di un film. Questo è ciò che interessa a Cimino, e come arrivarci. “Prima di iniziare ad obbedire a delle regole, bisogna romperne,” dice enfaticamente. “Ho diretto Il cacciatore da giovane. Se avessi frequentato una scuola di cinema prima di fare questo film, non lo avrei mai fatto. Avrei avuto troppa paura. A tutt'oggi le mie assistenti mi dicono, 'Michael, questo non può funzionare. Stai andando al di là della linea della visuale'. Io ancora non ho idea di cosa sia la linea della visuale!”

Forse però è finita l'era in cui i film potevano essere fatti facilmente rompendo le regole. Si potrebbe insinuare che l'epoca del rischio su grande scala, con la benedizione dei magnati hollywoodiani, sia stata terminata, pur se involontariamente, da registi proprio come Cimino. I cancelli del cielo rimane un argomento elusivamente tabù per la serata.

“Non c'è neanche un centesimo di denaro di Hollywood in questo film,” dice a proposito de Il cacciatore. E' come se, anche se nessuno glielo chiede, le recriminazioni riguardo a I cancelli del cielo continuassero a ronzare sotto al cappello da cowboy. “Tutto il finanziamento proveniva da una società inglese [EMI]. Coprirono tutti i costi, poi, una volta completato il film, lo misero all'asta per il miglior offerente e se lo aggiudicò la Universal. Mi auguro che possiate guardarlo con cuore, occhi e mente sinceri,” implora il pubblico riunito nel cinema.

Il film, la pellicola più emblematica di tutte, fu distribuito tra le controversie. Vincitore di cinque Oscar, compresi quelli per miglior film e migliore regia, il film causò anche il ritiro delle nazioni del Patto di Varsavia dal Festival del cinema di Berlino, in solidarietà con 'l'eroico popolo vietnamita'. Il ritratto dei Vietnamiti, in particolare nelle famose scene della roulette russa (di cui non ci fu nessun caso documentato) fu criticato e tacciato di razzismo.

“Sforzatevi di non trovare del simbolismo nel film, perché non ce n'è. Non c'è alcun programma politico nel film,” ribadisce Cimino. “E neanche riguarda la guerra del Vietnam. Tratta di quel che accade quando una catastrofe si abbatte su di un gruppo di amici, vicini tra loro quanto una famiglia, in un paese minuscolo. Questo film parla delle persone. Semplicemente delle persone. Vorrei veramente esortarvi a prenderlo in questa maniera. E' la storia di un gruppo di amici.”

Effettivamente, mentre non si può certo negare che i personaggi vietnamiti ritratti nel film siano degli stereotipi monodimensionali e sadici, il film ebbe una tale risonanza anche per il ritratto che fà di questo gruppetto di amici. Quantunque il dialogo sia sporadico, il film parla a fiotti. “Credo che uno dei motivi per cui il film mantiene una sua vitalità, per la mancanza di una espressione migliore,” spiega, “sia il fatto che agli attori fu chiesto di impegnarsi così tanto. A tutti gli interpreti fu chiesto di andare al di là di loro stessi., di fare cose che non avevano mai fatto in precedenza.
Questi tizi, io li ho fatti dormire in quelle uniformi, senza mai fargliele levare di dosso, asciutte o bagnate, per un mese intero. Non si sono mai sbarbati, mai un bagno, come succede in guerra. Mica puoi fare una doccia calda tutte le sere. Piccoli dettagli come questi. Ognuno di loro si è lasciato inspirare da quello che facevano gli altri. Fu un'occasione rara.”

“Sono orgoglioso di affermare che non ci sono effetti speciali in questo film,” continua il regista. “Non ci sono trucchi digitali. Quando si vedono novemila profughi di notte in una Saigon in fiamme, quelle sono novemila persone nella notte. Sul serio. Quando si vedono gli attori che saltano giù da un elicottero, quelli sono gli attori. Quando li si vede galleggiare sul fiume aggrappati ad un tronco, quelli sono loro. Lo so perché io ero nel fiume con loro, a reggere un'estremità della zattera perché continuava a sollevarsi e il tronco era così pesante da minacciare di romperla. Tutto quello che ho chiesto loro, gli attori me l'hanno dato.”

