La poetessa della naïveté.
Intervista all'autrice siriana Maram al-Masri.

Maram al-Masri mi è arrivata in busta gialla, da Genova. Fremente lei, fremente io. Di questo incontro avvenuto per mail, per caso. E che poi si è completato attraverso la sua opera, attraverso il gesto che strappa una busta, e i suoi occhi che in copertina raccontano.
Il rapporto polimorfico tra un autore e un lettore, che può prendere mille direzioni possibili e combinarsi in modi impensati, in questo caso ha ottimi presupposti per dilagare. Se non sono solo gli uomini quelli che si relazionano attraverso un testo – ma i loro universi, soprattutto –, allora io arrivo in Siria, e lei in qualche modo emigra qui, nella mia biografia di immaginari occidentali e locali. Apro, e già sento la musica: la annuncia la firma araba dell'autrice e la sua foto tremendamente retrò. Già vedo paesaggi. E non per un gusto gratuitamente mediorientale o per un amore indipendente per lo straniero. Ma per la verve. Che è una cosa che si legge e palpita. E per tutto ciò che le ibridazioni si portano dietro.

Ciliegia rossa su piastrelle bianche. Una promessa, un titolo vertiginoso. Qualcosa di tremendamente piccolo e turgido, sanguigno, posato contro il freddo di una superficie immacolata. Entrambi pronti a devastarsi. Immobili, si minacciano. Un corpo minuscolo e pregno, con linfa di vita, che può schiacciarsi, lacerarsi, marcire, ferirsi. E insanguinare d'un colpo l'intatto pavimento universale. D'un colpo, dilagare e sporcare una base solida, perfetta, funzionale. Che le piastrelle siano le “verità” di Nietzsche? “Illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria”? Che siano l'architettura data per scontata e su cui ci muoviamo perdendo di vista l'artificio? Un piccola galassia fatta di un frutto e una ceramica, una tensione palpitante, un moto nascosto – trattenuto – nella quiete.

Apri, dicevo, e in seconda di copertina trovi il Times. Pezzi grossi, ti viene da pensare, innegabile. Trovi un signore del Times che parla della violenza che questa donna oppone ai tabù (presunti o effettivi) dei suoi natali, dei dettagli di piuma con cui trapassa – lieve – impulsi universali.
In Italia poche righe nella cronaca locale di qualche quotidiano attento, in occasione dei reading. Ma è nelle cantine indipendenti che fermenta il vino buono. E così, nell'insospettabilità d'un silenzio, nel maggio del 2005 l'opera di Maram al-Masri esce per i tipi della Liberodiscrivere, la piccola editrice genovese di Antonello Cassan, che aveva visto lungo già con altri autori promettenti. Ciliegia rossa su piastrelle bianche è pubblicato per la prima volta nel 1997 a Tunisi, ed è da subito accolto col plauso della critica, vincendo, l'anno successivo, il Prix Adonis del Forum Culturale Libanese in Francia. Già tradotto in spagnolo, francese, inglese e còrso, da noi il libro è edito nella collana “nuda poesia”, con testo arabo a fronte e per la traduzione italiana di François-Michel Durazzo.

