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Rita Balla – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 CRIMINI – di AA.VV., a cura di Giancarlo De Cataldo https://www.threemonkeysonline.com/it/crimini-di-aa-vv-a-cura-di-giancarlo-de-cataldo/ https://www.threemonkeysonline.com/it/crimini-di-aa-vv-a-cura-di-giancarlo-de-cataldo/#respond Fri, 01 Apr 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/crimini-di-aa-vv-a-cura-di-giancarlo-de-cataldo/ Perché comunque e ad ogni costo vogliamo classificare, catalogare, etichettare tutto? Perché abbiamo bisogno di definire, stabilire, circoscrivere? Perché dobbiamo qualificare, bollare, contrassegnare? Sì, è vero: Faletti scrive gialli (o almeno così ha provato a riciclarsi, dissoltesi le glorie di Drive In), Lucarelli thriller, Camilleri polizieschi. E sono d'accordo che una raccolta di short stories […]

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Perché comunque e ad ogni costo vogliamo classificare, catalogare, etichettare tutto? Perché abbiamo bisogno di definire, stabilire, circoscrivere? Perché dobbiamo qualificare, bollare, contrassegnare?

Sì, è vero: Faletti scrive gialli (o almeno così ha provato a riciclarsi, dissoltesi le glorie di Drive In), Lucarelli thriller, Camilleri polizieschi. E sono d'accordo che una raccolta di short stories debba avere un filo conduttore che la tenga insieme. Ma il voler cacciare i nove racconti che fanno parte di Crimini dentro la definizione di 'noir' mi pare veramente una forzatura. Anche dentro la definizione slabbrata che di questo genere dà De Cataldo nell'introduzione a questa antologia edita da Einaudi e pubblicata, senza troppo successo azzarderei, prima dell'estate. Secondo il curatore infatti, il 'noir italiano' sarebbe una “anarchica commistione di diversità”, un “modo decisamente originale di raccontare i miti, i riti, gli splendori (pochi) e le miserie (molte) della contemporaneità”. Che ci può stare, ma non può divenire la giustificazione per inserire in una raccolta del genere storie quali Il covo di Teresa (De Silva) o Quello che manca (Fois) o Sei il mio tesoro (Ammaniti-Manzini). E non perché non siano pezzi interessanti o ben scritti – per lo meno l'ultimo dei tre – ma piuttosto in quanto nulla hanno a che spartire con le atmosfere cupe e tormentate del raffinato intreccio psicologico a sfondo criminoso.

Io sono della vecchia scuola, quella per cui autori noir sono artisti come Edgar Allan Poe, Chester Gould (Dick Tracy), le sorelle Giussani (Diabolik), Giorgio Scerbanenco o Pablo Igancio Taibo II. I tre racconti su menzionati rispecchiano e raccontano la realtà, persino la storia surreale del chirurgo plastico cocainomane narrata con sarcasmo e una certa dose di brillante cafoneria dal duo Ammaniti-Manzini si rivelerà, alla luce delle recenti retate 'anti-droga' nella capitale, premonitrice di fatti tutt'altro che immaginari! Le tre storie però non contengono quegli elementi caratterizzanti che De Cataldo ci promette quando decide di includerle in questa raccolta. Per amor di giustizia va detto che se Sei il mio tesoro è capace di strappare una risata amara, gli altri due sono nel complesso anche abbastanza insulsi.

Ma ci sono dei racconti noir allora in questa raccolta? Certo, se siete appassionati del genere vi interessaranno Morte di un confidente (Carlotto) o L'ultima battuta (Dazieri) o Il bambino rapito dalla Befana (De Cataldo) o Il terzo sparo (Lucarelli). In questi quattro sarete capaci di trovare spunti e atmosfere riconducibili a ciò che viene normalmente accettato come noir: un protagonista tormentato e in fondo in cerca della verità, un crimine, un mistero, un groviglio di sentimenti, emozioni, drammi psicologici, una donna affascinante e dannata, ambienti cupi e fumosi, … Personalmente giudico L'ultima battuta una piccola gemma: la storia di un ex-comico, ex-alcolizzato padrone di un bar che si ritrova, per salvare la donna di cui era stato innamorato, ad indagare sull'omicidio dell'uomo che gli portò via amore e successo. Anche il racconto firmato da Lucarelli non è malvagio e introduce un elemento importante: il protagonista tormentato e la donna affascinante e dannata sono la stessa persona, Lara, una poliziotta in servizio alla Questura di Bologna. Mi ha fatto venire in mente la Giorgia Contini dell'ultimo film di Salvatores, anche quello (coincidentalmente) ambientato nel capoluogo emiliano, che con i suoi portici e gli stretti vicoli medievali sembra aver raggiunto, nel nostro immaginario, lo status di location cult in termini di noir.

