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Deborah Marinacci – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 Maria full of grace https://www.threemonkeysonline.com/it/maria-full-of-grace/ https://www.threemonkeysonline.com/it/maria-full-of-grace/#respond Tue, 01 Mar 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/maria-full-of-grace/ Per la serie 'metti un DVD a cena', per recuperare random quello che si è perso al cinema in una qualche stagione precedente, segnalerei il bel film di Joshua Marston, Maria full of grace, che ho varie volte bypassato tra gli scaffali di Blockbuster, perché convinta si trattasse di una faccenda di Chiesa, ignara che […]

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Per la serie 'metti un DVD a cena', per recuperare random quello che si è perso al cinema in una qualche stagione precedente, segnalerei il bel film di Joshua Marston, Maria full of grace, che ho varie volte bypassato tra gli scaffali di Blockbuster, perché convinta si trattasse di una faccenda di Chiesa, ignara che il titolo fosse metaforico. Tutt’al più immaginavo una biografia moderna della Madonna o qualche convento in cui si praticavano riti non ortodossi.

Ma se guardavo meglio in copertina, avrei scoperto che quello che viene pòrto a Maria, in atto di comunione, non è l’eucarestia, ma un ovulo di cocaina. Solo che il cervello rispetta la buona forma, e perciò il dettaglio mi è sfuggito fino ad adesso.

La Maria del film è piena di grazia perché è incinta, e perché porta con sé la nuova grazia dell’Occidente: chili di cocaina ripartita in ovuli più grandi di chicchi d’uva, depositati nel suo stomaco di ‘mula’.
Le due faccende sono ovviamente collegate ma non è giusto svelare il perché.

La trama è semplice ed efficace: è il resoconto di un cambiamento che parte da una storia claustrofobica di povertà, percorrendo temi come le scelte consce e quelle del caso, le conseguenze di atti quotidiani e banali, la ribellione di ogni giovinezza, al di là della cultura e del contesto. Il film affronta il percorso di una ragazza intelligente segregata nelle strettoie di contingenze economiche, familiari, sociali. E che passa attraverso lo sbaglio, la colpa, per cavarne espiazione vitale.

Una giovane donna che acquisisce padronanza di sé fuggendo dalla cruna di un ago. Attraversando l’errore, il peccato sociale, e la svalutazione di se stessa, riuscirà – apparentemente senza volerlo – a ritagliarsi la sua possibilità nuova, la sua agognata diversità e volontà di vita degna.

Il racconto nasce in una squallida Colombia e confluisce in un’America di impalcature e isolati qualunque, con una sceneggiatura che demagizza qualsiasi tentativo di rendere grazie alla latina fertilità dell’una o al promettente sfavillio dell’altra. La storia, si diceva, è metaforica, ripercorre laicamente quello che forse è il messaggio bipolare delle religioni occidentali (e non solo): colpa/purificazione, sacrificio/ricompensa. Con la differenza che nel film (e nell’esistenza) la tentazione non pare evitabile, non va aggirata: anzi, occorre caderci e insanguinarsi per riuscire a vedersi di nuovo. E la via di Damasco, assolutamente imprevedibile, non è un incontro luminoso e salvifico, bensì una maledizione pericolosa.

L’attrice protagonista è la graziosa Catalina Sandino Moreno (classe 1981) che ha vinto l’Orso d’Argento a Berlino 2004, e che è la stella di un cast assolutamente neorealista: attori ingegnosi e sconosciuti, credibili al punto che la faccenda sembra quasi un documentario. O meglio un documento, che la poesia della sceneggiatura e gli intenti consapevoli della regia rendono una pellicola da tenere presente.

CREDITI
Regia: Joshua Marston
Sceneggiatura: Joshua Marston
Fotografia: Jim Denault
Musiche: Jacobo Lieberman, Leonardo Heiblum
Montaggio: Anne McCabe, Lee Percy
Anno: 2004
Nazione: Stati Uniti / Colombia

CAST
Blanca: Yenni Paola Vega
Carla: Patricia Rae
Diana: Johanna Andrea Mora
Don Fernando: Orlando Tobon
Franklin: John Àlex Toro
Juan: Wilson Guerrero
Juana: Virginia Ariza
Lucy: Guilied Lopez
Maria: Catalina Sandino Moreno

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Insalata di grano alla nizzarda https://www.threemonkeysonline.com/it/insalata-di-grano-alla-nizzarda/ https://www.threemonkeysonline.com/it/insalata-di-grano-alla-nizzarda/#respond Sat, 01 Jan 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/insalata-di-grano-alla-nizzarda/ Piatto unico estivo, ispiratomi dal mio amore per il grano parboiled, una introduzione relativamente recente sulle tavole italiane, dalle caratteristiche assolutamente proprie e uniche. I chicchi di grano sono in effetti un vero piacere fragrante per il palato. Qui in veste provenzale, in una versione molto morbida e gustosa, da accompagnare magari con un bianco […]

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Piatto unico estivo, ispiratomi dal mio amore per il grano parboiled, una introduzione relativamente recente sulle tavole italiane, dalle caratteristiche assolutamente proprie e uniche. I chicchi di grano sono in effetti un vero piacere fragrante per il palato. Qui in veste provenzale, in una versione molto morbida e gustosa, da accompagnare magari con un bianco italiano fermo.

COSA TI SERVE (per 4 persone):
200 g. di grano tenero parboiled*
4 patate
120 g. di tonno al naturale (o sott'olio)
una dozzina di olive verdi grandi
prezzemolo secco
olio extravergine d'oliva
sale

COME SI FA:
1. Portate a bollore una pentola d'acqua e versate il grano parboiled. Salate e fate cuocerlo per 8-10 minuti così come previsto dalla confezione e comunque in base al vostro gusto (meglio se al dente). Scolate, passate sotto l'acqua fredda e tenete da parte.
2. Nel frattempo lavate, pelate e tagliate a cubetti molto piccoli le patate. Cuocetele al vapore fino a che risultino molto morbide.
3. Sgocciolate il tonno e sfilacciatelo con forchetta e coltello, quindi sciacquate le olive verdi.
4. Unite in una insalatiera tutti gli ingredienti, preparate in un bicchiere un battuto di olio d'oliva, sale e prezzemolo e versatelo sul mix di ingredienti. Mescolate e servite!

