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Storia – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 Sessualita', Peccato E Sacrificio: L’Analisi Critica Del Patriarcato. A Colloquio Con Mary Condren https://www.threemonkeysonline.com/it/sessualita-peccato-e-sacrificio-lanalisi-critica-del-patriarcato-a-colloquio-con-mary-condren/ https://www.threemonkeysonline.com/it/sessualita-peccato-e-sacrificio-lanalisi-critica-del-patriarcato-a-colloquio-con-mary-condren/#respond Fri, 01 Jul 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/sessualita-peccato-e-sacrificio-lanalisi-critica-del-patriarcato-a-colloquio-con-mary-condren/ La censura non è caratteristica esclusiva dei governi totalitari. Può essere un’arma sottile grazie alla quale idee discordanti, pur non venendo bandite, vengono però, con vari espedienti, marginalizzate. The Serpent and the Goddess [N.d.T.: Il Serpente e la Dea], l’innovativa opera di Mary Condren, uno studio su donne, religione e potere nell’Irlanda celtica, non ha […]

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La censura non è caratteristica esclusiva dei governi totalitari. Può essere un’arma sottile grazie alla quale idee discordanti, pur non venendo bandite, vengono però, con vari espedienti, marginalizzate. The Serpent and the Goddess [N.d.T.: Il Serpente e la Dea], l’innovativa opera di Mary Condren, uno studio su donne, religione e potere nell’Irlanda celtica, non ha mai fatto parte di una lista di libri proibiti, ma ciononostante è un libro non facile da trovare. Come spiega Condren nell’introduzione all’ultima edizione del libro (New Island Book, 2002), quando The Serpent and the Goddess fu pubblicato per la prima volta nel 1989, nonostante l’entusiasta accoglienza del pubblico e le vendite incoraggianti, era difficile da trovare nelle librerie. Dato l’argomento del libro ciò non deve sorprendere. Affrontando temi di importanza universale, in un’Irlanda dominata dalle ideologie gemelle di cattolicesimo e nazionalismo, l’opera ha sfidato l’autorità di numerose “vacche sacre”. Condren, sostiene, ad esempio che “ proprio come l’Inghilterra aveva colonizzato il popolo irlandese, noi donne irlandesi non eravamo a nostra volta state colonizzate dalle strutture patriarcali di Chiesa e Stato?” (The Serpent and the Goddess, pag. xviii).

Mary Condren, un’ex suora carmelitana, ha studiato teologia, sociologia e antropologia sociale. Studi che, come l’autrice afferma nell’introduzione al libro, “non mi hanno permesso fino ad ora di leggere un testo senza pormi domande sulla relazione tra potere, sesso ed economia”. I suoi studi su donne, religione e potere sono stati condotti sullo sfondo violento dell’Irlanda del Nord. Una violenza che durava da secoli, centrata sulla rivalsa territoriale e sulla legittimità di chi deteneva il potere della chiesa e dello stato. L’analisi di Condren è stata coraggiosa e radicale e ha infranto alcuni dei più forti tabù riguardo al conflitto, un tabù incoraggiato da entrambe le parti le quali pretendevano che alla religione fosse assegnato un ruolo supplementare all’interno del conflitto. “Diamo per scontato che il Pescatore di Nazareth abbia da tempo cessato di avere una relazione con il cristianesimo storico. Forse oggi ci ritroviamo in questa situazione non perché il cattolicesimo ha fallito, o non è mai stato messo in discussione, ma perché, in quanto portatore di patriarcato in occidente, è riuscito ad affermarsi” (The Serpent and the Goddess, pag. x).

Attualmente Mary Condren è la direttrice dell’Istituto per il Femminismo e la Religione irlandese e continua ad essere una voce intelligente che sfida e mette in discussione le relazioni di potere esistenti nella mondo religioso e in quello laico. The Serpent and the Goddess è stato scritto più di 15 anni fa ma rimane attuale come i temi che ha indagato. Le analisi dei rapporti tra stato e chiesa, il controllo sulla procreazione e il ruolo del patriarcato nel conflitto violento lo rendono una lettura affascinante nella realtà attuale, dove si fanno le guerre “per esportare la democrazia”, dove all’interno dell’Unione Europea si discute animatamente se includere o meno la religione nella costituzione, dove, in una cultura a favore della vita, l’utilizzo delle cellule staminali da parte degli scienziati pone ai governi importanti problemi di ordine etico e dove si spendono ogni anno migliaia di dollari per costruire ‘legittimamente’ nuove armi senza alcuno scrupolo morale. Three Monkeys Ondine ha avuto il piacere di intervistare Mary Condren per discutere i temi della sua opera.

Il problema della storia

“La storia ha costituito un luogo all’interno del quale il maschio ha tutelato il proprio potere, politico e religioso. Ma lo spazio sacro della storia fatta dai maschi è stato spesso e, letteralmente, costruito sul corpo delle donne. Usando i termini Tradizione, Precedente, e anche Volontà Divina, in molte culture i maschi si sono ispirati a, o hanno consolidato, un passato mitico o sacro per giustificare il loro predominio sociale”. (The Serpent and the Goddess, pag. xvii).

Chi non conosce la storia è destinato a ripeterla, ma la storia è sempre stata scritta dai vincitori. La storia dell’Irlanda pre-cristiana, ad esempio, fu scritta da scribi cristiani che, trovandosi di fronte al problema di cosa salvare e di cosa scartare della storia di una società (la storia, la tradizione e la mitologia dell’Irlanda pre-cristiana erano tramandate per via orale), fecero ciò che per secoli tutti gli storici hanno fatto: salvarono ciò che sosteneva il loro modello ideologico (l’eroismo celtico, ad esempio) e scartarono ciò che avrebbe potuto mettere in discussione quel modello, come, ad esempio, il ruolo della donna nella società. “Quando la religione cattolica arrivò in Irlanda, all’incirca nel quarto o quinto secolo, l’Irlanda non era certo un paese pacifico”, chiarisce Condren. “Aveva già subito invasioni e colonizzazioni ed era essenzialmente una società guerriera e molto violenta. Lo si può dedurre dai rapporti che intercorrevano tra clero e guerrieri, ma, ancora prima di essi, esisteva una società pre-celtica in cui era il sistema matrilineare a tenere unita la società. Esso tutelava i più deboli e i più vulnerabili, tuttavia i Celti lo rimpiazzarono con una struttura sociale essenzialmente violenta e aggressiva”.