In un certo senso, per Il cacciatore l'intero pare essere più grande della somma delle parti, il prodotto di una rara combinazione di talenti che collaborano. “Girare un film non riguarda la propria ispirazione, la propria emozione. Girare un film non ha a che fare con la propria soddisfazione personale., “dice Cimino tutto eccitato. “E' anche ispirare altre persone a fare quel passo in più. Io sono convinto che ognuno desidera ardentemente, ed quello che intendo dire, desidera ardentemente un momento di trascendenza dalla vita reale. Quando questo si verifica sul lavoro, è come prendere la miglior droga al mondo. Quando si finisce di girare, le riprese terminano e tutta la troupe, gli attori, i tecnici, tutti lo possono sentire, e puoi quasi vederli lievitare dal terreno!”

Ascoltare Cimino parlare è una sensazione intensamente nostalgica. Dopotutto è qui per parlare del passato, non del presente o del futuro. Il suo discorso è pieno di fantasmi che vanno e vengono. Lui, forse più di ogni altro regista, ha fatto I suoi errori in pubblico, e per ogni convinta affermazione di cosa un film debba essere, c'è sempre un accenno di dubbio. Come se filtrasse attraverso le critiche accumulate durante la sua carriera.

Alla fine però forse è lui il peggior critico di se stesso. Il cacciatore, è meritatamente entrato nel pantheon dei film più grandi di tutti i tempi. Col passare del tempo, I cancelli del cielo è stato rivalutato in chiave positiva, a dispetto dei suoi eccessi. In breve, col passare del tempo, la reputazione di Cimino è stata riabilitata, come dimostra la fervida e lunga fila di aspiranti registi/sceneggiatori che si sono riuniti qui questa sera per accogliere il grande regista newyorkese con riverenza.

All'abbassarsi delle luci, Cimino chiede di andarsene. “Quello che mi viene in mente adesso è quanto avrei potuto far meglio [con la regia del film]. Ci sono così tante cose che mi piacerebbe poter aver fatto meglio. Questa è una delle maledizioni del rivedere uno dei propri film, perché si tende a vedere solo gli errori. Si vedono i punti in cui ci è lasciati andare. Dove magari l'energia è calata. Magari eri stanco, avresti dovuto pretendere da te stesso qualcosa in più, avresti potuto fare le cose in maniera diversa. Questoa è la ragione per cui in effetti è doloroso. Altrimenti mi piacerebbe sedere a vedere il film con voi, ma non posso. Già dalla prima scena mi verrebbe da pensare 'Oh, avrei dovuto spostare la cinepresa qui' e così via.”

E così, con un sorriso 'stirato', gli occhiali scuri e il suo cappellone, Michael Cimino torna a rifugiarsi nel proprio passato.

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Eugene O’Neill, lo Scimmione e Adrien Brody https://www.threemonkeysonline.com/it/eugene-oneill-lo-scimmione-e-adrien-brody/ https://www.threemonkeysonline.com/it/eugene-oneill-lo-scimmione-e-adrien-brody/#respond Tue, 01 Feb 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/eugene-oneill-lo-scimmione-e-adrien-brody/ Adrien Brody sta cercando degli stracci da indossare. L'attore, generalmente e a ragione considerato uno degli uomini più alla moda di Hollywood, è normalmente tanto elegante e chic da essersi guadagnato il titolo, sulla rivista Esquire, di cittadino americano meglio vestito. Non solo: lo si vede spesso su giornali e manifesti come testimonial di diversi […]

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Adrien Brody sta cercando degli stracci da indossare. L'attore, generalmente e a ragione considerato uno degli uomini più alla moda di Hollywood, è normalmente tanto elegante e chic da essersi guadagnato il titolo, sulla rivista Esquire, di cittadino americano meglio vestito. Non solo: lo si vede spesso su giornali e manifesti come testimonial di diversi designer di prima classe.

Oggi però il trentunenne premio Oscar appare sporco e scarmigliato; il suo abbigliamento lascia alquanto a desiderare e può essere descritto come quello di un barbone. Il che è esattamente come dovrebbe essere, considerato che è stato piazzato in mezzo alla torrida giungla primordiale di Skull Island dove si ritroverà a combattere per la propria sopravvivenza contro gli elementi e lo scimmione più famoso del mondo.