*nella grande distribuzione è facile trovarlo in un paio di marche.

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La poetessa della naïveté.Intervista all'autrice siriana Maram al-Masri. https://www.threemonkeysonline.com/it/la-poetessa-della-naivet-intervista-allautrice-siriana-maram-al-masri/ https://www.threemonkeysonline.com/it/la-poetessa-della-naivet-intervista-allautrice-siriana-maram-al-masri/#respond Wed, 01 Dec 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/la-poetessa-della-naivet-intervista-allautrice-siriana-maram-al-masri/ Maram al-Masri mi è arrivata in busta gialla, da Genova. Fremente lei, fremente io. Di questo incontro avvenuto per mail, per caso. E che poi si è completato attraverso la sua opera, attraverso il gesto che strappa una busta, e i suoi occhi che in copertina raccontano.Il rapporto polimorfico tra un autore e un lettore, […]

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Maram al-Masri mi è arrivata in busta gialla, da Genova. Fremente lei, fremente io. Di questo incontro avvenuto per mail, per caso. E che poi si è completato attraverso la sua opera, attraverso il gesto che strappa una busta, e i suoi occhi che in copertina raccontano.
Il rapporto polimorfico tra un autore e un lettore, che può prendere mille direzioni possibili e combinarsi in modi impensati, in questo caso ha ottimi presupposti per dilagare. Se non sono solo gli uomini quelli che si relazionano attraverso un testo – ma i loro universi, soprattutto –, allora io arrivo in Siria, e lei in qualche modo emigra qui, nella mia biografia di immaginari occidentali e locali. Apro, e già sento la musica: la annuncia la firma araba dell'autrice e la sua foto tremendamente retrò. Già vedo paesaggi. E non per un gusto gratuitamente mediorientale o per un amore indipendente per lo straniero. Ma per la verve. Che è una cosa che si legge e palpita. E per tutto ciò che le ibridazioni si portano dietro.

Ciliegia rossa su piastrelle bianche. Una promessa, un titolo vertiginoso. Qualcosa di tremendamente piccolo e turgido, sanguigno, posato contro il freddo di una superficie immacolata. Entrambi pronti a devastarsi. Immobili, si minacciano. Un corpo minuscolo e pregno, con linfa di vita, che può schiacciarsi, lacerarsi, marcire, ferirsi. E insanguinare d'un colpo l'intatto pavimento universale. D'un colpo, dilagare e sporcare una base solida, perfetta, funzionale. Che le piastrelle siano le “verità” di Nietzsche? “Illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria”? Che siano l'architettura data per scontata e su cui ci muoviamo perdendo di vista l'artificio? Un piccola galassia fatta di un frutto e una ceramica, una tensione palpitante, un moto nascosto – trattenuto – nella quiete.

Apri, dicevo, e in seconda di copertina trovi il Times. Pezzi grossi, ti viene da pensare, innegabile. Trovi un signore del Times che parla della violenza che questa donna oppone ai tabù (presunti o effettivi) dei suoi natali, dei dettagli di piuma con cui trapassa – lieve – impulsi universali.
In Italia poche righe nella cronaca locale di qualche quotidiano attento, in occasione dei reading. Ma è nelle cantine indipendenti che fermenta il vino buono. E così, nell'insospettabilità d'un silenzio, nel maggio del 2005 l'opera di Maram al-Masri esce per i tipi della Liberodiscrivere, la piccola editrice genovese di Antonello Cassan, che aveva visto lungo già con altri autori promettenti. Ciliegia rossa su piastrelle bianche è pubblicato per la prima volta nel 1997 a Tunisi, ed è da subito accolto col plauso della critica, vincendo, l'anno successivo, il Prix Adonis del Forum Culturale Libanese in Francia. Già tradotto in spagnolo, francese, inglese e còrso, da noi il libro è edito nella collana “nuda poesia”, con testo arabo a fronte e per la traduzione italiana di François-Michel Durazzo.

Una delle prime cose che all'autrice mi viene da chiedere, ingiustamente, è il suo rapporto con la bellezza. Maram è una donna bellissima, e tutto questo c'entra naturalmente con la sua opera. Mi domando in che relazione è con se stessa, come gestiva l'edonismo nella cultura in cui è nata, e in che maniera questo fascino si staglia sulla sua poetica, sul suo sguardo sulle cose.
E scopro come sempre che la bellezza è una teoria semplice del corpo, dei movimenti, della presa sul reale, anzitutto. Una leggerezza del pensiero, una dote di consapevolezza. Quindi un modo naturale di posarsi sugli oggetti, e – contemporaneamente – una maniera in cui le cose dell'esistenza ci trapassano. Come luce, nel caso di questa autrice.
Rileggevo le risposte di Maram mentre ero in viaggio, e il suono delle parole donava il piccolo e fresco brivido della sapienza, dell'essenzialità. Le sue parole evocano l'imperituro fluire e il collocarsi degli uomini e delle donne, piccoli, in questa enormità. “Sbaglio? – mi dice nel suo francese creolo – Non è l'altro che mi dà questa bellezza?”. Una virtù esogena che non esiste in se stessa, sicuramente non di proprietà di chi la porta. “Non sono niente – sottolinea – senza lo sguardo dell'altro. Ho questo viso che dà forma alla mia anima. Non mi faccio illusioni sulla mia bellezza, perché è fragile. Alcuni la amano, altri no perché li urta. Ma grazie ad essa ho ricevuto complimenti commoventi, fiori offerti in strada dalla gente, poesie in suo onore: persone che avevano compreso che questa bellezza è generosa e gratuita. E' un regalo che non si aspetta niente.”
E poi l'amore, che con la perfezione dei tratti non c'entra nulla. Gli uomini che Maram racconta sono pronti ad abbandonare, a dimenticare. Anzi, a restare immobili, a non sapere più osservare. “Una volta ho detto a una mia amica che preferirei essere amata all'essere bella. E lei mi ha risposto che le sarebbe piaciuto essere attraente e sola. Ma che farsene da soli della propria bellezza?!? Incontrandomi, una poetessa disse con cattiveria: è troppo bella per essere un poeta. A volte sento che la gente dubita. Che sono punita e trascurata, e questo mi fa male. Ma c'è quello che scrivo, e questo è importante. I miei testi hanno davanti a sé il tempo di essere amati e apprezzati, io non ne ho altrettanto. Quindi amo festeggiare la mia presenza, la vita. So che il mio viso cambierà, e la bellezza del più splendido dei fiori è destinata ad appassire.”