Una delle prime cose che all'autrice mi viene da chiedere, ingiustamente, è il suo rapporto con la bellezza. Maram è una donna bellissima, e tutto questo c'entra naturalmente con la sua opera. Mi domando in che relazione è con se stessa, come gestiva l'edonismo nella cultura in cui è nata, e in che maniera questo fascino si staglia sulla sua poetica, sul suo sguardo sulle cose.
E scopro come sempre che la bellezza è una teoria semplice del corpo, dei movimenti, della presa sul reale, anzitutto. Una leggerezza del pensiero, una dote di consapevolezza. Quindi un modo naturale di posarsi sugli oggetti, e – contemporaneamente – una maniera in cui le cose dell'esistenza ci trapassano. Come luce, nel caso di questa autrice.
Rileggevo le risposte di Maram mentre ero in viaggio, e il suono delle parole donava il piccolo e fresco brivido della sapienza, dell'essenzialità. Le sue parole evocano l'imperituro fluire e il collocarsi degli uomini e delle donne, piccoli, in questa enormità. “Sbaglio? – mi dice nel suo francese creolo – Non è l'altro che mi dà questa bellezza?”. Una virtù esogena che non esiste in se stessa, sicuramente non di proprietà di chi la porta. “Non sono niente – sottolinea – senza lo sguardo dell'altro. Ho questo viso che dà forma alla mia anima. Non mi faccio illusioni sulla mia bellezza, perché è fragile. Alcuni la amano, altri no perché li urta. Ma grazie ad essa ho ricevuto complimenti commoventi, fiori offerti in strada dalla gente, poesie in suo onore: persone che avevano compreso che questa bellezza è generosa e gratuita. E' un regalo che non si aspetta niente.”
E poi l'amore, che con la perfezione dei tratti non c'entra nulla. Gli uomini che Maram racconta sono pronti ad abbandonare, a dimenticare. Anzi, a restare immobili, a non sapere più osservare. “Una volta ho detto a una mia amica che preferirei essere amata all'essere bella. E lei mi ha risposto che le sarebbe piaciuto essere attraente e sola. Ma che farsene da soli della propria bellezza?!? Incontrandomi, una poetessa disse con cattiveria: è troppo bella per essere un poeta. A volte sento che la gente dubita. Che sono punita e trascurata, e questo mi fa male. Ma c'è quello che scrivo, e questo è importante. I miei testi hanno davanti a sé il tempo di essere amati e apprezzati, io non ne ho altrettanto. Quindi amo festeggiare la mia presenza, la vita. So che il mio viso cambierà, e la bellezza del più splendido dei fiori è destinata ad appassire.”

Le chiedo perciò della seduzione, di questojeu de rôle che è un inno alla figura e che nella sua opera ritorna come arma mite, dolce. E che deve essere stato complicato gestire in mezzo al culto dei veli. Ma per Maram la seduzione non è solo femminilità, o sensualità nel modo convenzionalmente inteso. Ancora una volta, è attenzione. O bisogno di.
Come sostiene Edelman, gli uomini hanno bisogno di parole, perché dotati della malattia dell'emozionabilità, della necessità di destabilizzarsi, di fremere, di mettersi in cortocircuito. E contemporaneamente del desiderio di sicurezza, di conferma. L'urgenza di un momento che convogli su di sé energie, flussi. La propensione a sentirci e diventare punti nevralgici che catturino lo sguardo del mondo. Sedurre quindi nel senso etimologico del condurre a sé. “Penso che la seduzione sia un elemento vivo e importante in ognuno. Nell'arte come nella relazione umana. Sedurre è un richiamo all'amore, al piacere mentale o corporeo. Una relazione che non ha più questo motore è condannata a morte. Un bambino seduce sua madre sin dalla nascita. Sorride… Ricordo di aver visto una bambina in un treno parlare a sua mamma. Mentre lei guardava dal finestrino, osservavo questa bimba di cinque anni e il suo lavorio per sedurre sua madre. Le toccava il viso e la costringeva a guardarla con le sue moine… Ha interpretato davanti a me una scena di seduzione degna d'un artista, solo perché la mamma la guardasse con un sorriso, e per sentire che l'amava. Avevo le lacrime agli occhi. E' un'arte nobile, quella della seduzione. Amo essere ammirata, per me è un rispetto dell'altro, ma è una seduzione senza fini. Non è per arrivare a qualcosa, resta nella bellezza e nella nobiltà. A volte penso di essere veramente ingenua come dicono i miei figli. Ma mi sono liberata di ogni volontà d'ottenere un favore, offro la mia tenerezza alla gente.”