La svalutazione del ruolo della donna non fu caratteristica esclusiva dell’Irlanda cattolica. Nel suo libro, Condren paragona il ruolo ideologico della religione nella società di Israele e nell’antica società irlandese e cattolica. “Ho messo a confronto irlandesi e israeliti”, spiega, “perché erano entrambe società tribali e dovettero entrambe affrontare il problema di come imporre il patriarcato alle vecchie strutture matriarcali. In altre parole, come avviene il passaggio da una società basata sulla consanguineità ad una basata sullo Stato?”.

Analizzando la storia della Genesi e mettendola a confronto con più antiche mitologie – “La [Genesi] fu scritta tra il decimo e l’ottavo secolo prima di Cristo e non fu certo il primo libro biblico ad essere scritto, anche se appare come il primo in ordine cronologico.” (The Serpent and the Goddess, pag. 11.) – Condren delinea un preciso obiettivo politico. Il giardino dell’Eden, il Serpente e l’albero della saggezza erano simboli già esistenti in molti miti della creazione, incluso quello sumero della dea Ninhursag. In esso, la dea ha le sembianze di un serpente (o di una donna con la coda di pesce) e presiede alla fertilità (una fertilità “senza il dolore del travaglio”). In seguito la Genesi modificherà radicalmente il significato di questi simboli: il serpente non è più una divinità, la creazione è nelle mani di Dio che fa nascere la vita da Adamo e non da Eva. In altre parole i ruoli naturali vengono sovvertiti.

“In parole povere il tipo di religiosità rappresentata dal serpente era una minaccia per la neonata religione di Israele o, in verità, per la futura civiltà occidentale. Perché Israele diventasse uno stato e una nazione, con tutte le trappole politiche e militari che ciò comportava, le religioni basate sulle divinità dovevano essere sovvertite. Si doveva credere ad un solo dio, Yaveh, e il simbolismo della nuova religione sarebbe stato basato sulla Promessa e sulla Storia piuttosto
che sulla Vita e sul Rinnovamento Ciclico rappresentato dal serpente.” (The Serpent and the Goddess, pag. 11.).

L’espansione territoriale è dunque una conseguenza imprescindibile della religione? “Credo che la religione possa essere usata per espandersi territorialmente, ma le energie impiegate in questo processo sono molto più grandi della religione,” risponde Condren. “La religione fornisce un sistema simbolico pronto, l’ immagine che uno ha di Dio è sempre legata alle proprie battaglie personali o politiche e uno dei compiti principali delle religioni sarebbe quello di dimostrarlo, proprio come fanno i profeti. La religione dei preti e del clero va mano nella mano con il potere.”

Brigit, Peccato e Sessualità

Nella tradizione irlandese la trasformazione della simbologia femminile, da dominante a sottomessa, è ben rappresentata dalla figura di Brigit, sulla quale Condren ha concentrato molto del suo lavoro. “Brigit è sinonimo di antica dea dell’Europa. Nelle mie ricerche ho scoperto che molte tradizioni che in Irlanda sono legate alla figura di Santa Brigit risalgono alle antiche divinità europee, anche se non si festeggiano nello stesso giorno. In Bulgaria ad esempio si stende il mantello il primo di marzo, in Irlanda invece lo si fa il primo febbraio. La tradizione vuole che durante la notte la dea cammini sul manto e lo impregni di rugiada, conferendogli così un potere taumaturgico. Brigit era dunque l’antica dea dell’Europa, la parola brigit significa infatti “colei che sta in alto” o “l’altissima”. In Irlanda essa incarnava in sé le antiche divinità che, nel monastero di santa Brigit, appaiono in guise diverse. Riunì anche le chiese, sacre mura native. Il suo culto sarebbe stato una forza molto potente con la quale la chiesa cattolica avrebbe dovuto scontrarsi. Nel quinto secolo esisteva a Kildare una scuola, che si potrebbe definire scuola pagana o un precursore dell’università, e si dice che una donna di nome Brigit, riuscì a trasformare quel luogo in una scuola cristiana. Ciononostante la figura di Brigit continuò ad avere un ruolo dominante, essendo la badessa del monastero di Dublino. Quando il patriarcato cominciò ad affermarsi sia nella chiesa che nello stato tutte quelle forme di religione in cui la donna aveva un ruolo simbolico o di una certa importanza vennero gradualmente sradicate. Le donne erano considerate l’incarnazione del caos e gli uomini i depositari della razionalità. Fu un processo graduale, ma nel giro di cinque secoli l’autorità religiosa delle donne venne abolita. Lo si può desumere, ad esempio, dalle vite dei santi dove le donne non erano affatto benviste. Nel dodicesimo secolo la badessa di Kildare , che fino al allora aveva avuto un importante ruolo simbolico nella cultura irlandese, fu stuprata dai soldati di Dermot MacMurrough e ciò mise fine, simbolicamente ed effettivamente, alla sua stirpe.”