Le chiedo perciò della seduzione, di questojeu de rôle che è un inno alla figura e che nella sua opera ritorna come arma mite, dolce. E che deve essere stato complicato gestire in mezzo al culto dei veli. Ma per Maram la seduzione non è solo femminilità, o sensualità nel modo convenzionalmente inteso. Ancora una volta, è attenzione. O bisogno di.
Come sostiene Edelman, gli uomini hanno bisogno di parole, perché dotati della malattia dell'emozionabilità, della necessità di destabilizzarsi, di fremere, di mettersi in cortocircuito. E contemporaneamente del desiderio di sicurezza, di conferma. L'urgenza di un momento che convogli su di sé energie, flussi. La propensione a sentirci e diventare punti nevralgici che catturino lo sguardo del mondo. Sedurre quindi nel senso etimologico del condurre a sé. “Penso che la seduzione sia un elemento vivo e importante in ognuno. Nell'arte come nella relazione umana. Sedurre è un richiamo all'amore, al piacere mentale o corporeo. Una relazione che non ha più questo motore è condannata a morte. Un bambino seduce sua madre sin dalla nascita. Sorride… Ricordo di aver visto una bambina in un treno parlare a sua mamma. Mentre lei guardava dal finestrino, osservavo questa bimba di cinque anni e il suo lavorio per sedurre sua madre. Le toccava il viso e la costringeva a guardarla con le sue moine… Ha interpretato davanti a me una scena di seduzione degna d'un artista, solo perché la mamma la guardasse con un sorriso, e per sentire che l'amava. Avevo le lacrime agli occhi. E' un'arte nobile, quella della seduzione. Amo essere ammirata, per me è un rispetto dell'altro, ma è una seduzione senza fini. Non è per arrivare a qualcosa, resta nella bellezza e nella nobiltà. A volte penso di essere veramente ingenua come dicono i miei figli. Ma mi sono liberata di ogni volontà d'ottenere un favore, offro la mia tenerezza alla gente.”

Dal 1982 Maram è fuggita tre volte dalla Siria. Abita a Parigi da ventitré anni, dove tiene un bagaglio che tenta di tenere chiuso, fatto di relazioni morbose e separazioni, di un lutto dolorosissimo. Fino a che, in seguito al rapimento di suo figlio e alle pretese di un Paese che si intrometteva nei suoi diritti senza rispettarli, ha deciso di non metterci più piede. “Ho divorziato con il mio passato, la mia religione, la mia terra, addirittura con la mia lingua. E' stato così per tredici anni. Non ho scritto, non ho rivisto la mia famiglia, ho smesso di mangiare cibo siriano, di ascoltare la radio. Era la punizione che infliggevo al mio Paese, mi distaccavo da lui.” Era la fine dei suoi tentativi di rincorrere “lo statuto di donna rispettata”. Tutto quello che ne sarebbe derivato sarebbe stato una celebrazione dell'indipendenza e della limpidezza, la confluenza del suo istinto in uno stile di vita che gli fosse armonizzato. “Sono una donna libera. Quando ero piccola le mie compagne me lo dicevano sempre. Allora non capivo questa libertà. Per loro era immorale perché nuotavo, ballavo, portavo delle minigonne, salutavo i ragazzi, andavo al cinema. La mia famiglia mi ha mandata a Damasco all'università. Io andavo in Inghilterra, amavo senza nascondermi un ragazzo di un’altra religione. Ho sofferto tanto. Per loro era una specie d'insulto, e per me invece era morale, onesto, non ipocrita, significava stare bene con l'altro, rispettarsi. Essere trasparenti, accordarsi con i propri pensieri.”

Le domando come sia stato possibile dismettere le radici, amputare legami profondi e privatizzare la propria vita di punto in bianco. Tentare, lontana dal suo nucleo, di darle un senso occidentale di atomismo, solipsismo. Qui Maram è drastica e semplicissima: “Sento che non ho nessuna relazione con la terra. Il mio rapporto è con gli esseri. Sono gli esseri che fanno una patria. La patria è là dove siamo rispettati, amati (in terre e être ci sono le stesse lettere…). Amo Parigi perché ci sono i miei figli e le persone a cui voglio bene, le mie abitudini. Questo mi rassicura…. Posso vivere a Granada, a Bologna, a Cordoba, a Roma: ovunque ci sia gente che amo. Non so se potrei ancora vivere in un Paese arabo, tornare in Siria. C'è il resto della mia famiglia, ma penso di no.”