Insieme ad un cast scintillante di stelle del calibro di Naomi Watts, Jack Black, Andy Serkis, Jamie Bell e Colin Hanks, Brody è intrappolato in uno spettacolare e pericolosissimo gioco tipo quello del gatto col topo, ma con King Kong.

Vicino alla cima del monte Mount Crawford, alla periferia di Wellington, il regista premio Oscar Peter Jackson e la sua troupe sono riusciti a creare un mondo impressionante, la jungla che fa da contorno alla caccia a King Kong. Ed è qui che Brody e i suoi colleghi tenteranno di attirare in trappola King Kong, di catturare il possente gorilla e portarlo in trionfo a New York.

Le riprese fatte finora hanno richiesto a Brody e agli altri intepreti di usare la loro immaginazione e le loro capacitatà recitative per reagire ad un King Kong 'in contumacia'. La spiegazione è ovvia e semplice. Mentre Brody e gli altri mettono recitano le proprie scene di fronte alle telecamere nell'impressionante set di Skull Island – gli antichi edifici sono stati decorati con teschi umani e scheletri fossilizzati – giù agli studi high-tech, si sta creando il bestione, con la massima attenzione e minuzia di particolari, con l'utilizzo di computer digitali. E non sarà solo Kong di cui le star dovranno fingere il proprio terrore, visto che Skull Island sarà la dimora anche di un intero branco di creature preistoriche, che pure saranno generate al computer.

Al momento comunque, tutto quello che Adrien Brody ha visto di tutto ciò è il solo lavoro preparatorio [N.d.T: l'articolo originale è del maggio 2005], che alla fine la brillante squadra di genietti al servizio di Peter Jackson trasformerà nella versione di King Kong più grandiosa, terrorizzante e convincente che mai farà la sua apparizione su uno schermo cinematografico. “Sono stato al laboratorio e ne ho visto l'aspetto, e ne conosciamo le dimensioni,” confida Brody, chiaramente impressionato.

Significativamente, Brody ci tiene a evidenziare il fatto che – a prescindere dall'enormità della pura presenza fisica – un elemento chiave di Kong è l'impatto emozionale che il bestione deve saper produrre; e indica come Andy Serkis abbia il compito cruciale di fornire un modello vivente del gorilla, come già fece con Gollum ne Il Signore degli Anelli. “Andy sarà di particolare aiuto nelle scene più drammatiche, più emozionali – particolarmente con Naomi,” dice Brody. “Sono curioso di vedere cosa farà, in quanto son certo che sarà eccezionale.”

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Come plasmare un mostro – Peter Jackson parla di King Kong. https://www.threemonkeysonline.com/it/come-plasmare-un-mostro-peter-jackson-parla-di-king-kong/ https://www.threemonkeysonline.com/it/come-plasmare-un-mostro-peter-jackson-parla-di-king-kong/#respond Sat, 01 Jan 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/come-plasmare-un-mostro-peter-jackson-parla-di-king-kong/ Peter Jackson è passato dalla costruzione di rudimentali figure di plastilina alla modellatura di alcuni dei film più grandi nella storia del cinema. Il barbuto, occhialuto e arruffato quarantatreenne neozelandese lanciò una sfida alle convenzioni quando dichiarò di volersi occupare a modo suo della trasposizione cinematografica dell'epopea di Tolkien, Il Signore degli Anelli. Parve a […]

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Peter Jackson è passato dalla costruzione di rudimentali figure di plastilina alla modellatura di alcuni dei film più grandi nella storia del cinema.

Il barbuto, occhialuto e arruffato quarantatreenne neozelandese lanciò una sfida alle convenzioni quando dichiarò di volersi occupare a modo suo della trasposizione cinematografica dell'epopea di Tolkien, Il Signore degli Anelli. Parve a tutti una scomessa enorme rendere in un film i racconti della Terra di Mezzo in una trilogia fiume, ma la fiducia di Jackson fu ricompensata quando i film divennero successi di botteghino nonché vincitori di premi Oscar.

Adesso, di conseguenza, Jackson è il cineasta più richiesto del pianeta, ed è a più di metà dell'opera con il minuziosissimo processo di portare sullo schermo la sua ultime magnifica ossessione … una versione da molti milioni di dollari di King Kong.

