Il Saverio Costanzo Show: Private, un'opera prima d'autore.

E' ingiusto, si sa, incolpare i figli delle colpe dei padri – e il trentenne Saverio deve esser pur conscio di portarsi dietro un cognome che è come un marchio: Mediaset, da daa da daaan, P2, la camicia coi baffi, ecc ecc – ma quando ha vinto il Pardo d'Oro a Locarno alzi la mano chi, in questa nostra Italia, moderna e clientelare, non ha pensato subito al giornalista più potente del video (insieme a Messer Vespa, ovviamente)…

E invece poi guardi il film, Private, e senti lui, il premiato e orgoglioso regista di questo gioiellino, parlarne e ti convinci che di talento vero qui ce n'è, e anche fosse stato aiutato dal cognome o dal genitore non importa, perché ha creato un'opera prima di valore, sia dal punto di vista dei contenuti che della realizzazione.

Poco più che ventenne e fresco di laurea in Sociologia delle Comunicazioni, ha già al suo attivo conduzioni radiofoniche, sceneggiature per telefilm RAI e un paio di spot pubblicitari, quando approda negli Stati Uniti, dove si dedica al documentario, lavorando dapprima come operatore, poi aiuto-regista e finalmente come regista, per poi tornare in Italia dove mette a frutto le conoscenze accumulate oltreoceano e gira la docu-fiction per la TV Sala Rossa, ambientata al Policlinico Umberto I di Roma.

Tre anni dopo, il debutto sul grande schermo con questo Private, ambientato in Palestina e metafora dei grandi conflitti e delle convivenze forzate che questi generano. “L'idea non è originale, ma viene da una storia vera che appartiene alla striscia di Gaza, e racconta della convivenza 'coatta' che va avanti dal 1992, anno in cui la casa di questo intellettuale palestinese, professore di inglese, preside di una scuola media secondaria, viene occupata dall'esercito israeliano, perché verrà costruita una colonia a cinque metri dalla sua abitazione. Nella storia vera la vicinanza con la colonia è irrisoria: si apre la porta della cucina e ci si ritrova nella colonia. Nel film abbiamo cambiato moltissime verità della storia reale per, naturalmente, farne un film”, spiega Costanzo in occasione della presentazione del film a Bologna, lo scorso gennaio. Un sorta di documentario, quindi, o, nella definizione di Costanzo stesso, uno psicodramma (“poi io lo chiamo 'psicodramma' … forse Moreno [Jacob Levi Moreno, fondatore del “Teatro della Spontaneità”, N.d.R.] se la prenderebbe a male, perché non è che abbiamo adoperato proprio il metodo psicologico, però lo chiamiamo così perché c'è dentro moltissimo del nuovo psicodramma”).

“Per motivi di sicurezza” non è stato possibile girare il film in Palestina, per cui Costanzo e i suoi collaboratori hanno dovuto ripiegare sulla Calabria. Non che uno si accorgerebbe del trucco se non lo si sapesse, in quanto le scene esterne sono veramente molto limitate (e la Calabria di Private potrebbe essere Palestina, Libano, Grecia, Albania, … – una faza, una raza – un paese povero, un mediterraneo polveroso e arso dal sole). “Probabilmente se fossimo stati in Palestina o in Israele”, continua il regista, “saremmo stato distratti dal checkpoint, dal carro armato, invece il fatto di restare sempre in una casa, e di non avere fuori niente se non la Calabria, ci costringeva a trovare non soltanto gli escamotage narrativi della sceneggiatura, in fase di scrittura [sebbene Costanzo abbia trascorso sei mesi in Palestina/Isreale a raccogliere materiale, N.d.R.], ma anche in fase di ripresa, e loro [gli attori] dovevano dare al salotto, piuttosto che alla camera da letto, l'aria della Palestina o di Israele, dovevano riempirli dell'anima del loro paese.”

Ed eccoci al 'metodo psicologico' adottato da Costanzo per indurre i protagonisti, un intensissimo Mohammad Bakri e uno splendido Lior Miller in primis, e poi Tomer Russo, Areen Omari, Hend Ayoub, fino ai bambini, a mettere in gioco le proprie emozioni, per dare al film un carattere realistico e per astrarlo dalla sua italianità (la troupe, oltre alla location, è infatti nostrana): “In genere nel cinema si danno riferimenti agli attori, dove sono le telecamere. Noi abbiamo ribaltato tutta la questione, dando all'attore uno spazio come a teatro, uno spazio libero in cui potersi muovere e poi dovevamo essere noi, con una tecnologia molto leggera, con la camera a spalla, ad andare a cercare l'emozione. Anche perché essendo la scena in arabo, e non parlando noi alcun arabo, era un po' una continua traduzione che col movimento di macchina tentavamo di fare per noi stessi. Non ci siamo perciò interessati ad una grammatica cinematografica – anche se poi, ripeto, il film ha una forma di cinema in qualche modo – ci siamo però più che altro occupati di una grammatica umana. Volevamo che l'uomo fosse il protagonista, non il regista. Per questo dico che non è un film di regia: non si costruisce l'emozione con il dettaglio, col campo lungo, col mezzo campo, … si costruisce anche facendo recitare anche a spalla un attore. Penso sia l'unico film […] dove non c'è mai un primo piano. Il nostro lavoro era di cogliere le emozioni in una scena. Sì qualche volta avevamo una faccia, ma se altre volte avevamo una schiena, anche la schiena in qualche modo ci diceva qualcosa. Bakri recitava tutto, non recitava solo con la faccia, con la sua voce. Quindi giravamo questi lunghi piani-sequenza non interrompendo mai il flusso emotivo che doveva essere privilegiato rispetto al piano tecnico, e poi in montaggio abbiamo adoperato una terza scrittura del film – la prima la sceneggiatura, poi la ripresa e la terza il montaggio – per cercare quello che l'occhio deve, perché è abituato e anche perché è giusto, vedere, e cioè un campo, contro campo, un'azione, un movimento [perché] l'azione che non sia troppo statica”.

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