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Restaurazione e Invenzione: Il ruolo del linguaggio nell'invenzione della nazione irlandese e norvegese https://www.threemonkeysonline.com/it/restaurazione-e-invenzione-il-ruolo-del-linguaggio-nellinvenzione-della-nazione-irlandese-e-norvegese/ https://www.threemonkeysonline.com/it/restaurazione-e-invenzione-il-ruolo-del-linguaggio-nellinvenzione-della-nazione-irlandese-e-norvegese/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/restaurazione-e-invenzione-il-ruolo-del-linguaggio-nellinvenzione-della-nazione-irlandese-e-norvegese/ Le nazioni non sono un fenomeno completamente nuovo. Il concetto di nazione irlandese e norvegese risale infatti al medioevo. Ciò che però costituisce una novità è il riconoscimento, da parte della popolazione in generale, di appartenere alla Nazione. L’essere umano è un animale sociale e, da tempi antichissimi, si è sempre definito come X, figlio […]

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Le nazioni non sono un fenomeno completamente nuovo. Il concetto di nazione irlandese e norvegese risale infatti al medioevo. Ciò che però costituisce una novità è il riconoscimento, da parte della popolazione in generale, di appartenere alla Nazione. L’essere umano è un animale sociale e, da tempi antichissimi, si è sempre definito come X, figlio di Y, originario di Z. All’alba dell’era moderna, questo innato senso della comunità ebbe la sua massima espressione nell’attaccamento al luogo di nascita e nella fedeltà al signore locale. La nascita dello stato moderno vide però l’allargarsi, dal locale al nazionale, di questi orizzonti. Stando a questi parametri la nazione divenne, secondo le parole di Benedict Anderson, una “comunità immaginata”1 poiché i suoi membri, pur non conoscendosi personalmente, condividevano un senso di appartenenza alla stessa comunità. Similmente ad un’altra grande comunità immaginata, la religione, la devozione alla nazione deve essere sostenuta dalla convinzione che tutti i membri sono uniti da uno stesso legame. La selezione e la promozione di ciò che è destinato a diventare un legame comune è quel che si potrebbe definire l’invenzione della nazione. Le persone hanno sostenuto la causa del nazionalismo sotto una varietà di bandiere: una terra comune, religione, etnia, storia e anche un linguaggio condiviso. In certi casi alcuni di questi elementi sono considerati prerequisiti dell’appartenenza ad una nazione mentre altri rinforzano il legame comune. Nel caso di Irlanda e Norvegia la lingua nazionale non fu un prerequisito di appartenenza alla nazione in quanto, in entrambi i paesi, essa era stata soppiantata dalla lingua del paese confinante e dominante. Alla lingua nazionale non era richiesto di rappresentare un comune veicolo per trasmettere il messaggio del nazionalismo, in quanto questa esigenza era già soddisfatta rispettivamente dagli inglesi e dai danesi. In entrambi i paesi però la lingua si dimostrò una forza potente nella genesi della nazione e fu utilizzata come strumento politico per spingere Irlanda e Norvegia all’indipendenza. Se si considera il fatto che il processo avvenne con modalità diverse nei due paesi si comprende come il nazionalismo possa assumere forme diverse, dando una minore o una maggiore enfasi ai vari fattori, a seconda dei paesi. La seguente disamina rivelerà inoltre i parallelismi esistenti tra i due nazionalismi e come essi sono stati vissuti nei due paesi. Si vedrà come i principi del nazionalismo culturale furono acquisiti dalla medesima fonte e che benché, tali principi furono applicati in modo diverso, il nazionalismo culturale ebbe il medesimo sviluppo in entrambi i paesi. La politicizzazione della questione della lingua ebbe infatti a che fare tanto con la competizione per il potere quanto con l’aspirazione ad un’identità irlandese e norvegese. Se la nazione è la comunità ideale, si può affermare che il nazionalismo divenne l’arte di indurre le persone ad immaginarla secondo determinati criteri. Uno sguardo al linguaggio post indipendenza è altrettanto illuminante. In entrambi i paesi esisteva una situazione paradossale in cui la lotta, che pretendeva di affermare l’essenza della nazionalità e l’esistenza di una lingua nazionale che accomunasse i cittadini di una nazione, divenne invece il motivo principale di una divisione che perdura tuttora.

In Germania, le idee di Herder e Fichte ispirarono un senso nazionale di autostima, che cominciò a diffondersi negli anni che seguirono l’occupazione francese agli inizi del XIX secolo. Questo crescente senso di identità nazionale si basava quasi esclusivamente sul possesso di una lingua comune. Herder scrisse che “senza una sua lingua un Volk (popolo) è un’idea assurda, una contraddizione in termini”. Che il nazionalismo tedesco si basasse sulla lingua non deve sorprendere poiché essa era l’unico comune denominatore in un insieme di stati altrimenti frammentario. Questo nazionalismo culturale basato sul linguaggio si diffuse dalla Germania al resto d’Europa e, se la questione della lingua fu fondamentale nella nascita della nazione tedesca, si impose decisamente anche in paesi come l’Irlanda, dove la lingua nazionale era quella della minoranza, e come la Norvegia, dove di essa non era rimasta traccia.

Tra coloro che aderirono a questo movimento vi fu la corrente del romanticismo che costituì una potente forza trainante di grande impatto emotivo. La nazione era considerata qualcosa di primordiale dal passato glorioso, la cui storia si dipanava nei secoli in progressione teleologica verso una nuova grandezza. Il passato veniva attentamente rivisitato alla ricerca di miti e saghe e le nazioni si inventarono un passato glorioso ed eroico dove la lingua costituiva un legame mai interrotto con quel passato. Romantico, eroico e glorioso questo concetto di nazionalismo ispirava poeti e patrioti e spingeva le persone a combattere e morire per l’ideale di patria. Non prese però questa direzione se non quando si trovò al centro della scena politica. In Norvegia e in Irlanda, il problema della lingua assunse connotazioni politiche in misura diversa sia per quanto riguarda la collocazione temporale che l’intensità, ma si può affermare che, in entrambi i casi, essa fu influenzata dallo sviluppo dei partiti politici e costituì un passo avanti verso un tipo di nazionalismo più esclusivo.