Creare la propria visione della possente bestia è stata la sua passione da quando Jackson, un figlio unico nato in una piccola cittadina costiera in Nuova Zelanda, fu sopraffatto dal suo primo contatto con il film originale del 1933.

Il vedere quelle immagini in bianco e nero di Kong trasportato dallo splendore primitivo di Skull Island all'iconica battaglia finale con gli aeroplani che svolazzano intorno al bestione appollaiato in cima all'Empire State Building nella Grande Mela si rivelò avere un impatto sconvolgente sulla vita di Jackson.

“La visione di King Kong, a nove anni, mi fece voler diventare un regista,” rivela Jackson, che si rese conto, da quel momento in poi, che il prioprio scopo nella vita era quello di creare magie cinematografiche.

Iniziò nel mondo dei film horror e del fantasy, con pellicole a basso costo tipo Splatters gli schizzacervelli e Fuori di testa che fecero sì che il suo talento venisse notato e lo portasse all'attenzione di Hollywood. Jackson diresse poi Sospesi nel tempo, un horror comico interpretato da Michael J. Fox, prima di imbarcarsi sulla strada che lo ha portato a Il Signore degli Anelli ed ora a King Kong, l'icona da cui è partito tutto.

“Non so se starei ancora facendo film se non avessi visto King Kong. Mi ricordo però che lo diedero in TV un venerdì sera qui in Nuova Zelanda e già il giorno dopo aver visto King Kong ho iniziato a girare cortometraggi in stop-motion con una telecamera Super 8 che i miei genitori utilizzavano per i filmini casalinghi,” riferisce Jackson. “Mi procurai della plastilina e iniziai a girare dei filmetti che mi accompagnarono lungo tutta la mia adolescenza. Quindi sì, [King Kong] mi ha fatto iniziare”.

Adesso, 35 anni dopo aver visto il gorillone in TV, il suo sogno si sta realizzando. In cima al monte Crawford, alla periferia di Wellington, si è riunito per ridare vita a questo classico dell'avventura un cast costellato di star che comprende Adrien Brody, Naomi Watts, Jack Black, Jamie Bell e Andy Serkis. E naturalmente Peter Jackson è il brillante e ispirato burattinaio che muove le corde mentre King Kong torna in vita con un ruggito possente.

Ed è evidente, quando si prende una pausa dall'orchestrare una scena cruciale – quella in cui una terrorizzata Naomi Watts urlante viene trascinata dagli indigeni di Skull Island per essere preparata al sacrificio in onore di Kong – che Jackson resta tanto emozionato da questo racconto epico di come la bella sconfigge la bestia oggi quanto lo fu quando era un ragazzino dai calzoni corti in preda a timore reverenziale.

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Quo vadis, Salvatores? https://www.threemonkeysonline.com/it/quo-vadis-salvatores/ https://www.threemonkeysonline.com/it/quo-vadis-salvatores/#respond Wed, 01 Dec 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/quo-vadis-salvatores/ “Io ero veramente stufo dopo 12 film” confida il vincitore del Premio Oscar Gabriele Salvatores, “che alla fine dei dibattiti si alzasse puntualmente una ragazza che dicesse 'Scusi, ho una domanda: perché non fà un film con una donna?'.” Il suo commento è sia scherzoso che serio al tempo stesso. Meglio conosciuto all'estero per il […]

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“Io ero veramente stufo dopo 12 film” confida il vincitore del Premio Oscar Gabriele Salvatores, “che alla fine dei dibattiti si alzasse puntualmente una ragazza che dicesse 'Scusi, ho una domanda: perché non fà un film con una donna?'.” Il suo commento è sia scherzoso che serio al tempo stesso. Meglio conosciuto all'estero per il suo film Mediterraneo, i suoi film finora hanno mostrato soprattutto personaggi maschili. Dall'allegra compagnia di Mediterraneo, ai bambini attori protagonisti del suo ultimo film Io non ho paura, le donne sono state, in un certo senso, lasciate al di fuori.