Il terzo sparo mi ha anche ispirato una considerazione di tipo generale: quanto è importante nella letteratura (che paroloni, diciamo nella scrittura creativa) che l'autore 'scompaia' dalla proprie opere? Certo tutti gli scrittori lasciano comunque una loro impronta, riconoscibile nello stile, nell'ambientazione, nella caratterizzazione dei personaggi, e così via. Ma per uno scrittore che appare in televisione o sui media in generale, e si mostra copiosamente, con i propri tic e peculiarità, al pubblico e ai suoi lettori, poi non diventa ancora più difficile sparire dalle proprie opere? Leggendo Il terzo sparo, forse anche a voi parrà di ascoltare una delle (belle e documentate) puntate di Blu Notte, la trasmissione in onda su Rai Tre, in cui Lucarelli analizza e descrive i grandi misteri italiani “con la tecnica del racconto, non giornalistica ma narrativa, utilizzando tutti gli espedienti del genere giallo come la suspence, il mistero, il colpo di scena. Le storie così presentate assumono quindi il ritmo incalzante di un romanzo” (dal sito della Rai).

I due rimanenti racconti inseriti in Crimini, ovvero Troppi equivoci (Camilleri) e Ospite d'onore (Faletti), sono scritti a mo' di sceneggiatura, il primo volutamente (e con riuscita accettabile), l'altro inconsciamente (e con triste esito). Camilleri resta un ottimo scrittore anche se secondo me le sue opere difficilmente possono essere etichettate con il termine di 'noir mediterranei'. E' un esaminatore e un potente descrittore della realtà siciliana, è un autore dotato di spirito di osservazione e di senso dello humour, è il creatore di una delle più fortunate figure di detective in TV, ma non è uno scrittore noir… Di Faletti invece ho letto solo questo Ospite d'onore, per cui non mi sento di giudicarlo come autore, anche perché se dovessi farlo su tale base, dovrei necessariamente stroncarlo: il racconto è una raccolta di modi di dire e battutine (alla Drive In??), in cui la storia è una sottospecie di consacrazione della banalità allo stato puro, buona per riempire un pomeriggio de La vita in diretta.

Un'ultima nota, pedantica forse: il titolo del racconto di Camilleri è riportato come Troppe coincidenze sulla quarta di copertina… Sarà stata la foga di pubblicare il volume in tempo per le vacanze estive degli italiani?

CRIMINI – di AA.VV., a cura di Giancarlo De Cataldo – Ed. Einaudi – pp. 390 – Euro 15,50

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Caffè Babilonia, di Marsha Mehran https://www.threemonkeysonline.com/it/caff-babilonia-di-marsha-mehran/ https://www.threemonkeysonline.com/it/caff-babilonia-di-marsha-mehran/#respond Tue, 01 Mar 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/caff-babilonia-di-marsha-mehran/ “Mmm, uno stufato irlandese allo zafferano?”, mi sono cinicamente domandata la prima volta che ne ho sentito parlare. “L'iraniana Marsha Mehran appare carina e ben curata, il marito irlandese pare super-entusiasta, e questo mio naso affaticato sente puzza di operazione di marketing.” Nonostante ciò, ho lasciato che la curiosità prevalesse sul pregiudizio e ho richiesto […]

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“Mmm, uno stufato irlandese allo zafferano?”, mi sono cinicamente domandata la prima volta che ne ho sentito parlare. “L'iraniana Marsha Mehran appare carina e ben curata, il marito irlandese pare super-entusiasta, e questo mio naso affaticato sente puzza di operazione di marketing.”
Nonostante ciò, ho lasciato che la curiosità prevalesse sul pregiudizio e ho richiesto una copia da recensire. Dopo qualche giorno ricevo questo romanzo infarcito di ricette e mi ci butto a pesce, riuscendo ad interrompere la lettura solo per frequenti capatine al mio take away persiano – coincidentalmente pure chiamato Caffè Babilonia – per rifocillarmi di saporiti dolmeh e falafel. Caffé Babilonia [edito in Italia da Neri Pozza] è il titolo della versione italiana di Pomegranate Soup, nonché il nome del piccolo ristorante su cui è imperniato il romanzo.

La trama è il racconto dolce-amaro di come tre sorelle iraniane arrivano in un minuscolo villaggio dell'Irlanda occidentale (pensate ad un posto tipo la Craggy Island di Father Ted), aprono un ristorantino mediorientale e cambiano per sempre la propria vita e quella degli abitanti del luogo.

