Il Saverio Costanzo Show: Private, un'opera prima d'autore.

Agli attori dunque era richiesto che fossero loro stessi durante le riprese, seguendo sì uno script, un canovaccio narrativo, ma sostanzialmente esprimendo le proprie emozioni, il loro vissuto di palestinesi e israeliani, e recitando ognuno nella propria lingua oltre a qualche parola in inglese, quando i due gruppi, la famiglia da un lato e i soldati dall'altro, si incontrano o scontrano all'interno dell'abitazione. Con l'operatore e il regista, senza capire una parola, ad inseguirli con la macchina da presa; come ammette Costanzo durante la sua quasi commossa descrizione di quei giorni calabresi, “benché non capissimo, voglio dire sapevamo il senso perché l'avevamo scritto, ma benché non capissimo l'arabo o l'israeliano, riuscivamo ad emozionarci ed era un piccolo miracolo”.

Tutti i personaggi sono volutamente stereotipati, “monocromatici, privi di sfumature”; l'intento è quello di farli “diventare metafora di qualcos'altro”, per arrivare ad un punto in cui essi diventano simbolo di tutti i conflitti e il film smette di appartenere “ai Territori, ad Israele, ma appartiene un po' a tutte le guerre. Noi [oltre a Saverio, Camilla Costanzo, Sayed Qashua e Alessio Cremonini, co-sceneggiatori del film, N.d.R.] scrivendo immaginavamo un po' di raccontare una storia di italiani occupati da nazisti. Non volevamo legarci a tutte quelle identità culturali che appartengono a quella delle zone [occupate], cercando di universalizzare le emozioni. La paura per esempio non doveva essere la paura di un bambino palestinese, ma doveva essere semplicemente la paura, poi francese, tedesca o palestinese non cambiava”.

Nel film è preponderante la presenza della famiglia e sicuramente Mohammed Bakri ha il ruol
o principale all'interno di essa, come il suo equivalente reale lo deve avere nella vita vera: è il padre infatti che prende la decisione su cui poi si basa tutta la storia. Quando gli israeliani invadono il privato della sua casa, del suo nucleo affettivo, il capo-famiglia “ritiene che la resistenza pacifica, e perciò il rimanere dentro quella casa, sia una lezione di vita per lui e per i suoi figli, che in questo modo non odieranno loro stessi, non odieranno gli israeliani, o i loro genitori. Lui crede che nel momento in cui diventi un rifugiato, odierai per tutta la vita non solo chi ti ha costretto ad andartene dalla tua casa, ma odierai te stesso”. Un pacifista quindi, che, con le paure e l'idealismo dei pacifisti, mette in atto la sua rivolta personale contro l'occupazione, non solo della sua casa e della sua terra, ma anche della propria esistenza e di quella dei suoi cari.

La madre ha invece un atteggiamento distaccato (un punto di vista “più lascivo”, lo descrive Costanzo) che lì per lì disorienta, forse perché ci si aspetta il melodramma mediterraneo, i pianti, le urla, la disperazione esteriorizzata e portata agli estremi. Al contrario, lei rimane composta, quasi congelata dal terrore che la circonda e che le è entrato dentro, paralizzando le sue reazioni e rendendo la sua preoccupazione per sé e per i figli una specie di scorza che in definitiva serve a proteggerla dalla pazzia. La scena forse più drammatica, in cui la vorremmo coinvolta e disperata, è quella in cui la figlia minore resta chiusa fuori dal soggiorno dove la famiglia è costretta a passare le notti, proprio durante un conflitto a fuoco. La madre riesce ad assopirsi quando cessano gli spari, vinta dalla stanchezza o ancora una volta nascondendosi dalla realtà, e non è neppure la prima il mattino seguente a precipitarsi fuori dalla porta in cerca della bimba. La vorremmo forse più occidentale e ci piacerebbe se riuscisse a contrapporsi al marito e convincerlo ad andarsene, ma lei rimane comunque sottomessa e vittima delle di lui decisioni.

I figli, cinque, la cui età copre dall'infazia all'adolescenza, si ribellano all'ingiustizia di una convivenza imposta, ai loro occhi, da parte del padre. La figlia maggiore, di diciassette-diciotto anni, riuscirà a capire l'atteggiamento paterno e svilupperà verso la fine del film una sorta di curiosità, se non desiderio di comprensione, nei confronti di questi coinquilini in divisa e solo leggermente più grandi di lei. I due ragazzini di mezzo invece, ognuno a modo suo, incarnano la reazione palestinese violenta all'occupazione israeliana, l'uno coi suoi piani di far saltare in aria la serra con una bomba rimediata chissà come, l'altro, più timido ed introverso, coi suoi sogni ad occhi aperti davanti alla TV, immaginandosi, con la kefiya bianco-nera, il mitra e il caricatore di traverso, celebrato come martire per la causa in uno dei tanti video 'promulgativi' della televisione arabo-palestinese.

Per buona parte del lungometraggio, incontriamo i soldati solo nelle scene in cui, a loro volta, vengono a contatto con i familiari, fino al trucchetto dell'armadio: la figlia maggiore prende l'abitudine, rischiosissima in verità, perché una delle condizioni poste alla permanenza della famiglia nella casa è il divieto assoluto di salire al primo piano, dove i militari hanno stabilito il loro quartier generale, pena l'uccisione del capo-famiglia, di nascondersi nel guardaroba del pianerottolo e spiare i ragazzi israeliani, fornendo al regista l'opportunità di 'umanizzarli'. Ed ecco allora che li vediamo scherzare fra di loro, li cogliamo spaventati, annoiati, rassegnati al loro destino di 'invasori' o farsi delle domande sulla giustezza ed eticità degli ordini che ricevono dall'alto.

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