Il fatto che avesse, fino al suo nono film, evitato di porre storie di donne al centro delle sue regie, aveva a che fare più con una certa consapevolezza delle proprie limitazioni che con una dose di sciovinismo strisciante. Per qualcuno che ha esplorato attraverso i suoi film i legami di amicizia e i cliché degli uomini, Salvatores era ben consapevole delle difficoltà per un uomo di raccontare una storia femminile: “Siccome il cinema per molti versi è ancora maschile – se vedete il numero delle registe e sceneggiatrici rispetto ai registi e sceneggiatori è decisamente inferiore – certe volte gli uomini, anche in buona fede, assolutamente, è capitato ovviamente anche a me, tentano di riprodurre un modello che hanno in testa, anche il più aperto possibile, il più democratico, ma alla fine sono le donne che devono parlare delle donne.”

Quo Vadis, Baby?, un romanzo noir della bolognese Grazia Verasani, si materializzò sulla scrivania di Salvatores quando lui e il produttore Maurizio Totti stavano lanciando una nuova casa editrice, la Colorado Noir. “Quando ho trovato questo libro, tra i primi letti per scegliere quale pubblicare, io ho capito che forse avrei trovato la storia per poter fare il primo film con una protagonista femminile”, spiega, “E l'ho potuto fare grazie proprio al fatto che fosse stata una donna [la Verasani, appunto] a creare questo personaggio”.

Il prodotto finito (evidentemente, accettò la sfida) è un thriller meditativo ambientato a Bologna, una città di portici oscuri che hanno ispirato migliaia di romanzi noir, tanto che scrittori tipo Carlo Lucarelli, autore di almost blue, hanno fatto coniato il termine 'scuola bolognese' di noir.

Racconta la storia di Giorgia, una donna sui quarant'anni, che ancora cerca di venire a patti con il suicidio della sorella, avvenuto 15 anni prima. All'inizio del film [Giorgia] riceve delle videocassette, che si rivelano essere una specie di video-diario registrato da Ada, la sorella defunta.

Allora, che tipo di personaggio è Giorgia, la prima protagonista femminile di Salvatores? Non sorprenderà il fatto che non sia una eroina cinematografica di tipo convenzionale. “Giorgia è una donna, diciamo, molto atipica nel panorama cinematografico. E' una donna che esce dagli stereotipi maschili”, dice il regista. “Vive sola, senza figli, politicamente molto scorretta, beve, va in giro da sola, sceglie lei i suoi uomini. La Verasani dice non cinica, ma a volte scostante, non cinica, ma a volte arrabbiata, e poi all'improvviso tenerissima”. Fà una pausa, poi continua: “C'è nella mitologia indiana una delle donne principali è Parvati, la moglie di Shiva. E' la moglie perfetta, tira su dei figli, canta, balla, cucina, fà bene l'amore – vorrei conoscerla,” scherza, “ma Parvati non è solamente questo. Quando si arrabbia si trasforma in un altro dio femmina, che si chiama Kali, che è esattamente l'opposto, è una distruttrice, tutta nera, con la lingua lunga che lecca il sangue delle sue vittime, una collana di teschi al collo, cioè proprio l'aspetto completamente contrario. Io credo che nel femminile convivano queste due cose, e che il maschile probabilmente dovrebbe smetterla di controllarle e invece imparare da uomo di proteggere la fantasia, libertà di queste donne”.

Per interpretare Giorgia, Salvatores ha scelto Angela Baraldi, cantante bolognese, al posto di un'attrice di professione. Una scelta un po' controversa, specialmente fra le attrici italiane, un po' una mancanza di riguardo verso le loro capacità. Ma è una scelta che Salvatores difende, pur restando sensibile alle critiche delle attrici snobbate: “spero proprio che le attrici italiane non si arrabbino, perché cercavo una donna e non un'attrice per interpretare questo ruolo. Ci sono,” continua, “in Italia degli attori e delle attrici molto bravi, credo soprattuto in una nuova generazione di attori tra i venti e i trent'anni molto interessanti. La protagonista qui ha quarant'anni, e quindi dovevo cercare in quella fasci lì e il problema era che si doveva pensare di trovare una persona che non avesse troppa tecnica recitativa, e che quindi sarebbe stata costretta a mettere in gioco sé stessa in qualche modo, la propria maniera di muoversi, … Chiedere ad un'attrice di fare un personaggio significa chiederle di entrare in un personaggio e quindi in qualche modo di fingere delle cose. Invece mi trovavo a conoscere Angela [Baraldi], la conosco dal '88 […] è stata la prima persona 'reale' che mi è venuta in mente quando ho letto il romanzo di Grazia [Verasani] e mi sono detto 'mi ricorda un pochino di lei, e allora perché non farlo fare a lei?'”