Ogni capitolo – ce ne sono 12 più un prologo ed un epilogo – è accompagnato da una ricetta (ad eccezione del prologo), corredata di ingredienti, e le ricette sono anche riportate in appendice al libro, con suggerimenti su come sostituire gli ingredienti originali casomai non fosse possibile trovarli nel proprio supermercato locale. Ed ecco la prima licenza poetica della signora Mehran: quanto è plausibile che Marjan, la sorella maggiore e cuoca autodidatta del Caffè, riesca a trovare una tale varietà di spezie ed ingredienti nell'Irlanda del 1986? Anche prendendo in considerazione l'influenza esercitata [sull'Irlanda] dalle ex-colonie britanniche, dubito vivamente che potesse racimolare santoreggia o “olio extra-vergine di oliva di qualità” o comprare cinque chili di feta alla volta (pur fosse nella 'cosmopolita' Dublino)! Ma dopotutto questa è una favola, e non bisognerebbe concentrarsi sui dettagli pratici!

Non ci sono colpi di scena nel romanzo: tutto si svolge in maniera perfetta e prevedibile fino all'immancabile happy ending finale. Nel corso degli eventi, che si svolgono a Ballinacroagh, paesino di fantasia ai piedi di Croagh Patrick nella Contea di Mayo, veniamo a sapere del cupo passato delle tre sorelle e di come sono fuggite dall'Iran all'alba della rivoluzione che nel 1979 portò al potere l’Ayatollah Khomeini. Le ragazze ne portano ancora i segni , ma sono determinate a mostrare al popolo irlandese tutta la determinazione e la forza di cui sono capaci quando riescono ad metter su il Caffè in neanche 5 giorni. Poco dopo avranno conquistato, in senso lato, la maggiorparte della popolazione, con la ovvia eccezione del cattivo, il multiproprietario di pub Tom McGuire, e di qualche perfida malalingua.

Come è il caso con altri romanzi classici a base di cibo – mi vengono in mente Chocolat e Come l'acqua per il cioccolato, con tutto il rispetto per Laura Esquivel, che per me resta l'unica creatrice di un capolavoro qui – Marjan & Co. sono in grado di influenzare gli abitanti della cittadina con i loro fragranti ingredienti segreti, e procedono con la loro pacifica conquista a botta di portate profumate e insolite. Per qualsiasi non irlandese che abbia abitato sull'isola di smeraldo per un po' (con l'eccezione forse dei loro vicini britannici), può sembrare virtualmente impossibile che la parrucchiera, il prete e le vecchiette frequentatrici della messa abbandonino i loro panini a base di patatine fritte e banana e/o l'arrosto di manzo accompagnato da tre diverse preparazioni a base di tubero (patate arrosto, purè e gratinate, tutte servite allo stesso tempo insieme alla pietanza principale) per melanzane piccanti sott'aceto, fesenjoon e orecchie di elefante fritte (anche se qualunque cibo fritto ha sempre goduto di un certo successo in questa parte del mondo, come dimostrano le vertiginose vendite di hamburger o salsicce impanati e fritti il venerdì sera!). Marsha Mehran però riesce dove altri avevano rinunciato e nel giro di pochi giorni ci serve una Ballinacroagh 'avvelenata' – nel senso di 'catturata' – da queste ricette speziate. Ma dopotutto questa è una favola, e non bisognerebbe concentrarsi sui dettagli pratici!

I personaggi sono molti e tutti hanno una connotazione particolare: se sono gentili e ben disposti, sono anche carini e graziosi, o quantomeno di bell'aspetto. La piccola Layla per esempio non ha solo un bel corpicino e un visetto grazioso, ma emana persino un naturale e provocante olezzo di acqua di rose e cannella! D'altra parte, se si tratta di personaggi negativi, devono per forza essere brutti, animaleschi e quasi deformi. La bruttezza e la cattiveria vengono però punite dagli eventi e il Fato si prende la sua vendetta su tutti i prepotenti, in maniera quasi dantesca (che fa rima con grottesca). Ma dopotutto questa è una favola, e non bisognerebbe concentrarsi sui dettagli pratici!