La poesia di Maram al-Masri è una poesia delle piccole cose, di myricae. Il poeta Adonis sottolinea proprio questa sua attenzione al dettaglio, al suo riscoprirlo pregno, denso di significati, quasi parlante. L'oggetto diventa capace di interporsi in una relazione, di prevedere, preannunciare, meditare. Va pertanto decodificato, interpretato: còlto. (Impediscimi, mio saggio marito, /di issarmi sui tacchi della mia femminilità, /perché all'angolo / mi aspetta un giovane).
E' la rivoluzione di una donna che nel biografico ha dato al concetto di libertà una valenza enorme e minuziosissima. Tanto penetrante quanto realizzata da pezzi piccoli, dalla scoperta di possibilità non scontate, ma preziose e quotidiane. Quest'occhio infantile, questa ingenua attenzione all'oggetto, questo semantizzarlo e rinnovarlo, l'ergerlo a 'ponte e porta' di universi intimi, è il frutto di un percorso non convenzionale. Intricato e infine privilegiato. L'armonia di Maram è passata per il rinnegarsi, per l'annullarsi, fino al raggiungimento della capacità attenta di riflessione sul sé e sugli altri, col vantaggio di un occhio ibrido. Laddove la creolizzazione, la 'vita altrove' non è un party patinato dal gusto esotico. Ma sofferenza, difficoltà di collocazione e attribuzione di senso e continuità al proprio vivere e sentire. “Sono sempre stata una donna 'meticciata', tra due culture. Già quando ero in Siria. Occidentalizzata dai miei fratelli che amavano i Beatles e Bob Dylan, grazie alla letteratura tradotta dei film, a una mamma artista, un padre laico libanese di madre cristiana. Soffrivo laggiù e soffro qui. Non sono occidentale. Non ne ho né i mezzi né l'indipendenza. Ho questo mélange di donna sottomessa e ribelle. La mia libertà è talmente difficile e desiderata. Ho tanto sofferto per lei. L'ho tanto cercata. E' vero. Ora so che la libertà è anche mettere del rossetto, portare una gonna corta, andare a braccia nude. Sono stata privata di questa libertà, in Francia, e questo può sembrare strano. Nulla come uscire la sera è una libertà. Andare all'università è una libertà, guidare una macchina lo è. Non ho giudizi morali sulla libertà sessuale. Ciò che non nuoce a nessuno è permesso. Il sesso e l'amore per me sono legati. Sono una ricerca di libertà.”

L'impulso lirico di Maram è passato rapido per un momento che potremmo definire 'civile': temi etici, patriottici, ma solo per disfarsene già da giovanissima. E' la linfa delle piccolezze umane quella che nutre i suoi versi. Non un amore romantico, languido. Ma un vivido e quotidiano muoversi in casa, in strada, in viaggio. E un linguaggio che è parte dell'universo, che non ha la funzione di descriverlo ma di crearlo. (Là dove non c'è erba / che cresce, / mi afferro / ai piedi delle parole). Le parole come cose, le parole che realizzano, battezzano, compiono riti. In ogni caso, uno stile morbido ma addosso a cui stonano le etichette, e i tentativi di vederci ciò che non è. Inutile anche accostarla a questa o quella scrittrice americana o nostrana. “Ovviamente – spiega – c'è la cultura araba nelle mie poesie. Allo stesso modo in cui ritrovo un'influenza occidentale nei miei primi libri scritti in Siria. E' come un frutto che non somiglia a nessuna delle due. I critici arabi trovano difficile classificarmi in una forma conosciuta, così come quelli occidentali. Qualche volta ho utilizzato il Corano. Non so in che modo. Ma la mia cultura mista risente del vissuto di questa donna di cui parlo. Dei suoi desideri, delle sue paure. Dei fantasmi e delle ingenuità. In effetti parlo di una donna che può essere araba, francese, spagnola o italiana, perché lei è me e te.”

Arrivo alla storia delle ciliegie e del pavimento. Mi dice che indovino l'interpretazione. Che è vero, nelle sue poesie la donna è una figura solitaria, straniera, ma rigonfia, passionale. E l'uomo, un uomo “senza creazione”. Infantile, incapace di plasmare forme, di creare delicatezze, di reinventarsi, incapace di dotarsi di occhi nuovi.
E' qui forse che Maram è le sue origini, i suoi cammini. Lei più volte si definisce naïve, che è un modo di dire ingenua, ma soprattutto essenziale, abbozzata, tratteggiata. E in effetti, con naturalezza sapiente e paziente, ricrea categorie poco sfumate, tinte basilari, fondamentali, che quasi si oppongono e servono a generare colori nuovi attraverso la mescolanza. Quando si riferisce all'ancestrale dicotomizzazione dell'universo dei sessi, riusciamo a salire sulle sue altalene, a vedere la sensuale donna mediorientale che vuole fuggire e giocare, e contemporaneamente prega l'amante-signore (mio buon marito) di essere trattenuta. (M'infiamma il desiderio/ e brillano i miei occhi. /Sistemo la morale nel primo cassetto che trovo, / mi muto in demonio, / e bendo gli occhi dei miei angeli / per / un bacio).

Maram pare nutrire una sorta di indifferenza per l'eccessivo esercizio di complessificare ogni cosa. Le garbano le forze universali, magmatiche, le leggi di sempre. Quelle dei fulcri e del
le calamite. Tra le due metà del mondo, uomo e donna, si collocano il desiderio, la vitalità, la menzogna, la rivalità. Il cuore-ciliegia. E l'incapacità di difenderlo, la costanza nel ripercorrere i propri drammi, la familiarità del dolore, a cui ci si consegna – ingenui – come a un genitore.


Maram al Masri – Libero di Scrivere

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Le conseguenze dell&apos;amore https://www.threemonkeysonline.com/it/le-conseguenze-dellamore/ https://www.threemonkeysonline.com/it/le-conseguenze-dellamore/#respond Mon, 01 Nov 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/le-conseguenze-dellamore/ L’affascinante accoppiata Sorrentino-Servillo ricorda quella altrettanto felice (ma in chiave hollywoodiana, e di gran moda in questi giorni) che mette assieme Tim Burton e Johnny Depp.I due artisti italiani hanno loro peculiarità accattivanti e assolutamente precipue. Niente di più lontano dai colleghi USA, ma a loro forse assimilabili in virtù dell'armonia sul set, del fatto […]

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L’affascinante accoppiata Sorrentino-Servillo ricorda quella altrettanto felice (ma in chiave hollywoodiana, e di gran moda in questi giorni) che mette assieme Tim Burton e Johnny Depp.I due artisti italiani hanno loro peculiarità accattivanti e assolutamente precipue. Niente di più lontano dai colleghi USA, ma a loro forse assimilabili in virtù dell'armonia sul set, del fatto che abbiano già lavorato insieme (L'uomo in più, 2001) e che sia palpitante nell'opera una sintonia 'naturale', una sorta di continuità personale, oltre che professionale. Sentendoli parlare (di se stessi e l'uno dell'altro) questa ipotesi sembra prendere ancora più forza, e in questo sodalizio risiede un pezzo della bontà del film.