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Un Set di immagini in movimento – Making The Bridge of San Luis Rey intervista con la regista Mary McGuckian. https://www.threemonkeysonline.com/it/un-set-di-immagini-in-movimento-making-the-bridge-of-san-luis-rey-intervista-con-la-regista-mary-mcguckian/ https://www.threemonkeysonline.com/it/un-set-di-immagini-in-movimento-making-the-bridge-of-san-luis-rey-intervista-con-la-regista-mary-mcguckian/#respond Thu, 01 Jul 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/un-set-di-immagini-in-movimento-making-the-bridge-of-san-luis-rey-intervista-con-la-regista-mary-mcguckian/ The bridge of San Luis Rey Dieci anni fa la regista irlandese Mary McGuckian cominciò ad interessarsi all’adattamento cinematografico del romanzo di Thornton Wilder, Il ponte di San Luis Rey. “E’ strano, mi trovo più a mio agio con il genere cinematografico letterario, ma questi non sono film tanto semplici da lanciare. [The Bridge of […]

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The bridge of San Luis Rey

Dieci anni fa la regista irlandese Mary McGuckian cominciò ad interessarsi all’adattamento cinematografico del romanzo di Thornton Wilder, Il ponte di San Luis Rey. “E’ strano, mi trovo più a mio agio con il genere cinematografico letterario, ma questi non sono film tanto semplici da lanciare. [The Bridge of San Luis Rey] mi fu proposto 10 anni fa”, ci spiega, “da Brian Friel, il drammaturgo irlandese, e da sua figlia Judy, in seguito ad una conversazione riguardo ad alcune battute di una delle sue prime opere. La discussione verteva su cosa fosse adattabile allo schermo e cosa no. Brian Friel era convinto che ciò che rendeva adattabile allo schermo un’opera era il fatto che essa fosse poeticamente visiva e la drammaticità dei suoi personaggi. The Bridge of San Luis Rey soddisfaceva entrambi questi requisiti; ma a parte questo, io non l’avevo mai letto. All’epoca avevo circa 30 anni e non lo conoscevo per nulla. Era un eccellente prodotto della letteratura americana. Lo lessi e me ne innamorai. Mi sembrava una bella storia, molto ben narrata. La trama è complicata dalla presenza di molti personaggi, è molto complessa. Ne ero presa, feci di tutto per ottenerne i diritti – questa è tutta un’altra storia – e mi ci vollero 10 anni per riuscirci”.

“Lo adattai allo schermo”, prosegue, “Vi dedicai molto tempo. Lo scrissi prima di Best , lo misi da parte per un paio d’anni, poi lo ripresi in mano. Dopo Best tentammo di svilupparlo ma un’opera ambientata nel 18° secolo in Sud America e basata su un romanzo di Thornton Wilder non suscitava un grande interesse”.

Ma l’interesse per il libro si accese, in modo tragico e improvviso, dopo l’11 Settembre 2001. “Fu una conseguenza del fatto che Tony Blair citò l’ultimo paragrafo del libro il giorno della commemorazione tenutasi a New York dopo l’11 Settembre. La gente ricominciò a leggere il libro e Oprah Winfrey lo reintegrò tra le pietre miliari della letteratura americana. Allora pensammo che il film avrebbe dovuto necessariamente essere un film molto classico, un film americano alla vecchia maniera. Mi sembrava l’unico modo giusto di farlo, ma non pensavo che sarebbe stato fatto così, se mai sarebbe stato fatto. Stabilimmo di fare un tentativo, e decisi che gli avrei concesso 6 mesi di prova, lo portammo a Cannes e il pubblico ne rimase entusiasta. Alla fine il film trovò la sua strada.”