Due personaggi sono (leggermente) più complessi: Bahar (la sorella di mezzo) e la signora Delmonico, la vedova cui appartiene il locale dove si trova il Caffè. Bahar non è tanto graziosa, e infatti è la responsabile, in parte, della maledizione che perseguita le sorelle, anche anni dopo la loro fuga da Teheran. E' nervosa e scontrosa per la maggiroparte del romanzo, ma alla fine verrà a patti con i suoi demoni, per diventare la portatrice di un “viso bellissimo” nell'ultima pagina del romanzo. La signora Delmonico (una donna napoletana sui sessanta, bizzarramente chiamata Estelle) è piccola, grassotella, premurosa e svanita, secondo lo stereotipo della vedova italiana, evidentemente. Ha anche il dono di produrre una sudorazione inodore e dolciastra, che le valse l'affetto di Luigi (ecco un nome come si deve per un immigrato italiano!), aspirante pasticcere, il quale la sposò alla fien della guerra, la portò a fare un inverosimile e molto esotico viaggio di nozze in Marocco, proprio prima dilasciare Napoli per stabilirsi nell'Irlanda occidentale e finire i suoi giorni a preparare pastarelle in una comunità rurale, battuta dai venti e di mentalità ristretta. Se non siete già a bocca aperta davanti a questa improbabile coppia, svelerei anche che la vedova, quando è giù di morale, prepara un piatto consolatorio che Marsha sfortunatamente scrive incorrettamente e dichiara originario da Napoli, come Estelle, mentre invece è tipico del milanese [N.d.T.: l'ossobuco]. Ma dopotutto questa è una favola, e non bisognerebbe concentrarsi sui dettagli pratici!

Tutto considerato, a me è piaciuto molto questo libro curioso, con le sue belle metafore tra il cibo e la vita, e, se può dare una mano all'integrazione tra culture e mostrare al mondo che la globalizzazione non è solamente sfruttamento e catene di magazzini, ben venga lo stufato irlandese allo zafferano! Caffè Babilonia è un piacevole antipasto. Se però vi va qualcosa di più sostanzioso come piatto principale, gli chef letterari di Three Monkeys vi raccomandano La dispensa del diavolo, di Jim Crace.

Caffè Babilonia, di Marsha Mehran – Ed. Neri Pozza – pp. 356 – Euro 15,50

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Il Saverio Costanzo Show: Private, un&apos;opera prima d&apos;autore. https://www.threemonkeysonline.com/it/il-saverio-costanzo-show-private-unopera-prima-dautore/ https://www.threemonkeysonline.com/it/il-saverio-costanzo-show-private-unopera-prima-dautore/#respond Tue, 01 Feb 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/il-saverio-costanzo-show-private-unopera-prima-dautore/ E' ingiusto, si sa, incolpare i figli delle colpe dei padri – e il trentenne Saverio deve esser pur conscio di portarsi dietro un cognome che è come un marchio: Mediaset, da daa da daaan, P2, la camicia coi baffi, ecc ecc – ma quando ha vinto il Pardo d'Oro a Locarno alzi la mano […]

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E' ingiusto, si sa, incolpare i figli delle colpe dei padri – e il trentenne Saverio deve esser pur conscio di portarsi dietro un cognome che è come un marchio: Mediaset, da daa da daaan, P2, la camicia coi baffi, ecc ecc – ma quando ha vinto il Pardo d'Oro a Locarno alzi la mano chi, in questa nostra Italia, moderna e clientelare, non ha pensato subito al giornalista più potente del video (insieme a Messer Vespa, ovviamente)…

E invece poi guardi il film, Private, e senti lui, il premiato e orgoglioso regista di questo gioiellino, parlarne e ti convinci che di talento vero qui ce n'è, e anche fosse stato aiutato dal cognome o dal genitore non importa, perché ha creato un'opera prima di valore, sia dal punto di vista dei contenuti che della realizzazione.

Poco più che ventenne e fresco di laurea in Sociologia delle Comunicazioni, ha già al suo attivo conduzioni radiofoniche, sceneggiature per telefilm RAI e un paio di spot pubblicitari, quando approda negli Stati Uniti, dove si dedica al documentario, lavorando dapprima come operatore, poi aiuto-regista e finalmente come regista, per poi tornare in Italia dove mette a frutto le conoscenze accumulate oltreoceano e gira la docu-fiction per la TV Sala Rossa, ambientata al Policlinico Umberto I di Roma.

Tre anni dopo, il debutto sul grande schermo con questo Private, ambientato in Palestina e metafora dei grandi conflitti e delle convivenze forzate che questi generano. “L'idea non è originale, ma viene da una storia vera che appartiene alla striscia di Gaza, e racconta della convivenza 'coatta' che va avanti dal 1992, anno in cui la casa di questo intellettuale palestinese, professore di inglese, preside di una scuola media secondaria, viene occupata dall'esercito israeliano, perché verrà costruita una colonia a cinque metri dalla sua abitazione. Nella storia vera la vicinanza con la colonia è irrisoria: si apre la porta della cucina e ci si ritrova nella colonia. Nel film abbiamo cambiato moltissime verità della storia reale per, naturalmente, farne un film”, spiega Costanzo in occasione della presentazione del film a Bologna, lo scorso gennaio. Un sorta di documentario, quindi, o, nella definizione di Costanzo stesso, uno psicodramma (“poi io lo chiamo 'psicodramma' … forse Moreno [Jacob Levi Moreno, fondatore del “Teatro della Spontaneità”, N.d.R.] se la prenderebbe a male, perché non è che abbiamo adoperato proprio il metodo psicologico, però lo chiamiamo così perché c'è dentro moltissimo del nuovo psicodramma”).

