Le guerre di Blair – L'assenza di chiare ripercussioni politiche. Intervista a John Kampfner.

Che fosse Irlanda del Nord, Kosovo, o più tardi Iraq, l'approccio era simile: avere un coinvolgimento diretto, evitando, se necessario, canali e procedimenti tradizionali. Dopo essere arrivato alla radice del problema, che fosse il conflitto secolare in Ulster o la rimozione di Saddam Hussein, la convinzione di Blair era sempre di poter trovare l'accordo. Kampfner descrive come, dopo una tornata di incontri a Crawford, in Texas, tra Blair (occasionalmente accompagnato da Manning) e Bush, ai primi di aprile del 2002, la decisione di andare in guerra venne presa inequivocabilmente. Al suo ritorno in Gran Bretagna, quasi un anno prima dell'effettivo scoppio della guerra, Blair istruì in segreto i funzionari del tesoro e di Downing Street di calcolare i costi dei preparativi bellici: “ 'Ci fu detto di fare una forte supposizione che la guerra ci sarebbe stata,' sostiene un alto funzionario. 'Era una situazione molto delicata. Dovevamo muoverci in silenzio, perché politicamente e diplomaticamente si affermava che niente era ancora stato deciso, mentre nella realtà dei fatti la decisione era appena stata presa.'” [pag. 169]

I precedenti interventi come quelli in Sierra Leone e in Kosovo sono stati dimenticati o indolentemente ritenuti un successo, grazie in parte a dei media abbagliati da apparecchiature militari, gergo tecnico e un'altra storia che preme in fila. L'Iraq non si piega a rientrare nell'una o nell'altra categoria, quella delle storie facilmente dimenticabili o quella dei successi. Il danno compiuto dall'Iraq al prestigio di Tony Blair è, secondo Kempfner, inequivocabile: “E' stato profondamente danneggiato in Europa dall'entrata in guerra, dalla percezione che abbia dato troppo appoggio acritico agli Stati Uniti, dal grado in cui ha cercato di persuadere il pubblico che sarebbe riuscito a coinvolgere l' ONU, fallendo chiaramente. L'ha danneggiato enormemente in politica interna, dentro il partito laburista e in generale con i suoi concittadini. E militarmente, da qualunque punto lo si voglia valutare, è stato tutt'altro che un successo.”

Considerando quindi che sia giusto attribuire piena responsabilità per il coinvolgimento della Gran Bretagna in Iraq a Tony Blair, perché non c'é stata nessuna conseguenza? Il 15 febbraio 2003 a Londra si è svolta quella che è stata descritta come la più grande marcia di protesta della Gran Bretagna, con una partecipazione di una folla stimata tra 750mila e 2 milioni, e nonostante ciò le ripercussioni politiche per Blair finora sono state anticipate più che reali. “Nessuno dei suoi collaboratori ha esibito delle prove decisive a smentita delle voci secondo le quali la scorsa primavera/estate Blair fosse sul punto di dimettersi, – commenta Kampfner, speculando sul suo futuro – Era sul punto di farlo. Ha già detto che abbandonerà alla fine del prossimo mandato. La mia sensazione è che deciderà cosa fare sulla base di due fattori: 1) le dimensioni della vittoria laburista il 5 maggio, e 2) il grado in cui quella vittoria sembrerà a causa o a dispetto di Tony Blair. Se prevarrà quest'ultima, a quel punto penso che lascerà abbastanza velocemente, forse entro un paio di mesi, o subito dopo un referendum inglese sulla Costituzione europea. Non me lo figuro rimanere per molto dopo quel periodo.”

E' forse fin troppo facile, però, insinuo durante l'intervista, attribuire tutta la colpa della questione irachena a Tony Blair. Dopotutto, sarà stato lui a promuovere l'idea (con l'appoggio di un intelligence carente), ma il suo governo e il suo partito gliel'hanno permesso, tranne alcune lodevoli eccezioni. “L'incriminazione – concorda Kampfner, – sia dei singoli rappresentanti del governo che del sistema di governo, o della macchina del governo, è che rimasero tutti fedeli e non sollevarono nemmeno alcuni dubbi sulla legalità della guerra, ad esempio, o sulle prove della presenza di armi di distruzione di massa. Si accontentarono di buon grado – e ad un grado preoccupante – di accettare gli argomenti avanzati da Blair. Molti di loro ammetteranno oggi di non aver fatto quel che avrebbero dovuto fare. Che non voleva dire necessariamente opporsi a quel che faceva Blair, ma di sicuro sollevare dubbi ed essere rigorosi nel controllare i fatti e i presupposti, cosa che non fecero. Numerosi ministri hanno affermato in privato che ora si rammaricano che la Gran Bretagna sia andata in guerra
. Devono guardarsi allo specchio e rispondere del fatto che non si opposero a Blair né lo contestarono nei mesi precedenti alla guerra.”

Quindi, mentre la probabilità che l'elettorato punisca direttamente un partito laburista compiacente rimane scarsa (nonostante tentativi come www.libdemthistime.org ), dall'Iraq si possono trarre delle lezioni evidenti? Per esempio, immediatamente dopo la rielezione di George W. Bush serpeggiavano voci che l'Iran e la Siria fossero obiettivi di un processo di 'democratizzazione' americana nel secondo mandato del presidente americano. Ci sarà una sostanziale differenza nel terzo mandato di un governo laburista in relazione all'appoggio alla politica estera americana? “La notte in cui si svolsero le elezioni americane, – ricorda Kampfner, – ero assieme a vari esponenti del governo Blair. Nei primi momenti, quando sembrava dai primi exit poll che John Kerry potesse vincere, le espressioni di giubilo si contenevano a fatica. Circola una certa sensazione tra la gente di Blair, forse persino in Blair stesso, che la seconda amministrazione Bush non porterà altro che guai. La scelta di Paul Wolfwitz a capo della World Bank è stata probabilmente la notizia peggiore che potessero dare al governo di Blair. Perciò, qualunque cosa faccia l'amministrazione Bush, per questo governo è fonte di profondo imbarazzo. Non escluderei tuttavia un futuro intervento militare da parte della Gran Bretagna. Di certo è finita l'epoca in cui Blair o qualunque altro primo ministro era in grado di fare quel che è stato fatto con la questione irachena.”

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