La pellicola (in una parola: psichedelica) è uscita al cinema nell'autunno del 2004, e chi scrive l'ha dunque vista in DVD, corredato di extra e retroscena. A questo proposito, quando si ha a che fare col menu dei dischi, una delle cose che viene da domandarsi è quanto sia giusta e importante la possibilità di vedere dietro il sipario. Interrogarsi sul rapporto di un prodotto culturale e artistico, il testo filmico, con la scena che lo ha generato o con i postumi che ha innescato.Cioè: un'intervista agli autori, o le scene tagliate, gli inizi alternativi, la ripresa delle riprese fanno bene alla magia del film? E' giusto conoscere i momenti in cui tutto quello che dopo il montaggio vediamo scorrere come coerente, nato dal nulla, realistico, continuum con le nostre poltrone, non è ancora un fatto estetico? Come per quasi ogni cosa, dipende.

L'effetto degli extra può stimolare la curiosità ma demagizzare qualcosa che basa la sua natura sull'astrazione. Tuttavia questo è vero solo per prodotti mediocri, per quelli che se la sono cavata, magari per una trovata felice o per pigra generosità dello spettatore.Dunque nel caso di Le conseguenze dell'amore, che è un film assolutamente trasportante e che regala il magnifico effetto di non voler vedere altro per una buona mezz'ora, di non sottoporsi ad altro stimolo finché quello passato non abbia consumato il suo potenziale, gli extra sono un dappiù gradito, un contorno che viene visto come trasparente e che ci tiene ancora conservati nel barattolo emozionale di Paolo Sorrentino.

La trama intesa come sequenza non è importante, come in tutti i film di questa foggia, se non per dire che è imprevedibile, che si compie nel mistero di se stessa.Abbiamo un professionista imperscrutabile, algido, che si porta dentro una maledizione paziente, e addosso il suo nome, Titta Di Girolamo. Interpretato da un John Malkovich italiano, Toni Servillo, il protagonista è un uomo che si muove tra un albergo e parcheggi sotteranei, tra non-spazi lucidi, moderni, che si porta nella valigia il suo segreto, che guarda dalle vetrate e in silenzio schernisce gli altri e se stesso. Un uomo confinato nel suo mutismo e nella sua profondità, nell'osservazione dell'accadere, della gente, magma indifferenziato nel quale – tuttavia – nonostante il disincanto e la perdizione, cerca un colore, una tinta vivida.

Il rapporto con il topic (qual è in questo caso se non la vita?) è assolutamente originale, capace di passare senza strozzature da una battuta di dialogo in un raffinatissimo napoletano (salernitano, in verità) ad accelerazioni e rallentamenti della scena in chiave chill out, cadenzando il racconto in base ad un ritmo che è mentale, neuronale. E' questa la bella metafora di Sorrentino: un Servillo che è assolutamente fermo o si muove ai ritmi della vita umana, coi suoi cicli, con le sue stanchezze e banalità, con le sue dorate e passionali illusioni. Una fiaba scarna, cattiva, moderna: una fiamma azzurrata da laboratorio di chimica. Dove le armi e il denaro non sono pericolosi. Ma i sentimenti, fatali.

Toni Servillo è una maschera veneziana: i tratti capaci della più lucente fermezza e gli occhi che interpretano l'alterità, il fascino, l'intelligenza: virtù del personaggio quanto dell'attore, che è preparatissimo, serio, accurato (negli spezzoni del set lo vediamo lontanissimo da bizze e gaffe, concentrato sul ruolo, sull'aura). Un attore ragioniere e passionale, forse davvero come il commercialista ambiguo che è Titta Di Girolamo.

Geniali anche alcune trovate della macchina da presa, come il capovolgimento della scena su se stessa durante un'iniezione di eroina. Il momento diviene davvero bianco, liquido, suggellato da una colonna sonora magistrale e altrettanto allucinata, visionaria. Qui la musica sottolinea più che altrove personalità, stati d'animo, contraddizioni. Memorabile, tra gli altri, un viaggio in auto in cui un giovane personaggio, controverso e lucidamente crudele, canticchia sulla voce che esce dallo stereo (quella suadente della Vanoni) una canzone fintamente ingenua, pulita, colonna sonora di un omicidio appena consumato, che si realizza con naturalezza, quasi delicatezza. In modo 'omeopatico', imprescindibile.

L'elegante e placida eroina del film, quella chiamata a incarnare la 'Possibile Salvezza' è la nipote della Magnani, Olivia, ben credibile sulla scena, e un po' meno nello spazio diverso ed estemporaneo di un'intervista, dove tradisce acerbità (e boria) nel rapporto col suo cognome e col suo lavoro d'attrice, un po' imbarazzata davanti alle domande più complesse o a quelle private.Improponibile l'altro figlio d'arte, il giovane Adriano Giannini, che interpreta il fratello minore di Servillo, un misto indeciso tra il blasé e il gitano, tra il romano e il partenopeo (ma trattasi di un personaggio volante con lo scopo di svelare qualche carta dell'arcano biografico del protagonista). Come dire: non basta essere parenti.

Ma il cast tecnico, la genialità di musica e fotografia, e appunto il binomio di un regista brillante e un attore profondissimo (tra l'altro conterranei), sono chiavi di volta più che trionfali. Niente si spiega, diceva il maestro-fotografo Cartier-Bresson, tutto si suggerisce: nella pellicola molto dialogo è affidato ai colori, alla luce, al grigio quasi gelido o al rossastro da moquette.

E il gioco del film è attraente e spietato sin dall'inizio. Quasi perverso, vizioso. Dietro la vita fa capolino il nulla, e dietro di esso, ancora, la speranza di salvezza. Tutto con una leggerezza autunnale, di foglie, in una città d'ovatta innominata. Che sembra silenziosa, ininfluente, ma che invece è liquida e feroce; soprattutto, trasforma le cose. Vano, infatti, che il protagonista appunti, tra i progetti per il futuro, di “non sottovalutare le conseguenze dell'amore”.