“Per motivi di sicurezza” non è stato possibile girare il film in Palestina, per cui Costanzo e i suoi collaboratori hanno dovuto ripiegare sulla Calabria. Non che uno si accorgerebbe del trucco se non lo si sapesse, in quanto le scene esterne sono veramente molto limitate (e la Calabria di Private potrebbe essere Palestina, Libano, Grecia, Albania, … – una faza, una raza – un paese povero, un mediterraneo polveroso e arso dal sole). “Probabilmente se fossimo stati in Palestina o in Israele”, continua il regista, “saremmo stato distratti dal checkpoint, dal carro armato, invece il fatto di restare sempre in una casa, e di non avere fuori niente se non la Calabria, ci costringeva a trovare non soltanto gli escamotage narrativi della sceneggiatura, in fase di scrittura [sebbene Costanzo abbia trascorso sei mesi in Palestina/Isreale a raccogliere materiale, N.d.R.], ma anche in fase di ripresa, e loro [gli attori] dovevano dare al salotto, piuttosto che alla camera da letto, l'aria della Palestina o di Israele, dovevano riempirli dell'anima del loro paese.”

Ed eccoci al 'metodo psicologico' adottato da Costanzo per indurre i protagonisti, un intensissimo Mohammad Bakri e uno splendido Lior Miller in primis, e poi Tomer Russo, Areen Omari, Hend Ayoub, fino ai bambini, a mettere in gioco le proprie emozioni, per dare al film un carattere realistico e per astrarlo dalla sua italianità (la troupe, oltre alla location, è infatti nostrana): “In genere nel cinema si danno riferimenti agli attori, dove sono le telecamere. Noi abbiamo ribaltato tutta la questione, dando all'attore uno spazio come a teatro, uno spazio libero in cui potersi muovere e poi dovevamo essere noi, con una tecnologia molto leggera, con la camera a spalla, ad andare a cercare l'emozione. Anche perché essendo la scena in arabo, e non parlando noi alcun arabo, era un po' una continua traduzione che col movimento di macchina tentavamo di fare per noi stessi. Non ci siamo perciò interessati ad una grammatica cinematografica – anche se poi, ripeto, il film ha una forma di cinema in qualche modo – ci siamo però più che altro occupati di una grammatica umana. Volevamo che l'uomo fosse il protagonista, non il regista. Per questo dico che non è un film di regia: non si costruisce l'emozione con il dettaglio, col campo lungo, col mezzo campo, … si costruisce anche facendo recitare anche a spalla un attore. Penso sia l'unico film […] dove non c'è mai un primo piano. Il nostro lavoro era di cogliere le emozioni in una scena. Sì qualche volta avevamo una faccia, ma se altre volte avevamo una schiena, anche la schiena in qualche modo ci diceva qualcosa. Bakri recitava tutto, non recitava solo con la faccia, con la sua voce. Quindi giravamo questi lunghi piani-sequenza non interrompendo mai il flusso emotivo che doveva essere privilegiato rispetto al piano tecnico, e poi in montaggio abbiamo adoperato una terza scrittura del film – la prima la sceneggiatura, poi la ripresa e la terza il montaggio – per cercare quello che l'occhio deve, perché è abituato e anche perché è giusto, vedere, e cioè un campo, contro campo, un'azione, un movimento [perché] l'azione che non sia troppo statica”.

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Luna crescente, di Diana Abu-Jaber https://www.threemonkeysonline.com/it/luna-crescente-di-diana-abu-jaber/ https://www.threemonkeysonline.com/it/luna-crescente-di-diana-abu-jaber/#respond Wed, 01 Dec 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/luna-crescente-di-diana-abu-jaber/ I piaceri sessuali e culinari di una zitella a Westwood, L.A. Luna crescente, il secondo romanzo dell'autrice di Portland Diana Abu-Jaber, ambientato nella comunità arabo-americana di Los Angeles, è stato paragonato a Dolce come il cioccolato, uno dei capolavori del matrimonio fra realismo magico e ricettario. Non potevo resistervi e, nonostante lo stile della copertina […]

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I piaceri sessuali e culinari di una zitella a Westwood, L.A.

Luna crescente, il secondo romanzo dell'autrice di Portland Diana Abu-Jaber, ambientato nella comunità arabo-americana di Los Angeles, è stato paragonato a Dolce come il cioccolato, uno dei capolavori del matrimonio fra realismo magico e ricettario. Non potevo resistervi e, nonostante lo stile della copertina nell'edizione di Mills and Boon, ho dovuto leggerlo!