In Irlanda il nazionalismo culturale di ispirazione herderiana emerse in un’epoca dominata dal nazionalismo culturale di Daniel O’Connell. O’Connell aveva fondato un movimento nazional-popolare, celandolo dietro la sua campagna per l’emancipazione cattolica. Era un nazionalismo definito soprattutto dalla sua natura religiosa e, nonostante parlasse correttamente l’irlandese, O’Connell incoraggiò l’uso dell’inglese tra i suoi seguaci2. A partire dal 1831, il sistema scolastico nazionale sostenne la diffusione dell’inglese. Il sistema sfondava però una porta già aperta in quanto, grazie alla situazione economica vigente, l’irlandese era considerato la lingua dei poveri, mentre l’inglese era visto come la lingua delle grandi opportunità3. Era quindi difficile per Thomas Davis riconciliarsi con la realtà irlandese in quanto la sua visione delle cose, ispirata dal continente, sosteneva che “perdere la propria lingua madre e acquisirne una straniera è l’emblema peggiore della vittoria”4. Davis comprese che le passate glorie irlandesi, incluse quelle della lingua, potevano essere efficacemente diffuse tramite le pagine del The Nation, in inglese. Dopo la carestia, la lingua irlandese aveva subito un declino tale che il suo principale interesse divenne quello di difendere coloro che erano interessati alla sua conservazione, in contrapposizione al suo ripristino. La lingua aveva un ruolo minore in politica poiché il nazionalismo si concentrava sulla questione della terra e divenne una significativa entità politica a sostegno di Parnell e del partito parlamentare irlandese. Grazie all’aiuto di Gladstone a Westminster tutto faceva pensare che il nazionalismo costituzionale, reso cattolico da O’Connell, connesso alla lotta per la terra da Parnell, e divenuto anglofono e conservatore allo stesso tempo, si sarebbe imposto. L’unico problema del nazionalismo costituzionale era che il suo successo era costruito sulla promozione degli interessi dell’Irlanda cattolica e dal nord est sarebbe presto fatta sentire una voce, fino a quel momento ignorata, che intendeva impedire questo processo. Il veto unionista/conservatore d
ella Home Rule (N.d.T.: per Home Rule si intende il maggior potere decisionale concesso all’Irlanda riguardo al modo in cui essa veniva governata, potere che li affrancava dal dominio di Londra e che era teso a placare coloro che volevano una maggiore autodeterminazione per il paese) del 1886 fu la chiave di volta che portò a radicali cambiamenti dello scenario politico che avrebbero visto la lingua irlandese diventare un elemento centrale di una diversa concezione della nazione.

Mentre per tutto il XIX secolo l’uso della lingua irlandese fu limitato ai margini del nazionalismo, la situazione in Norvegia non era altrettanto definita. Dopo le guerre napoleoniche, la Norvegia, sotto il dominio della Danimarca dal 1397, venne annessa alla Svezia. La Norvegia si oppose e venne varata una Costituzione indipendente ma, dopo brevi ostilità, fu costretta ad accettare l’annessione alla Svezia. Le fu tuttavia concesso di mantenere la propria Costituzione e, con essa, buona parte della propria indipendenza5. Grazie all’improvvisa separazione dalla Danimarca, lo stato norvegese, che era stato represso per quattrocento anni, tornò ad esistere. Ma se non fosse nata una nazione norvegese ad affiancarlo, la recente indipendenza avrebbe potuto essere messa in discussione dagli svedesi. L’esigenza di una tempestiva reinvenzione della nazione coincise con l’affermarsi in Europa del nazionalismo di ispirazione romantica e molti norvegesi furono aderirono agli ideali tedeschi. Uno di essi fu il poeta Henrik Wergeland (1807-1845), il quale affermò:

“La Norvegia non deve più rimanere una provincia culturale della Danimarca. Se i norvegesi perderanno la fiducia in se stessi e nel loro futuro in ambito culturale la Norvegia non godrà più dei benefici dell’indipendenza politica.”6

La questione della lingua norvegese divenne motivo di grande interesse. Il vecchio norvegese aveva cominciato ad essere soppiantato dal danese in seguito all’annessione alla Danimarca avvenuta nel 1397 e, ai tempi della Riforma, grazie all’introduzione in Norvegia della Bibbia scritta in danese, questo processo fu completato. Il desiderio di troncare ogni legame con il passato danese, unito al nazionalismo linguistico di ispirazione tedesca, diede il via ad una riforma della lingua che aveva lo scopo di trasformare il danese parlato in Norvegia in lingua norvegese. In un suo saggio del 1835, intitolato Sulla riforma della lingua norvegese, Wergeland auspicò la necessità di una riforma e di una lingua scritta indipendente ma mise in guardia dal fatto che “la conquista e l’onore di una lingua indipendente” avrebbe portato la Norvegia ad “una guerra civile letteraria”7. Il danese parlato in Norvegia aveva una pronuncia caratteristica che si distingueva dall’originale. Le differenze tra le due lingue andavano dal danese quasi puro parlato nelle città a quello meno puro delle campagne fino agli oscuri dialetti delle aree più remote. L’approccio tradizionale alla riforma fu capeggiato da Knut Knudsen (1812-1895), la cui era intenzione era quella di prendere quello che lui definiva byfolkets talesprog (la lingua parlata dagli abitanti della città) e introdurre gradualmente e nel tempo un’ortografia più norvegese. Ivar Aasen (1813-1896) adottò un approccio più radicale che considerava i dialetti delle aree più remote non come forme degeneri del danese bensì come residui alterati del vecchio norvegese. La conseguenza fu che emersero due definizioni diverse di norvegese: una più comunemente accettata e conservatrice che cercava solo di dare lustro al danese parlato nelle aree urbane della Norvegia per poi definirlo norvegese; l’altra, più rivoluzionaria nel contenuto, sosteneva che quegli oscuri dialetti costituivano un legame con la vecchia lingua. Utilizzando questi dialetti Aasen ideò un linguaggio completamente nuovo che definì norvegese. Per distinguere tra le due lingue, la versione di Aasen fu chimata Landsmal (lingua delle campagne). Apprezzata da poeti e scrittori sarebbe rimasta poco più che una curiosità linguistica se nel 1880 non fosse stata utilizzata come strumento politico.