In breve, The Bridge of San Luis Rey parla di un disastro, del crollo di un ponte costruito su una gola nella mitica città di San Luis Rey, in cui morirono cinque persone. Affronta temi quali la tragedia, il fato e il dolore. È interessante notare l’enorme impatto culturale dell’11 Settembre, e la riscoperta de The Bridge of San Luis Rey da parte del mondo del cinema è indicativa. “Sembra che sia avvenuto un cambiamento di rotta riguardo ai gusti, riguardo a ciò che la gente vuole vedere e provare. Il desiderio di provare paura, allegria o orrore e tutti i film del genere sembrano suscitare meno interesse da parte del pubblico, e sia le commedie leggere e romantiche, a un livello più superficiale, sia le opere più introspettive e filosofiche sembrano essere …. in questo decennio tutto ciò che ha a che fare con il se’ o con la spiritualità, a qualsiasi livello, sembra attirare le persone molto di più rispetto al passato. Questa è solo una mia opinione. Non so se corrisponde alla realtà. Di sicuro mi sembra che dieci anni fa, quando cominciai ad interessarmi alla trasposizione cinematografica di The Bridge of San Luis, non ci sarebbe stato nessuno disposto a lavorarci, [enfaticamente] assolutamente nessuno”.

La risonanza provocata dai fatti dell’11 Settembre è stata associata al libro e ora sono due cose inscindibili. Era consapevole di questo quando girò il film? “Assolutamente sì. C’è una cosa assai strana nel libro, uno dei discorsi iniziali, tenuto dal personaggio interpretato da Robert De Niro, l’arcivescovo al servizio funebre dei cinque che muoiono nel crollo del ponte. Nel fare il copione, gran parte del materiale del libro è stato inevitabilmente tagliato. Il discorso nel libro durava due o tre pagine e dovetti ridurlo a dodici righe circa, affinché avesse un senso. Lo trasformai in una breve orazione. In una prima stesura del copione c’era tutto, poi lo rilessi, spostai un po’ di cose e ne tagliai altre. Una delle battute tagliate diceva: “Torri gemelle crollano continuamente su uomini e donne virtuosi”. Nel 1997 questa frase non significava nulla per me, se non forse la torre di Babele, e non aveva alcuna risonanza, così la tagliai e me ne scordai, fino a poco prima delle riprese. Stavamo provando, De Niro leggeva contemporaneamente il libro e il copione e ne stavamo discutendo – e saltò fuori. Ovvero è proprio una frase del libro, mentre [il personaggio] sta parlando di calamità, peste e punizioni divine. Sono sicura che la gente che vedrà il film penserà che quella frase l’abbiamo messa lì noi, ma era nel libro, scritta nel 1927! Allora decidemmo di reinserire la battuta”.

Il film prevede un cast di stelle, tra cui Robert De Niro, Harvey Keitel, Kathy Bates, Gabriel Byrne, F. Murray Abraham e John Lynch. “Assemblare tutto era un progetto pazzesco, un grande progetto per una piccola compagnia” dice Mary McGuckian, e prosegue ridendo “e per una piccola regista irlandese!” Nota per il suo film precedente, Best, biografia del leggendario calciatore nordirlandese George Best, Mary McGuckian ha in passato lavorato a film che hanno un legame specifico o culturale con l’Irlanda. Il suo primo film, Words on the Windowpane, è l’adattamento cinematografico di un’opera di Yeats che porta lo stesso titolo, mentre la sua seconda opera, This is the sea, si svolge nel Nord dell’Irlanda durante il periodo di pace. Lavorare a The Bridge of San Luis Rey, che apparentemente non a nulla a che vedere con l’Irlanda, è stato un grosso cambiamento? “E’ stato un cambiamento enorme. Quello è un mondo che non conosco. E’ stato un buon punto di partenza, un film completamente di fiction; il mondo del romanzo è un mondo a parte. Wilder ha creato un mondo il cui contesto non è né reale né storico, è un’opera di fantasia dall’inizio alla fine. Il modo tradizionale di fare un adattamento, e sono stata molto all’antica in questo, è entrare nel mondo dell’opera e rimanervi. I riferimenti culturali, l’intero riferimento al film si rifà al libro. Era tutto ciò su cui potevo basarmi. Ho girato in Spagna e poi in Francia e ho lavorato con attori americani, quindi ero fuori dal mio contesto abituale in termini di riferimenti culturali, di stile, di approccio e così via. Il trucco era attenersi al materiale originario”.

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