Si esce vivi dagli anni 2000? – Manuel Agnelli degli Afterhours a colloquio con TMO

TMO: Per quanto riguarda le tematiche di questo disco: chi sono le 'piccole iene'? Da qualche parte ho visto che “la 'piccola iena', sono io”, hai detto. Cosa intendevi dire? Altre tematiche che ci hanno colpito sono queste un po' legate alla malattia, al sangue. Mi sbaglio?

Manuel Agnelli: Quando scrivo i testi di solito parlo sempre o di me stesso o del mondo che mi circonda da vicino, per cui le mie amicizie, le mie storie, poi magari in alcuni casi si possono universalizzare questi concetti, per cui chi ascolta il pezzo ci si può riconoscere facilmente. In altri casi, le cose rimangono così personali che magari diventano anche un po' criptiche, un po' difficili da capire. Ancora una volta in questo disco ho scritto su di me, quindi Ballata per la mia piccola iena è un pezzo su di me e sulle persone che mi stanno vicine, che mi erano vicine comunque al momento in cui ho scritto il pezzo. Vicine nel bene, vicine nel male, naturalmente. Tutte le tematiche sono così: abbastanza personali, parlano di storie personali, di punti di vista personali. E' un disco strano, è un disco sulla mediocrità, è un disco sulle cose più meschine dell'animo umano, che però ci appartengono, appartengono un po' a tutti, ogni tanto vengono fuori, con violenza, anche se noi le teniamo schiacciate dentro. In situazioni di emergenza, ogni tanto queste cose vengono fuori, viene fuori il nostro lato più negativo, diciamo. E' un disco sulla routine, sulla routine della vita, non soltanto sulla routine professionale. E' un disco sulla noia, è un disco sull'appagamento e l'irrequietezza. E' un disco di contrasti, come tutti i nostri dischi: parla di una cosa e dell'esatto contrario allo stesso tempo.

TMO: Nell'album in inglese avete inserito anche la cover di Bed di Lou Reed – perché proprio questa canzone in particolare? Si ricollega in qualche modo agli altri temi dell'album?

Manuel Agnelli: Sì, decisamente sì. […] è una canzone tragica, è in un disco tragico, Berlin, che è un disco del '73, o del '72, se non sbaglio, uno dei dischi più belli, secondo me, di Lou Reed, ma anche uno dei meno conosciuti; parla di questo rapporto finito male tra quest'uomo e sua moglie con anche dei bambini di mezzo. E' una canzone veramente molto tragica, alla fine lei si taglia le vene, e lui racconta in modo molto, molto freddo questo tipo di rapporto, come se per lui questa cosa non provocasse nessun tipo di sensazione, di emozione, né positiva, né negativa. Questo lato ci ha affascinato molto, sia me che Greg, è una canzone che piace tantissimo a tutt'e due e l'abbiamo un po' trasformata, perché l'abbiamo cantata insieme, come se sia io che lui fossimo stati due uomini della stessa donna e ci stessimo raccontando la nostra esperienza, […].

TMO: Senti, questa è un po' una provocazione, però mi è venuta in mente perché abbiamo fatto un'intervista a Glen Hansard dei Frames un po' di tempo fa e lui ci diceva che, per scrivere la musica, gli serve questa sofferenza, questo struggimento, di cui forse parlavi anche tu prima, quando ti ho chiesto dei temi delle Piccole Iene. Poi però lui ha aggiunto che non si può fare questa cosa “con la pancia piena e una famiglia felice”. Tu cosa ne pensi, visto che immagino sarai in un periodo particolare della tua vita? [Agnelli ha da poco avuto una bambina, che, ci ha detto lui, per fortuna dorme tutta la notte!]