CREDITIRegia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Fotografia: Luca Bigazzi
Musiche: Pasquale Catalano
Montaggio: Giogiò Franchini
Anno: 2004
Nazione: Italia
Distribuzione: Fandango
Durata: 100′
Data uscita in Italia: 24 settembre 2004
Genere: drammatico

CASTCarlo: Raffaele Pisu
Isabella: Angela Goodwin
Sofia: Olivia Magnani
Titta: Toni Servillo
Valerio: Adriano Giannini

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Le armi di una vita patinata: Invisible Monsters di Chuck Palahniuk https://www.threemonkeysonline.com/it/le-armi-di-una-vita-patinata-invisible-monsters-di-chuck-palahniuk/ https://www.threemonkeysonline.com/it/le-armi-di-una-vita-patinata-invisible-monsters-di-chuck-palahniuk/#respond Mon, 01 Nov 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/le-armi-di-una-vita-patinata-invisible-monsters-di-chuck-palahniuk/ Immaginate una donna bellissima, veli di seta georgette che le nascondano il viso e la rendano perciò ancora più seducente. Immaginate che non possa parlare, e che per parlare lei scriva. Immaginatela un misto tra egocentrica e viziata, figlia adorata, modella semi-affermata.Poi: cancellate tutto. Anzi, capovolgete di segno le aspettative, quello che i presupposti comporterebbero. […]

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Immaginate una donna bellissima, veli di seta georgette che le nascondano il viso e la rendano perciò ancora più seducente. Immaginate che non possa parlare, e che per parlare lei scriva. Immaginatela un misto tra egocentrica e viziata, figlia adorata, modella semi-affermata.Poi: cancellate tutto. Anzi, capovolgete di segno le aspettative, quello che i presupposti comporterebbero. La prospettiva, qui, è assolutamente un'altra.
Chuck Palahniuk rivolge allo specchio, e allo specchio del lettore, una domanda del tipo uovo-gallina, essere-non essere. 'Niente è ciò che sembra': questo il potenziale sottotitolo del romanzo, che è un continuo smentire le apparenze, una (de)costruzione illimitata di spoglie fittizie, un gioco in cui ognuno sa la verità ma non la verità dell'altro, e a questa immagine recepita adegua la propria versione di vita.
Quella di Invisible Monsters è una storia che sconvolge le premesse, di gente che cerca di rendere inediti i propri copioni, dove – volutamente e no – sono andate perse le tracce dei fatti, delle cose risapute, a vantaggio di configurazioni e relazioni reinventate. Ognuno vede nell'altro il proprio sé migliore o il sé che desidera, ognuno funge per chi ha davanti da specchio delle mie brame. E la presenza assoluta a se stessi, il riuscire a percepirsi senza il medium che è l'altrui sguardo o parola, l'auto-percezione perfetta, diventano operazioni impossibili.

Invisible Monsters è uno specchietto retrovisore potenzialmente infinito. Un tentativo di seguire strade che si credono nuove e che invece riportano all'inizio. Saremmo gli stessi anche con cento vite? Fatto sta che i fili del romanzo tornano tutti, si dissolvono per riallacciarsi. L'esito è come sempre nel percorso, il valore aggiunto è rappresentato dal viaggio, che per definizione è riscatto, uscita di sé. Anche quando l'arrivo e la partenza, come su pista, paiono coincidere.

E così Shannon McFarland, l'abbagliante protagonista del libro, ha un corpo perfetto e un viso da mostro, impensabile, inguardabile, perché qualcosa – 'gli uccelli', lei dice – le ha mangiato la faccia. Le ossa della mandibola di Shannon non esistono più, e lei non può parlare. Ma può comunicarci che la bellezza nasconde mostri inaspettati, esigenze esasperate. Che la perfezione pretende. La perfezione odierna di un'esistenza felice passa per qualcosa di simile a un ricalco-rotocalco, disumana, inautentica, perciò chi la insegue crea dei mostri di plastica e sangue, di ossa e cartoon. Figurine più o meno mutilate in onore dell'ego che più ci piace. (Ma intanto cos'è reale? Cos'è che stabilisce la genuinità di un corpo?).
Non dà giudizi di valore, Palahniuk: semplicemente dimostra come oggi – e mai così – le metamorfosi possano essere radicali. Ognuno può scegliere l'identità che più gli garba. Dentro e fuori, fin dove vuole.

Ma con leggerezza blasé, con una consapevolezza quasi scontata, l'autore ci avverte che le identificazioni progressive, per quanta forza abbiano, mai scalzano la memoria, né cancellano il nucleo. Le fughe da se stessi sono démodé, ci si accontenta solo di accessoriarsi con qualche protesi più o meno invasiva. O di darsi un nome più chic e adatto all'occorrenza.
Difatti, per quanto il libro sia la storia di edonisti (a loro modo), di gente che insegue l'immagine perfetta, la bellezza ideale, il momento sublime, – nonostante questo – il percorso ha delle piccole nicchie che nascondono fabbriche. Come le insospettabili celle degli alveari. Come le crepe sotto le città: ogni cosa è liscia, sopra, e la superficie è fatta per scorrere. Eppure tutto, inconsapevole, è costruito sul vuoto.
Sono due le falle principali, quelle che generano la storia e in cui la storia, silenziosa e inevitabile, confluisce: la famiglia e il passato. La “sanguinosa infanzia” (per dirla con Michele Mari) pare essere il filo rosso a cui non ci si può sottrarre.