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Calcio e fascismo – la creazione della Serie A italiana https://www.threemonkeysonline.com/it/calcio-e-fascismo-la-creazione-della-serie-a-italiana/ https://www.threemonkeysonline.com/it/calcio-e-fascismo-la-creazione-della-serie-a-italiana/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/calcio-e-fascismo-la-creazione-della-serie-a-italiana/ Il 2 Agosto 2005, i tifosi del Messina hanno bloccato lo strategico stretto, tra la città e la penisola italiana, protestando contro la retrocessione della squadra in serie B. Questo non è altro che un piccolo episodio in una lunga storia di sostegno calcistico appassionato, e di intrighi politici (la squadra è stata riammessa in […]

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Il 2 Agosto 2005, i tifosi del Messina hanno bloccato lo strategico stretto, tra la città e la penisola italiana, protestando contro la retrocessione della squadra in serie B. Questo non è altro che un piccolo episodio in una lunga storia di sostegno calcistico appassionato, e di intrighi politici (la squadra è stata riammessa in serie A pur avendo violato le disposizioni finanziarie), in uno dei campionati tra i più emozionanti e famosi, la serie A italiana. Il fatto che la Serie A sia stata istituita dal governo fascista di Mussolini non è menzionato; si discute tra una sciocchezza e l'altra dei migliori cannonieri o della squadra col maggior numero di scudetti.

Infatti, il governo fascista comprese subito la popolarità e il potenziale del gioco del calcio, “ma solo dopo la guerra quello sport conobbe il suo massimo successo”, commenta Simon Martin, storico ed autore di Football and Fascism – The national game under Mussolini [ N.d.T.: Calcio e fascismo – Il gioco nazionale sotto Mussolini]. “È scontato che alcune tra le prime squadre nacquero tra 1880-90, ma il gioco esplose soprattutto dopo la prima guerra mondiale. Ed è una delle ragioni per cui i fascisti vollero assumerne il controllo.”

Qual è però la ragione della popolarità del gioco (che rasenta l'ossessione religiosa)? “Inizialmente ebbe successo per il solo fatto di essere stato introdotto”, afferma Martin, con la sicurezza di uno studioso che è anche tifoso. “C'è un dibattito sulle sue origini, – continua. – I fascisti stessi erano abbastanza convinti nell'asserire che il Calcio Fiorentino fosse all'origine del moderno gioco del calcio. Alcuni dicevano che veniva dal Sud, da Napoli. Ma effettivamente, la maggior parte delle persone sono d'accordo nell'affermare che fu introdotto da mercanti inglesi, soprattutto a Genova, città che vide nascere le squadre di calcio e di cricket tra le prime in assoluto di tutta la nazione. Una volta introdotto, ebbe un successo travolgente, più che altrove. Fu soprattutto dovuto all'avanzare dell'industrializzazione. Non è un caso infatti che il gioco esplose nel Nord, nel triangolo industriale costituito da Genova, Torino e Milano, dove le imprese cominciavano a pubblicizzare lo sport, sia per moventi filantropici, che per ragioni di controllo sociale. Non era in realtà uno sport molto importante nel Sud, a causa della grande estesione delle aree rurali infatti, la mancanza di grandi città non permetteva la presenza della folla di cui si aveva bisogno. L'evoluzione del gioco era strettamente connessa alla crescente industrializzazione, che avvenne abbastanza tardi in Italia.”

La combinazione tra la popolarità dello sport nel 1920, ed il clima di tensione sociale che portò il fascismo al potere, diede al calcio l'attenzione del regime al potere. Si può segnalare una data precisa per l'intervento del fascismo nel calcio italiano. “Il momento specifico è rappresentato dal 1926, con la redazione della Carta di Viareggio”,spiega Martin. “C'è la prova dell'interesse fascista allo sport, un po' prima, ma risulta impossibile dimostrarlo. Prima del 1926, gli interessi sportivi di Mussolini erano proiettati verso sport più 'nobili', quali la scherma, la boxe, la caccia, e sport motoristici.”La Carta di Viareggio è stata redatta dopo diverse partite molto controverse e alcune decisioni arbitralidel 1925, che avevano portato un po' di caos nel calcio, come Martin afferma. “Nel 1925, tra il Bologna ed il Genova si disputò un play-off, che fu ripetuto ben cinque volte. Durante una partita che si giocò a Torino, si verificarono disordini tra la folla. Furono sparati alcuni colpi tra il pubblico, e la ripetizione dell'incontro fu giocata a porte chiuse, dove i soli spettatori erano per puro caso dei fascisti bolognesi guidati da Leandro Arpinati (che finì col diventare il Presidente della FIGC, la Federazione Italiana Giuoco Calcio). Si riporta che stessero ai bordi del campo, con le pistole ben in mostra, e un fare intimidatorio. Arpinati quindi era davvero consapevole del gioco e della sua influenza, soprattutto a Bologna. L'anno clou per il fascismo nel calcio, fu il 1926, quando presentarono [il governo] un gruppo d'esperti per redigere questa Carta di Viareggio.” Il documento riorganizzò il gioco e sua amministrazione, con nomine per i diversi enti che regolavano il calcio che rientravano nel quadro delle responsabilità di Mussolini. “Qui inizia ciò che molte persone definiscono il 'calcio in camicia nera'.”

Il calcio, ad ogni modo, non era necessariamente il mezzo primario per comunicare con le masse. Divenne però tra i più efficaci.”Avevano accarezzato l'idea di un teatro fascista, un teatro per la gente, e fecero la prova con un teatro per 20.000 persone a Firenze. Furono spesi soldi ed energie, ma non ebbe molto successo. Con il calcio capirono subito che, mentre spendevano questi soldi altrove, ogni weekend c'erano forse 200,000 persone intenzionate ad assistere agli incontri, insieme a coloro che non ci andavano ma mostravano un vivo interesse a riguardo.” E così la FIGC sotto il controllo fascista creò una nuova lega nazionale. La prima lega nazionale comparve nell'anno 1928-29, con due divisioni – nord e sud – e il vincitore deciso allo spareggio. La prima unica lega nazionale –la Serie A – scese in campo nel 1930. Tutto ciò fu accompagnato da un progetto estensivo di costruzione di stadi e l'introduzione di programmi di educazione fisica.