Ci troviamo a seguire le vicende di Sirine, una donna iracheno-americana di 39 anni e mezzo, una zitella (una mia amica mi ha convinto che si può essere definiti 'single' solo fino ai 35 anni) che sbicicletta incessantemente fra West Los Angeles e Westwood. Sirine appare così ingenua e maldestra che ci è difficile farne la nostra eroina, specialmente quando riceve, e ad un certo punto accetta, le advances del viscido poeta Aziz. In ogni caso, viene considerata una specie di dea in terra al Café Nadia dove lavora come cuoca. E questo è in parte grazie al suo carattere gentile, ma anche soprattutto perché prepara, durante turni apparentemente interminabili, ogni sorta di prelibatezza araba per accontentare e consolare un folto gruppo di immigranti e rifugiati mediorientali. Tra i clienti abituali vi sono i negozianti del vicinato e studenti e insegnanti della vicina università, tra i quali spicca Hanif, un giovane, intelligente, ammaliante intellettuale di forti sentimenti, rifugiato politico originario di Baghdad.

Sirine e il bel professore si incontrano, parlano, accidentalmente flirtano ad una festa, si piacciono, escono insieme, fanno sesso, hanno i loro primi litigi, si riappacificano, fanno dell'altro sesso, e alla fine si innamorano. A pensarci bene, è lo stesso che è accaduto a me e alla maggiorparte delle coppie di mia conoscenza, con l'eccezione della mia summenzionata amica che tiene tanto alla distinzione fra single e altre definizioni meno politicamente corrette (lei è infatti volata col suo vespino sull'auto del suo futuro innamorato, rovinandogli così l'appuntamento galante – con un'altra – quella sera, la macchina e i seguenti dieci anni, fino a quando lo ha scaricato ed ha avuto una storia con il di lui migliore amico), ma questa è tutta un'altra storia, priva di sospetti iracheni intenti a ingarbugliare le cose.

Non rovinerò la sorpresa a quei lettori di Three Monkeys Online che vogliono leggere il libro rivelandovi l'intera vicenda. Basta dire che – naturalmente – insorgono complicazioni, l'amore vince sempre, il destino è ineluttabile, ecc. ecc.I due amanti sono circondati da una squadra di altri personaggi ben rifiniti, cui si finisce per affezionarsi: lo zio di Sirine, la libanese Um-Nadia proprietaria del café, la sua figliola – zitella pure lei – Mireille, Victor e Cristobal, anch'essi dipendenti del café, il persiano Khoorosh, il macellaio turco Odah e King Babar, il tenero cane di Sirine. Altri personaggi sono meno amabili, come il già menzionato Aziz e anche Nathan, uno studente americano ossessionato con Hanif e la fotografia.

Il libro, fino al capitolo 27, scorre praticamente in tempo reale, con descrizioni dolorosamente dettagliate e una narrazione al presente, in cui sono fedelmente riportati dialoghi, pensieri e movimenti dei vari personaggi. E' un po' come guuardare un film al rallentatore, ma con questo non intendo dire che si trascini per le lunghe o che la trama sia noiosa. Forse la Abu-Jaber ha voluto usare fino in fondo il proprio dottorato in Scrittura Creativa e ha messo in pratica tutte le varie tecniche imparate, dal flashback alla scrittura parallela al realismo magico. Infatti sia Sirine che Hanif hanno un passato intricatissimo che viene rivelato attraverso i loro sogni notturni e le loro chiacchierate. La ciliegina sulla torta è rappresentata dalla storia parallela di zia Camille e il suo avventato figlio Abdelrahman Salahadin, “la storia di come amare” ci dice lo zio di Sirine in una delle prime pagine, o meglio la storia di come rincorrere i tuoi sogni sottomessi al fascino seducente della pubblicità, si potrebbe obbiettare. Comunque sia, il racconto delle loro avventure è veramente piacevole; per restare nei confini geografici del libro e delle sue citazioni, la favola dello zio di Sirine (perché è lui a raccontare la storia) potrebbe tranquillamente stare nella collezione di Le mille e una notte. Ancora una volta, non vi voglio rovinare il piacere rivelando colpi di scena o troppi dettagli.