Lo stile del romanzo è elegantissimo e d'atmosfera, nel senso che l'autore conosce ed evoca il linguaggio e le cornici del mondo fashion addict, universo che oggi pare coinvolgere un pubblico più vasto degli stretti interessati.
L'interferenza narrativa è inesistente: è la protagonista che parla, pensa, racconta. Tenta di guardarsi e oggettivarsi, scandisce l'esistenza come un servizio fotografico. Il racconto è a scatola cinese, come sempre in Palahniuk, indiscusso 'maestro di montaggio' che frammenta il plot quasi senza accorgersene, e di questa polverizzazione si serve per depistare il lettore e coglierlo alle spalle fino all'ultima pagina.
Sorprendente il finale di Invisible Monsters: commozione là dove non te l'aspetti, ingenuo pathos nel bel mezzo di una nevrosi. E' che qui l'autore pare mostrare una sorta di benevolenza per i suoi personaggi-caricatura, per i volti da copertina che il lettore invidia e ammira in egual misura, fino a quando scopre che questi uomini finiscono proprio col non essere, persi nell'allenamento cieco al 'come-tu-mi-vuoi'. E forse questo tocco neo-decadente è parte stessa del finissimo cinismo di Chuck 'genio del male' Palahniuk, e del tempo che lo feconda.
Leggere il romanzo significa ritrovare nella stessa stanza fucili, pennelli da ombretto e flaconi di estrogeni, e scoprire come un insieme tanto arbitrario sia in realtà un campo di oggetti significanti che rispondono allo stesso bisogno di difesa (nel caso dei personaggi di Palahniuk soprattutto da sé stessi). C'è chi considera questo romanzo – esordio privato, boicottato dalle case editrici – il capolavoro dell'autore. In ogni caso egli qui dipinge precisissime marionette di quel teatro sperimentale che è il ventunesimo secolo. Personalità complesse fino alla possibilità non remota dell'autodistruzione, dell'annullamento a scopo di rinascita, della mutilazione a scopo di vendetta o espiazione. C'è spazio per la metamorfosi lenta e progressiva, nel libro, ossessiva e radicale. E anche per quella ferrea che avviene in un sol colpo, che lascia serrate le labbra di chi vorrebbe chiedere: meditazione o follia?

Se c'è una morale nel libro di Palahniuk, se c'è un punto di ritorno, è che forse qualsiasi gesto compiamo contro qualcosa, è un gesto per quel qualcosa. O che ad esso conduce.

Chuck Palahniuk
INVISIBLE MONSTERS
Piccola Biblioteca Oscar Mondatori
pp. 227 – euro 7,80

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Patate in insalata alla Parmentier – reportage de cuisine https://www.threemonkeysonline.com/it/patate-in-insalata-alla-parmentier-reportage-de-cuisine/ https://www.threemonkeysonline.com/it/patate-in-insalata-alla-parmentier-reportage-de-cuisine/#respond Fri, 01 Oct 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/patate-in-insalata-alla-parmentier-reportage-de-cuisine/ Nella cucina di mia madre campeggia una bella nomenclatura parigina illustrata di pommes de terre: una ventina di varietà di patate con nomi sopraffini, da Belle de Lorraine a Négresse Patrage. La popolarità di cui la “radice di Hannover” gode in terra di Francia ha astute radici pubblicitarie che si collocano in quella terra di […]

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Nella cucina di mia madre campeggia una bella nomenclatura parigina illustrata di pommes de terre: una ventina di varietà di patate con nomi sopraffini, da Belle de Lorraine a Négresse Patrage.

La popolarità di cui la “radice di Hannover” gode in terra di Francia ha astute radici pubblicitarie che si collocano in quella terra di mezzo tra la storia e l'aneddoto.
Bistrattata in Europa sin dall'arrivo dal Nuovo Mondo e relegata ad alimento per poveri e animali, la patata avrebbe in realtà potuto risolvere i problemi di carestia e denutrizione del XVIII secolo.
Di ritorno dalla guerra dei Sette Anni, salvato dalla sua alimentazione basata sul tubero, per convincere la Francia della sua bontà e del valore nutrizionale, il chimico e agronomo Antoine-Augustin de Parmentier (1737-1813) ideò una vera e propria campagna di comunicazione persuasiva.
Nel 1767 organizzò a Versailles una cena destinata alla storia, con venti superbe portate, che vedevano tutte la patata come protagonista e dilettavano le papille di nobili, scienziati e illustri ospiti stranieri. I giornali di tutta la nazione fecero da risonanza alla “cena delle patate”.
Parmentier convinse quindi il re e la nobiltà a coltivare il tubero nei propri giardini, con tanto di guardie che proteggessero i recinti, innescando nella coscienza della popolazione un'associazione semplice ma efficace di proibizione e desiderio. Nel 1786 portò a corte dei fiori di patata per l'occhiello del re e i capelli della consorte.

Parmentier aveva vinto: la patata era stata dotata di snob appeal: il consumo di corte non poteva che sedurre le folle e indurle ad imitare la tavola del re.
Nel 1789, alla vigilia della presa della Bastiglia, cominciò la semina su larga scala.

In onore del suo 'pubblicitario' e della nazione che le ha reso giustizia, la ricetta che segue coniuga la patata con un delizioso intingolo in tipico french style, realizzata però con ingredienti tradizionali e di sicura presenza in frigo e dispensa!

COSA TI SERVE (PER 4 PERSONE):

4 uova
750 g. di patate
6 cucchiai di aceto (o aceto balsamico)
6 cucchiai di brodo caldo
125 g. di maionese
1 bicchiere di panna da cucina
1 pizzico di prezzemolo essiccato
qualche ciuffo di prezzemolo fresco
sale q.b.

COME SI FA:

1. Preparate una piccola quantità di brodo di dado.
2. Immergete le uova in un pentolino d'acqua e dal bollore lasciatele rassodare per 7 minuti. Passatele sotto l'acqua corrente e sgusciatele.
3. Lavate bene le patate e mettetele in una casseruola coperte d'acqua. Da quando comincia a bollire, calcolate mezz'ora prima di toglierle dal fuoco. Quindi sbucciatele ancora calde, tagliatele a cubetti e mettetele in una terrina.
4. In una scodella mescolate bene 3 cucchiai di aceto con 6 di brodo e una presa di sale. Versate il miscuglio sulle patate.
5. Tritate finissimamente 3 delle uova sode e versate anche questo composto nella ciotola con le patate.
6. Amalgamate in un'altra scodella la maionese, la panna, un pizzico di sale, l'aceto che resta e il prezzemolo essiccato. Aggiungete tutto alle patate, mescolate delicatamente e lasciate riposare per qualche minuto, o per una mezz'ora se desiderate un'insalata fredda.
7. Disponete tutto in un'insalatiera o direttamente nei piatti da portata, e guarnite con delle fettine rotonde ricavate dall'uovo rimasto e con i ciuffi di prezzemolo.