Dal 1982 Maram è fuggita tre volte dalla Siria. Abita a Parigi da ventitré anni, dove tiene un bagaglio che tenta di tenere chiuso, fatto di relazioni morbose e separazioni, di un lutto dolorosissimo. Fino a che, in seguito al rapimento di suo figlio e alle pretese di un Paese che si intrometteva nei suoi diritti senza rispettarli, ha deciso di non metterci più piede. “Ho divorziato con il mio passato, la mia religione, la mia terra, addirittura con la mia lingua. E' stato così per tredici anni. Non ho scritto, non ho rivisto la mia famiglia, ho smesso di mangiare cibo siriano, di ascoltare la radio. Era la punizione che infliggevo al mio Paese, mi distaccavo da lui.” Era la fine dei suoi tentativi di rincorrere “lo statuto di donna rispettata”. Tutto quello che ne sarebbe derivato sarebbe stato una celebrazione dell'indipendenza e della limpidezza, la confluenza del suo istinto in uno stile di vita che gli fosse armonizzato. “Sono una donna libera. Quando ero piccola le mie compagne me lo dicevano sempre. Allora non capivo questa libertà. Per loro era immorale perché nuotavo, ballavo, portavo delle minigonne, salutavo i ragazzi, andavo al cinema. La mia famiglia mi ha mandata a Damasco all'università. Io andavo in Inghilterra, amavo senza nascondermi un ragazzo di un’altra religione. Ho sofferto tanto. Per loro era una specie d'insulto, e per me invece era morale, onesto, non ipocrita, significava stare bene con l'altro, rispettarsi. Essere trasparenti, accordarsi con i propri pensieri.”

Le domando come sia stato possibile dismettere le radici, amputare legami profondi e privatizzare la propria vita di punto in bianco. Tentare, lontana dal suo nucleo, di darle un senso occidentale di atomismo, solipsismo. Qui Maram è drastica e semplicissima: “Sento che non ho nessuna relazione con la terra. Il mio rapporto è con gli esseri. Sono gli esseri che fanno una patria. La patria è là dove siamo rispettati, amati (in terre e être ci sono le stesse lettere…). Amo Parigi perché ci sono i miei figli e le persone a cui voglio bene, le mie abitudini. Questo mi rassicura…. Posso vivere a Granada, a Bologna, a Cordoba, a Roma: ovunque ci sia gente che amo. Non so se potrei ancora vivere in un Paese arabo, tornare in Siria. C'è il resto della mia famiglia, ma penso di no.”

La poesia di Maram al-Masri è una poesia delle piccole cose, di myricae. Il poeta Adonis sottolinea proprio questa sua attenzione al dettaglio, al suo riscoprirlo pregno, denso di significati, quasi parlante. L'oggetto diventa capace di interporsi in una relazione, di prevedere, preannunciare, meditare. Va pertanto decodificato, interpretato: còlto. (Impediscimi, mio saggio marito, /di issarmi sui tacchi della mia femminilità, /perché all'angolo / mi aspetta un giovane).
E' la rivoluzione di una donna che nel biografico ha dato al concetto di libertà una valenza enorme e minuziosissima. Tanto penetrante quanto realizzata da pezzi piccoli, dalla scoperta di possibilità non scontate, ma preziose e quotidiane. Quest'occhio infantile, questa ingenua attenzione all'oggetto, questo semantizzarlo e rinnovarlo, l'ergerlo a 'ponte e porta' di universi intimi, è il frutto di un percorso non convenzionale. Intricato e infine privilegiato. L'armonia di Maram è passata per il rinnegarsi, per l'annullarsi, fino al raggiungimento della capacità attenta di riflessione sul sé e sugli altri, col vantaggio di un occhio ibrido. Laddove la creolizzazione, la 'vita altrove' non è un party patinato dal gusto esotico. Ma sofferenza, difficoltà di collocazione e attribuzione di senso e continuità al proprio vivere e sentire. “Sono sempre stata una donna 'meticciata', tra due culture. Già quando ero in Siria. Occidentalizzata dai miei fratelli che amavano i Beatles e Bob Dylan, grazie alla letteratura tradotta dei film, a una mamma artista, un padre laico libanese di madre cristiana. Soffrivo laggiù e soffro qui. Non sono occidentale. Non ne ho né i mezzi né l'indipendenza. Ho questo mélange di donna sottomessa e ribelle. La mia libertà è talmente difficile e desiderata. Ho tanto sofferto per lei. L'ho tanto cercata. E' vero. Ora so che la libertà è anche mettere del rossetto, portare una gonna corta, andare a braccia nude. Sono stata privata di questa libertà, in Francia, e questo può sembrare strano. Nulla come uscire la sera è una libertà. Andare all'università è una libertà, guidare una macchina lo è. Non ho giudizi morali sulla libertà sessuale. Ciò che non nuoce a nessuno è permesso. Il sesso e l'amore per me sono legati. Sono una ricerca di libertà.”