“I fascisti furono abbastanza astuti in questo periodo in quanto riconobbero nel calcio la sua vera natura: uno sport amato dalle masse. Era davvero l'unico mezzo di cui disponevano per raggiungere la società di massa. Poco importa se accadeva tramite coloro che guardavano gli incontri, o tramite coloro che leggevano i giornali, o che ascoltavano altri leggere i giornali. Erano entusiasti all'idea di attaccarsi ad uno sport nazionale, ed il calcio aveva questo ruolo. Non ebbe nessuna imposizione nel divenire uno sport fascista. Queste squadre dovevano essere capeggiate da fascisti. In un certo senso accadde automaticamente, con la creazione di una lega nazionale. Con la Serie A, vollero creare un senso d'identità nazionale. Quindi, piuttosto che avere diverse 'leghe', come la Lega Campania, la Lega Lazio, vollero una lega nazionale unica, che dicesse 'questa è un'unica nazione', così il Napoli si sarebbe spostato fino a Torino per incontrare la Juventus. Nel contempo capirono che per avere una lega nazionale non potevano esserci troppe mini squadre. Per esempio a Roma, c'era un vasto numero di squadre, ma si fusero in una sola per formare l'AS Roma, che era guidata dal leader fascista del posto, Italo Foschi. Arpinati era il Presidente della federazione calcio nel mentre, e fu proprio lui a rendersi conto di tutto ciò. Disse alle squadre che se volevano far parte della lega dovevano mettere insieme le proprie forze, così automaticamente molti dei Comuni, governati dai fascisti, incoraggiarono le proprie squadre ad unirsi per formare un’unica squadra che avrebbe rappresentato la città. Non si trattava di una disposizione, ma poiché le città erano sotto il controllo del partito fascista, fu un'azione quasi automatica.”

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La Femminilità nell'opera di Harry Clarke, il principale esponente del simbolismo irlandese. https://www.threemonkeysonline.com/it/la-femminilit-nellopera-di-harry-clarke-il-principale-esponente-del-simbolismo-irlandese/ https://www.threemonkeysonline.com/it/la-femminilit-nellopera-di-harry-clarke-il-principale-esponente-del-simbolismo-irlandese/#respond Sun, 01 May 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/la-femminilit-nellopera-di-harry-clarke-il-principale-esponente-del-simbolismo-irlandese/ Harry Clarke si affermò per il suo genio artistico già in vita e fu spesso indicato come esponente di vari movimenti artistici. Clarke tuttavia, non era semplicemente un simbolista, un illustratore, o un artista del vetro macchiato; era tutto questo, ma allo stesso tempo era anche un personaggio molto più complesso e interessante. Harry Clarke […]

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Harry Clarke si affermò per il suo genio artistico già in vita e fu spesso indicato come esponente di vari movimenti artistici. Clarke tuttavia, non era semplicemente un simbolista, un illustratore, o un artista del vetro macchiato; era tutto questo, ma allo stesso tempo era anche un personaggio molto più complesso e interessante.

Harry Clarke nacque a Dublino il giorno di San Patrizio del 1889. Sua madre, Brigid MacGonigle, incoraggiò la sensibilità artistica del giovane Harry, mentre suo padre, Joshua Clarke, gestiva un'attività commerciale legata alla produzione del vetro macchiato, che influenzò profondamente la carriera artistica di Harry. Dopo la morte del padre, nel 1921, Clarke gli subentrò nella direzione dello studio di lavorazione del vetro macchiato e cominciò a realizzare dei vetri molto curati, come dichiarò W.B. Yeats nel 1924: “ora il migliore vetro che si conosca al mondo è prodotto da suo figlio Harry Clarke”1. Clarke si dilettò anche nel disegno tessile, ma, oltre che per i vetri macchiati, è universalmente noto per le sue meravigliose illustrazioni. Prima della sua morte, nel 1931, Clarke realizzò una serie bellissima di illustrazioni, di cui le più preziose e d'effetto sono quelle in bianco e nero. I libri illustrati di Clarke sono materiale per collezionisti, prova evidente del riconoscimento del suo genio artistico.
Se Clarke fu una figura così rivoluzionaria nel panorama artistico irlandese, dobbiamo quindi chiederci perché sia stato scritto così poco sul suo conto. Esistono alcuni articoli sulle vetrate di Clarke, ma si tratta di testi generici e poco esaustivi. Maggiore enfasi viene data di solito alla bellezza che si percepisce ad una prima osservazione delle sue opere, piuttosto che al loro contenuto. Un'indagine più approfondita, e sicuramente più utile, riguarda invece l'area inesplorata della concezione che Clarke ebbe della donna, e più precisamente, l'iconografia della femminilità all'interno della sua opera.

Clarke si trovò ad esprimere la propria arte in un periodo di grandi cambiamenti, sia politici che sociali, per quanto riguardava il ruolo delle donne, e non solo in Irlanda, ma in tutta Europa. L'equilibrio patriarcale del potere si stava modificando in favore di nuovi atteggiamenti nei confronti delle donne e profonde trasformazioni interessavano tutti gli aspetti della cultura. La nuova 'donna moderna' era istruita, indipendente, appassionata, piena di amore per la vita e lottava perché le sue idee politiche fossero ascoltate e riconosciute. Come si osservava a quel tempo, queste donne moderne “hanno un'incredibile combinazione di saggezza e spensieratezza, di umorismo e serietà, di innocenza e fiducia in se stesse, che contraddice tutto ciò che si leggerà nei romanzi o qualunque altra descrizione dell'universo femminile”2.Questo nuovo atteggiamento verso le donne si rifletteva nella letteratura e nelle arti visive di quel periodo. Lungo tutto il corso della storia quello che è stato definito “l'iconografia della donna” ha ritratto la classe sociale e, più ancora, come erano viste le donne dalla società e come possono essere interpretate attraverso un'analisi dell'opera di Clarke.