VARIANTE

Per una leggerezza maggiore, potete usare un vasetto di yogurt al posto della maionese. Accompagnare con un Fiano di Avellino, bianco irpino DOCG leggero e fruttato.

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Mi presenti i tuoi? https://www.threemonkeysonline.com/it/mi-presenti-i-tuoi/ https://www.threemonkeysonline.com/it/mi-presenti-i-tuoi/#respond Thu, 01 Jul 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/mi-presenti-i-tuoi/ Il sequel di Ti presento i miei è uno di quei fenomeni che smuovono province e città in direzione del secondo spettacolo serale del venerdì. Quelli che chiudono le folle negli orrendi multisala postindustriali almeno un paio d'ore prima dell'inizio, data la necessità di un parcheggio, di un posto non in prima fila, di una […]

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Il sequel di Ti presento i miei è uno di quei fenomeni che smuovono province e città in direzione del secondo spettacolo serale del venerdì. Quelli che chiudono le folle negli orrendi multisala postindustriali almeno un paio d'ore prima dell'inizio, data la necessità di un parcheggio, di un posto non in prima fila, di una cena da migliaia di calorie, del popcorn, di un bagno.

Non è dato di sapere perché la gente abbia tanto bisogno di ridere, non si sa perché sia disposta a meritarseli, cento minuti di divertissement, perché sia disposto a penitenze preventive, ad attuare un meccanismo non necessario di sacrificio-ricompensa, a crearsi sofferenza per poi regalarsi un premio. Conosco un po' di militari che non vanno al cinema perché ricorda loro la fila per il rancio. Gente che non mangiava e perdeva chili pur di non suppliziarsi nell'attesa.

L'attesa non ha nessun fascino, abbiamo tempi da microonde, quello della bollitura dell'acqua ci pare prossimo ad infinito. Eppure per una promessa di abbondante e stolto riso, sudiamo, occupiamo tavoli con borse e cappotti, paghiamo più del pagabile, tratteniamo le urine, ci facciamo spingere da quelli dietro per continuare la ola e riversare la pressione su quelli davanti. Per una poltrona non più comoda delle nostre normali rateizzate poltrone. La crisi del cinema pare non esistere in questi casi. Non c'è desiderio di pantofole che tenga. L'io c'ero è la spinta più forte di tutte. Anche nel caso di Mi presenti i tuoi?, se è una cosa abbastanza pubblicizzata e preannunciata, se è roba da evento, se se ne parla al bar, se lo conoscono tutti. Se ilregista e la pellicola che lo ha preceduto sono entrati nel “cerchio della fiducia”.

Sarà l'idea di ridere ai tempi di trecento persone pur non vedendosi né assolutamente conoscendosi, l'idea tutta contemporanea della fruizione collettiva dell'emozione, il pensiero stupido di uscire dal cinema e di avere negli occhi la stessa sequenza di cui un'altra folla sta parlando in Francia, in Galles, a Manhattan, all'uscita da un cinema. L'idea della simultaneità delle faccende mediatiche.

Mi presenti i tuoi? è quel genere di lavori a cui concedi il diritto di prenderti sottilmente in giro, che sembrano fare un patto chiaro di collaborazione e consapevolezza con lo spettatore, un tipo d'opera che ha dietro di sé quel talento e quell'ingegno palesi che non fa nulla se è un'operazione commerciale quella di girare il seguito di una storia da incassi record. E' giusto, che passi. Che passino forse anche i sette euro, se c'è la balbuzie di Dustin Hoffman e la sua straordinaria capacità di assorbire l'aura di qualsiasi personaggio pur conservando i suoi vezzi, se ci sono la vecchiaia meravigliosa di Robert De Niro, il lifting adorabile di Barbra Streisand, la furbizia giovane di Ben Stiller.

Le basi del primo capitolo ci sono tutte: permane il congegno di identificazione con un amore paterno contadinotto che pur ha per protagonista un ex-agente CIA, come pure il continuo equivoco scespiriano che domina le vicende e ad altro non serve che a creare il presupposto per districarle con la complicità attentiva dello spettatore.

La comicità della pellicola è estremamente trasparente (se trasparente è un termine accettabile), come quasi non si riesce più a fare. Pare non esserci più il riso slegato dalla banalità o dall'imbarazzo, dall'osceno, cioè dal senza scena, dal fuori posto. Non so se ci sia mai stato. Se sì non credo appartenga alla televisione, ad esempio, trannein eccezioni che per loro natura confermano la regola.

Il flusso ininterrotto di punti comici del film ci pare naturale, ma chi pensa in termini ironici, chi vede le cose nella cornice della buffoneria pensa come il poeta, pensa aporisticamente, cioè facendo convivere le contraddizioni. Sono quelle, che fanno cortocircuitare il pensiero e creano l'emozionabilità. L'emozione è falsificabile, è un processo neuronale come un altro, e chi sa mettere mano al cervello senza aprirlo hadel genio.

Jay Roach e la sua compagnia di realizzatori sono di questi, e lo hanno dimostrato, soprattutto a quelli che sostengono che i grandi numeri non contano solo perché sono grandi. Anche gli appassionati di polpettoni hanno taciuto, pure gli amanti del filmsociale, del film cosiddetto d'autore o di nicchia. Non c'è niente da capire, niente da sapere, ed è innegabile che anche questo a volte sia delizioso, oltre che necessario.E poi chi vuole proprio osservare, studiare, spiegare, può sempre analizzare “il metodo Fotter”.

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