L'impulso lirico di Maram è passato rapido per un momento che potremmo definire 'civile': temi etici, patriottici, ma solo per disfarsene già da giovanissima. E' la linfa delle piccolezze umane quella che nutre i suoi versi. Non un amore romantico, languido. Ma un vivido e quotidiano muoversi in casa, in strada, in viaggio. E un linguaggio che è parte dell'universo, che non ha la funzione di descriverlo ma di crearlo. (Là dove non c'è erba / che cresce, / mi afferro / ai piedi delle parole). Le parole come cose, le parole che realizzano, battezzano, compiono riti. In ogni caso, uno stile morbido ma addosso a cui stonano le etichette, e i tentativi di vederci ciò che non è. Inutile anche accostarla a questa o quella scrittrice americana o nostrana. “Ovviamente – spiega – c'è la cultura araba nelle mie poesie. Allo stesso modo in cui ritrovo un'influenza occidentale nei miei primi libri scritti in Siria. E' come un frutto che non somiglia a nessuna delle due. I critici arabi trovano difficile classificarmi in una forma conosciuta, così come quelli occidentali. Qualche volta ho utilizzato il Corano. Non so in che modo. Ma la mia cultura mista risente del vissuto di questa donna di cui parlo. Dei suoi desideri, delle sue paure. Dei fantasmi e delle ingenuità. In effetti parlo di una donna che può essere araba, francese, spagnola o italiana, perché lei è me e te.”

Arrivo alla storia delle ciliegie e del pavimento. Mi dice che indovino l'interpretazione. Che è vero, nelle sue poesie la donna è una figura solitaria, straniera, ma rigonfia, passionale. E l'uomo, un uomo “senza creazione”. Infantile, incapace di plasmare forme, di creare delicatezze, di reinventarsi, incapace di dotarsi di occhi nuovi.
E' qui forse che Maram è le sue origini, i suoi cammini. Lei più volte si definisce naïve, che è un modo di dire ingenua, ma soprattutto essenziale, abbozzata, tratteggiata. E in effetti, con naturalezza sapiente e paziente, ricrea categorie poco sfumate, tinte basilari, fondamentali, che quasi si oppongono e servono a generare colori nuovi attraverso la mescolanza. Quando si riferisce all'ancestrale dicotomizzazione dell'universo dei sessi, riusciamo a salire sulle sue altalene, a vedere la sensuale donna mediorientale che vuole fuggire e giocare, e contemporaneamente prega l'amante-signore (mio buon marito) di essere trattenuta. (M'infiamma il desiderio/ e brillano i miei occhi. /Sistemo la morale nel primo cassetto che trovo, / mi muto in demonio, / e bendo gli occhi dei miei angeli / per / un bacio).

Maram pare nutrire una sorta di indifferenza per l'eccessivo esercizio di complessificare ogni cosa. Le garbano le forze universali, magmatiche, le leggi di sempre. Quelle dei fulcri e del
le calamite. Tra le due metà del mondo, uomo e donna, si collocano il desiderio, la vitalità, la menzogna, la rivalità. Il cuore-ciliegia. E l'incapacità di difenderlo, la costanza nel ripercorrere i propri drammi, la familiarità del dolore, a cui ci si consegna – ingenui – come a un genitore.


Maram al Masri – Libero di Scrivere