Un indicatore dell'iconografia femminile è l'abbigliamento e lo stile delle donne. La moda e la frivolezza sono state considerate negli anni quasi esclusivamente un indicatore del materialismo e della vanità del sesso femminile3. Il concetto di costume colloca l'abbigliamento nel contesto della fantasia, della mitologia e delle fiabe. Gli artisti hanno spesso usato il costume per masquerare la bellezza sotto le spoglie della mitologia. Le diverse mode nel vestire femminile all'inizio del ventesimo secolo riflettono importanti cambiamenti nella mentalità dell'epoca. La nascita del cinema permise ad un pubblico molto vasto di entrare in contatto con le immagini di donne moderne e alla moda. Quindi, se da un lato il costume consentì a Clarke di investire la sua opera di un senso del drammatico e dell'esotico, dall'altro i suoi lavori riflettevano le mode contemporanee delle donne.

I costumi dipinti nelle vetrate della Cappella della Presentazione, a Dingle, del 1924, danno l'impressione di un tipo di abiti tradizionalmente usati nell'iconografia religiosa. Tuttavia, un'osservazione più attenta rivela le influenze che Clarke assorbì dal balletto, dal teatro e dai tessuti esotici.


Clarke frequentò le sedute del Ballet Russes a Londra nel 1919 e rimase piacevolmente colpito dai quei costumi stravaganti4. Questo deve aver avuto un effetto duraturo sull'immaginazione di Clarke dal momento che dipinse scarpette da ballo anche su di un angelo nella vetrata del Battesimo nel 1924. In una sezione della vetrata della Natività, Clarke raggruppò altre suggestioni del balletto con l'introduzione di due elaborate corone con gemme incastonate e le insolite scarpette verdi. Le acconciature delle donne sono uno dei dettagli più caratteristici del costume russo.

In un dettaglio della vetrata del Piccolo Bambino Sofferente (in alto a sinistra), il delicato disegno della pettinatura della madre si può intendere come un kokoshnik, un'acconciatura russa solitamente decorata con fili di perle e nastri5. Il suntuoso disegno del tessuto (destra) è influenzato dal gusto europeo per i motivi orientali, derivanti in parte dai costumi esotici disegnati da Leon Bakst6.

Con l'emancipazione femminile si fece sentire la chiamata ad una nuova immagine della donna. Negli anni '20 nuovi disegni per l'abbigliamento, più semplici, ponevano enfasi sulla bellezza della funzionalità e la purezza del modello. Diversamente dallo stile vittoriano, che accentuava il seno, la vita stretta e un sedere rotondo, la nuova moda accentuava una linea con abiti dal taglio dritto, maschile e pulito, come si può vedere in molte illustrazioni e poster di Clarke.

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Il Natale rinato. La creazione di un natale consumistico. Intervista con il professor Steven Nissenbaum. https://www.threemonkeysonline.com/it/il-natale-rinato-la-creazione-di-un-natale-consumistico-intervista-con-il-professor-steven-nissenbaum/ https://www.threemonkeysonline.com/it/il-natale-rinato-la-creazione-di-un-natale-consumistico-intervista-con-il-professor-steven-nissenbaum/#respond Sun, 01 May 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/il-natale-rinato-la-creazione-di-un-natale-consumistico-intervista-con-il-professor-steven-nissenbaum/ Quando il Natale è alle porte le decorazioni raccolte nel corso degli anni escono dal solaio per trasformare la nostra casa in un altare natalizio. Vecchi cantori di Natale dividono la mensola del caminetto con nuove corone di agrifoglio. La tavola diventa un paese delle meraviglie invernale colma di Babbi Natali di ogni nazionalità, dimensione […]

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Quando il Natale è alle porte le decorazioni raccolte nel corso degli anni escono dal solaio per trasformare la nostra casa in un altare natalizio. Vecchi cantori di Natale dividono la mensola del caminetto con nuove corone di agrifoglio. La tavola diventa un paese delle meraviglie invernale colma di Babbi Natali di ogni nazionalità, dimensione e forma. Mescolate a creature dal cappello rosso, anche pecore, renne e abeti in miniatura. Un anno mio figlio decise di mettere il nostro piccolo presepe al centro di questo quadro, con un bel Babbo Natale, tutto velluto rosso e barba bianca, strategicamente posizionato accanto alla culla del Bambino Gesù. Ho avuto qualche difficoltà a spiegargli il motivo per cui andavano separati.

Il mese di Dicembre ha sempre avuto un significato speciale per chi vive inverni lunghi e bui. Considerata ancora la festa più importante dell’anno, nei paesi nordici, il Natale ha molteplici significati, anche nascosti, e l’uomo si circonda di artefatti e tradizioni che confondono spesso leggenda e realtà, riti antichi e mito moderno.

Stephen Nissenbaum, professore di storia all’università del Massachussets, è il maggior conoscitore di questi miti. Ha scritto un libro affascinante sulla nascita del Natale moderno. A suo parere, la tradizione è solo un sogno dei giorni nostri.

“Il mio studio riguarda il modo in cui questa festività è stata reinventata. Cose di cui le persone si lamentano, i presunti mali del Natale moderno come gli eccessi nel mangiare e nel bere, costituiscono in realtà le sue più genuine tradizioni. Il Natale dedicato ai bambini e alla famiglia è un uno sviluppo recente”.

Per migliaia di anni, baldorie ed eccessi sono stati l’espressione popolare del festeggiamento, osteggiata prima dalla Chiesa e poi dall’emergente classe media.

“La storia del Natale è anche la storia dei conflitti religiosi e di classe. Gli interessi e il profitto hanno sempre tentato di cooptare i bisogni dell’uomo e le lotte per controllare questa festività ne sono una prova. La Chiesa ha tentato di cristianizzarlo, l’epoca vittoriana di renderlo rispettabile, e un gruppo di newyorchesi ha inventato l’idillio domestico e Babbo Natale. E da quest’ultimo ha preso il via la moderna società del consumismo”.