Tornando alle descrizioni della Abu-Jaber, alcune delle sue scene sono decisamente memorabili e molto 'arabeggianti', tipo “Um-Nadia waits until the air is roasted chocolaty, big and smoky with the scent of brewing coffee. Then she knocks the front door latch open. She holds the door wide and lets the older returning students, the immigrants and workingmen in, one by one, morning-shy, half-sleepy, hopeful from dreams, from a walk in the still-sweet air, not so lonesome this early in the day” (page 27). L'autrice è dettagliata e precisa, ma poi riesce a impappinarsi malamente quando Nathan lo studente va al café e ordina il tè, certo che può avere il suo tè, concede Um-Nadia, lui ci giocherella per un po', fino a prendervi alla sopresa zuccherando il suo caffè!! Niente paura, qualche paragrafo più tardi ricomincia a giocherellare con la sua tazza di tè…

La copertina del libro promette romanticismo, rischio e ricette. Mentre i primi due sono abbondantemente soddisfatti e sebbene il libro sia permeato di odori, sapori e consistenze del fantastico cibo che Sirine cucina e gli altri mangiano, l'autrice non rivela alcuno dei segreti mediorientali per ottenere falafel che non si disfino quando li mettete a friggere. Un'eccezione è rappresentata dalla descrizione di cinque pagine su come preparare la baklava, quando Sirine e Hanif cominciano a fare reciproca conoscenza nella cucina del Café Nadia. Questo dessert, la cui paternità è rivendicata da pressoché tutte le nazioni del vicino e medio oriente e che consiste in una serie di strati successivi di fillo-pasta (o pasta sfoglia) e burro fuso, deve essere il dolce preferito di Diana Abu-Jaber, a giudicare dalla sua ultima uscita [N.d.T.: pubblicato nel marzo 2005, non ancora disponibile in italiano], una raccolta di cari ricordi intitolata The Language of Baklava [N.d.T.: Il Linguaggio della Baklava].

Chiaramente l'autrice nutre un rispetto profondo, quasi reverenziale, per il cibo di cui suo padre, giordano, e i suoi antenati si sono nutriti e continuano a nutrirsi. E per questo merita rispetto, se è vero che noi siamo quel che mangiamo. Io personalmente amo da impazzire la cucina araba e per ricambiare sarei felice di mostrare a Sirine il vero peccato culinario di mezzanotte, visto che alla poveretta una sera vengono offerti, da un cameriere di nome Eustavio presso il ristorantino italiano locale, un cappuccino annacquato (noi italiani non beviamo MAI cappuccino dopo le undici di mattina) e una specie di dessert che l'autrice chiama 'penne cotta', intendendo, ci auguriamo, la panna cotta, e non un piatto di pasta addolcita e stracotta!

Gli altri temi trattati nel libro sono la solitudine degli arabi, che è poi la solitudine di tutte quelle persone che devono abbandonare il loro Paese per ragioni indipendenti dalla propria volontà, e la dittatura di Saddam Hussein in Iraq, esplorata da diverse angolature, inclusa quella dell'embargo americano in tutta la sua crudeltà. Quello che forse manca da questa illustrazione del mondo arabo a 360 gradi è un riferimento al fanatismo islamico che continua ad influenzare tantiss
imi aspetti della vita politica e della cultura di alcuni Paesi arabi.

Tutto sommato, Luna crescente è una buona lettura per l'estate, che ci ricorda continuamente le ingiustizie, i pregiudizi e le storie d'amore sciocche e tragiche che ci sono in questo pazzo mondo su cui tutti noi dobbiamo vivere.

Luna crescente, di Diana Abu-Jaber – Ed. Mondadori – pp. 405

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Diary, di Chuck Palahniuk https://www.threemonkeysonline.com/it/diary-di-chuck-palahniuk/ https://www.threemonkeysonline.com/it/diary-di-chuck-palahniuk/#respond Fri, 01 Oct 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/diary-di-chuck-palahniuk/ Diary è una vera sfida. Probabilmente non così marcatamente per la mente contorta dell'Autore (e lo intendo come un complimento, proseguite la lettura!), in quanto Chuck Palahniuk ci ha abituato a trame complicatissime, per esempio con Fight Club o Ninna Nanna, ma senz'altro lo è per il lettore che inevitabilmente resta coinvolto e intrappolato nella […]

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Diary è una vera sfida. Probabilmente non così marcatamente per la mente contorta dell'Autore (e lo intendo come un complimento, proseguite la lettura!), in quanto Chuck Palahniuk ci ha abituato a trame complicatissime, per esempio con Fight Club o Ninna Nanna, ma senz'altro lo è per il lettore che inevitabilmente resta coinvolto e intrappolato nella storia intricatissima di Misty Marie Kleinman, moglie, madre, nuora, artista e cameriera di Waytansea Island.

La sfida del lettore consiste nel non farsi ipnotizzare a tal punto dalla prosa accativante di Palahniuk, della sue digressioni intellettuali e da ciò che accade all'eroina del libro da mettere la propria vita da parte, come ho fatto io quando ho iniziato la lettura di questo libro mozzafiato.