Manuel Agnelli: Scusa ma per me è una gran stronzata! [Ride] E' una grande stronzata perché la musica non si scrive … la musica la potremmo scrivere tutti allora, a seconda delle nostre esperienze, perché quello di cui si parla nella musica è comune a tutti. Il musicista, l'artista in generale, non ha delle esperienze particolari, ha una sensibilità particolare, attraverso la quale filtra le proprie esperienze. In realtà parliamo tutti delle stesse cose, viviamo tutti le stesse cose, anche per questo la gente si riconosce nelle canzoni o in altre opere d'arte (non voglio dire che le canzoni siano opere d'arte, ma tanto per spiegare). La gente si riconosce perché poi effettivamente le tematiche sono comuni, o si riconosce in un punto di vista, in un'atmosfera, in una situazione successa. L'artista non inventa quasi niente, se non a livello stilistico; le storie che si raccontano di solito sono sempre le stesse. E' il modo; è la sensibilità che filtra le esperienze a rendere uniche queste situazioni. Poi uno la sensibilità ce l'ha anche con la pancia piena e la famiglia felice, nel senso che se una persona nasce tormentata, nasce inquieta, irrequieta, lo rimarrà sempre anche nelle situazioni diciamo quotidianamente più tranquille, anche perché non sono quelle che ti portano la felicità, se mai è possibile raggiungere una certa sorta di felicità. Qui potrei anche fare un discorso molto lungo, mettendo anche in dubbio il concetto che bisogna essere tristi, malinconici o depressi per poter fare dell'arte o poter scrivere della musica: anche questa è una grandissima stronzata. Ci sono dei grandissimi artisti nella storia della musica che erano ricchi di famiglia o vivevano situazioni particolarmente felici. E ti cito proprio i grandi: pensa a Michelangelo, pensa a Leonardo da vinci, pensa a Dalí, a Picasso, pensa a Duchan, … [neanche uno è un musicista però…]. Tutta questa gente era più che benestante. Erano ricchi, erano situazioni pazzesche, e hanno prodotto delle opere d'arte ben più grandi di qualsiasi rock'n'roll. Ora, non era necessaria per loro una sorta di 'crisi' quotidiana, legata a delle cose molto pratiche, come la malattia, il cibo, la povertà. L'irrequietezza che serviva a fare quelle grandi opere d'arte, loro ce l'avevano dentro comunque, così come il loro genio, le idee, il fatto che loro inventassero delle cose. Cioè il loro dentro non dipendeva certo dai festini che facevano a corte piuttosto che i soldi che guadagnavano vendendo i loro quadri o i bozzetti dei loro quadri. Per cui sai, secondo me, questo che fa questa persona [Glen Hansard] è un discorso purtroppo abbastanza banale, che deriva dall'idea romantica di arte che è partita dalla Bohème e dal bohémien, e lì il bohémien moriva a trent'anni di tisi, povero e dimenticato, ed è un'idea molto romantica, che ai giovani piace molto. E' un'idea applicata al rock'n'roll quanto più spesso possibile: bisogna morire prima dei quarant'anni, bisogna
morire maledetti, bisogna essere drogati ed è quasi più importante quello di ciò che fai nella musica. Per me questa, lo ripeto, è un'emerita stronzata. Ci sono personaggi come Nick Cave, Tom Waits, Paolo Conte, Johnny Cash – te ne potrei citare tantissimi – che fino in tarda età hanno fatto delle cose meravigliose o stanno continuando a farle. Spero e mi auguro di farle anch'io, di migliorare, di diventare ancora più bravo [conclude ridendo].

TMO: E di restare felice…

Manuel Agnelli: Ma io, sai … il concetto di felicità è un po' … Non oserei dire di essere felice, perché io in realtà sono una persona molto irrequieta, anche in situazioni molto positive. E' una cosa che ho naturalmente dentro, deriva dal mio tipo di sensibilità, non è un'idea, non è una situazione pratica che ti rende felice, credo che questo te lo possa dire chiunque. Però giustamente non vado in giro a fare il 'piangina' maledetto perché questo mi dà un'aura, mi dà un certo tipo di legittimità: non me ne frega niente, perché ho troppo rispetto per le mie emozioni, per la mia vita, per essere così finto. Non ce n'è nessun bisogno. [Per rendere giustizia al povero Glen Hansard, vale la pena di riportare la 'frase incriminata' tratta dall'intervista rilasciata a TMO dall'artista irlandese in occasione del tour europeo dei Frames: “Non dico a me stesso 'Ok, adesso sono depresso, scrivo una canzone' […] Quel che devo fare è andare a casa, spegnere la TV, la radio, perché il buio è solo a due passi di distanza, o ventiquattr'ore in un edificio da soli prima di iniziare a vedere i demoni, prima che i muri inizino a brulicare, hai presente? Mi è sempre stato accessibile. […] arrivi a casa e le mura risuonano dei rumori dei bambini, e la cena si sta cuocendo, non si riesce a scrivere una canzone, ci si siede là felici, con un sorriso a trentasei denti!”].

TMO: Un po' me l'hai già spiegato quando parlavi di questa sensibilità dell'artista. Cosa succede quando scrivi per la prima volta le parole di una nuova canzone? Segui ogni volta un iter particolare, oppure la canzone è lì nell'aria e prima o poi l'acchiappi?

Manuel Agnelli: Tutte e due le cose, nel senso che io ho cercato di darmi un metodo, perché è la cosa che ti fa sentire meglio, perché sennò scrivere era un po' una cosa molto … sofferta. Avere un metodo ti dà un po' più sicurezza, però le cose che mi sono uscite usando il 'metodo' non mi hanno mai esaltato, per cui purtroppo ci hodovuto un po' rinunciare, […] aspetto veramente di aver qualcosa da dire. Che vuol dire tante cose: vuol dire avere un'intuizione anche soltanto stilistica, no?, una frase messa giù in un certo modo, un suono, una canzone, un riff, piuttosto che avere in mente un concetto o avere un discorso da fare ad un'altra persona. Tutte queste cose poi uno se le risolve, col metodo, col lavoro: si mette lì e scrive. Però aspetto sempre l''ispirazione' perché in realtà per me suonare non è un lavoro, anche se può sembrare strano dirlo; è veramente una cosa meravigliosa, catartica, che mi fa sentire meglio, quando riesco a scrivere uan canzone mi sento veramente meglio, mi aiuta veramente a risolvere tante cose proprio interiori, quindi sai, buttare via questo tipo di vantaggio, per scrivere dieci canzoni in più al mese, mi sembra stupido, quindi sono molto lento, anche per questo, a realizzare le cose, però aspetto sempre di aver qualcosa da dire.

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