Misty Marie si definisce “una povera bambina white trash” [NdT: Termine usato negli Stati Uniti per indicare la popolazione bianca che vive in stato di povertà e/o precarietà], viene da una famiglia problematica e passa la propria infanzia e adolescenza disegnando case e panorami immaginari all'interno di un camper, dove aspetta che la madre, hippie e single finisca i turni da cameriera in un piccolo café della zona. Il suo destino è in qualche modo già segnato da queste sue origini umili e dal suo talento; così il frequentare una non meglio precisata scuola d'arte nulla fà se non dare al Fato un'occasione per avverarsi. Là, la sognatrice Misty Marie incontra l'eccentrico Peter Wilmot, suo futuro marito, e là finisce quella serie di coincidenze che costituiscono la vita di ognuno di noi. Ovvero, da quel momento in poi, la vita di Misty diverrà il frutto di un piano preciso.

Il libro però non è così lineare – oh no – e si arriva a conoscenere e comprendere il passato di Misty Marie tramite flashbacks abilmente mescolati agli sviluppi del presente. Il diario del titolo è tenuto da Misty stessa e inizia poco dopo il tentato (e fallito) tentativo di suicidio del marito. Misty Marie ha superato i quarant'anni e fà la cameriera al Waytansea Hotel; vive sull'isola, nella residenza dei Wilmot, la casa di famiglia di suo marito, con la suocera e la propria figlia Tabbi. Non ha avuto successo come pittrice, ed ha perso ispirazione e abilità poco dopo aver sposato Peter ed esser rimasta incinta di Tabbi; non ha però dimenticato i suoi sogni e il training ricevuto alla scuola d'arte, il che rende il suo lavoro da cameriera sempre più frustrante. La frustrazione subisce un'impennata dopo che Peter tenta di uccidersi: il denaro di famiglie non c'è più, Peter è costretto su un letto d'ospedale, in un coma irreversibile, i di lui clienti (neppure lui è riuscito ad affermarsi come artista e lavorava come restauratore di case di vacanza appartenenti a ricche famiglie, con la peculiare abitudine murare l'accesso ad una delle stanze, dopo averne imbrattato i muri con minaccie e oscenità) stanno intentando causa e lo stipendio di Misty Marie costituisce l'unico e scarso introito.

I Wilmot non sono l'unica famiglia un tempo benestante a faticare per sbarcare il lunario. La grandiosità e il lusso di una volta non esistono più ormai e gli abitanti dell'isola si impiegano ora in lavori stagionali che li obbligano a servire e riverire i nuovi ricchi, i turisti attratti dall'atmosfera di altri tempi di Waytansea Island, “la gente estiva”. E' per scappare a questo destino che ognuno ha un piano, un piano comune, in cui ogni isolano ricopre un ruolo e divide con gli altri la posta in gioco, ognuno tranne Misty Marie, sembrerebbe.

Come si diceva, e si intuisce facilmente dal titolo, il libro ci viene presentato sottoforma di diario, con capitoli di due-tre pagine che costituiscono tante tessere di un mosaico, per aiutarci nella ricostruzione, tramite le sue emozioni e i suoi ricordi, la vita di Misty Marie e I fatti che sisusseguono fino al gran finale del romanzo. Con pazienza certosina e intelligenza macchiavellica, Chuck Palahniuk ci guida attraverso lezioni di anatomia, fisiologia del corpo umano, analisi psicologiche, arti ed artisti filosofia e falegnameria, vita e morte. Senza ma risultare noioso o pedante o 'disconnesso'
Il suo linguaggio è infatti semplice e condito dall'utilizzo di strumenti letterari – tipo il passare dal racconto in prima persona a quello in terza persona o l'uso di espressioni identiche per introdurre concetti diversi – che mantengono viva l'attenzione del lettore e stimolano la sua mente.

Non voglio rivelare troppi particolari sulla trama o lo stile, non essendo lo scopo di una recensione quello di rovinare agli il piacere della lettura di un'opera valida come Diary. Né ho avuto il tempo o la voglia di controllare la veridicità dei fatti raccontatici dall'Autore. Uno dei pregi del leggere questo libro è proprio che “a quello che non capisci puoi fare assumere il significato che vuoi”, che significa, in questo contesto, che in un romanzo intelligente c'è anche spazio per supposizioni ed interpretazioni personali.

L'unica colpa che mi sento di attribuire a Palahniuk dopo aver letto uno dei suoi romanzi è quella di rendere dificilissima la scelta del prossimo libro da leggere, per paura di rimanere delusi!

Diary, di Chuck Palahniuk – Ed. Mondadori – pp. 286

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