Il libro di Nissenbaum si intitola, giustamente, The Battle for Christmas [N.d.T: La Battaglia del Natale] e la prima delle tante battaglie è quella in cui la Chiesa tenta e, a parere di Nissenbaum fallisce, di appropriarsi del Natale.

Sin dalla sua fondazione, la Chiesa si attenne al principio cardine dell’opera missionaria, ossia quello di mantenere le tradizioni e le credenze locali, dando loro un nuovo significato. Di conseguenza, le festività religiose vennero fissate nello stesso periodo di quelle pagane. Dicembre era un periodo di festività importanti, legate sia al solstizio d’inverno che alla fine del raccolto. I Romani celebravano i Saturnalia, una festa lunga una settimana e dedicata a Saturno, dio dell’agricoltura e dei raccolti. Era un periodo di grandi festeggiamenti, in cui tutti bevevano e mangiavano a profusione. Anche agli schiavi veniva concesso un periodo di riposo. Ribaltando la gerarchia sociale, i padroni dividevano le loro ricchezze con gli schiavi e li servivano. Questa generosità, caratteristica dei Saturnalia, prevedeva anche elargire doni ai bambini, perché, si credeva, ciò avrebbe comportato una ricompensa da parte degli dei nel nuovo anno.

Nei paesi nordeuropei il lungo periodo di buio rendeva il ritorno del sole un evento centrale nell’anno e non solo per il culto del sole. Nissenbaum sottolinea come questa stagione fosse un periodo speciale anche per l’agricoltura.

“Oggi si dà per scontato che il cibo sia disponibile tutto l’anno, ma ciò è vero solo per gli ultimi due secoli. Prima che fossero inventati i frigoriferi, Dicembre era l’unico mese in cui in Europa si mangiava carne fresca e birra e vino, prodotti del raccolto, erano disponibili in gran quantità. Inoltre i giorni invernali, quando il lavoro nei campi si interrompeva, erano gli unici giorni di svago nell’anno. In questo periodo emerge una prima forma di carnevale: i giorni dell’abbondanza vengono celebrati lasciandosi andare. I risultati degli eccessi nel bere e nel mangiare erano il venir meno dei freni inibitori e la messa in atto di comportamenti al limite della tollerabilità. Per un breve periodo dominò un sistema di caos controllato. I limiti vennero messi alla prova e, ribaltando le gerarchie sociali, i poveri comandavano ai ricchi. I Wren boys, il Wassail [gozzoviglie], i canti natalizi sono antiche tradizioni che prevedevano un elevato consumo di alcol, trasgressioni sessuali e una forma piuttosto aggressiva di elemosina: non erano solo i ricchi che donavano ai poveri ma i poveri che esigevano doni. In cambio il povero offriva qualcosa di prezioso per una società basata sul paternalismo: la loro benevolenza. Tradizionalmente tutto ciò non sembrò costituire una minaccia per le autorità, era anzi tollerato dall’elite, forse perché considerato una valvola di sicurezza per contenere l’odio di classe.

Le celebrazioni tradizionali possono essere ricondotte al Master of Misrule [Maestro del Caos], un personaggio importante dello sfrenato Natale medioevale. I contadini si aggiudicavano il titolo tirando a sorte e, per la durata del suo mandato, il Master of Misrule sovvertiva le regole vigenti. Aveva il permesso di fare ciò che voleva e trascinava con sé gli altri in un periodo di baldoria, amoreggiamenti e piaceri. Tutto ciò che era in forma di liquido era particolarmente ben accetto. Questa tradizione risaliva a tempi antichi ed era una caratteristica dei Saturnalia romani. Secondo alcuni documenti risalenti al terzo secolo d.c. il regno del Master andava incontro ad un inglorioso destino, in quanto veniva sacrificato sull’altare dedicato a Saturno. Sacrificio a parte, la tradizione sopravvisse fino al Medioevo e anche oltre.

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Il Trattato Anglo-Irlandese e la Guerra Civile Irlandese https://www.threemonkeysonline.com/it/il-trattato-anglo-irlandese-e-la-guerra-civile-irlandese/ https://www.threemonkeysonline.com/it/il-trattato-anglo-irlandese-e-la-guerra-civile-irlandese/#respond Fri, 01 Apr 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/il-trattato-anglo-irlandese-e-la-guerra-civile-irlandese/ Il Trattato È difficile capire come nel [gennaio del] 1922 tanti giovani irlandesi dotati di sensibilità assistettero senza alcuna commozione alla vista delle truppe britanniche che uscivano a passo di marcia dal grande arco del castello di Dublino mentre i nostri ragazzi, coi vestiti inzaccherati, entravano a testa alta per conquistare quella fortezza simbolo del […]

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Il Trattato

È difficile capire come nel [gennaio del] 1922 tanti giovani irlandesi dotati di sensibilità assistettero senza alcuna commozione alla vista delle truppe britanniche che uscivano a passo di marcia dal grande arco del castello di Dublino mentre i nostri ragazzi, coi vestiti inzaccherati, entravano a testa alta per conquistare quella fortezza simbolo del potere imperiale.

Dermot Foley1

Subito dopo la tregua, Eamon De Valera si recò a Londra. Rifiutò i termini che gli erano stati offerti e fece ritorno a Dublino. Gli irlandesi volevano una repubblica, gli inglesi invece erano disposti a riconoscere all’Irlanda nulla di più se non lo status di Dominio all’interno dell’impero. Durante i due mesi successivi una corrispondenza epistolare tra De Valera e Lloyd George tentò di trovare un punto di incontro tra le due parti. Nessuna di esse desiderava una nuova guerra. In questo periodo De Valera lanciò la proposta di una 'associazione esterna' che, per quanto confusa, fece intuire a Lloyd che gli irlandesi erano pronti a scendere a patti sulla piena indipendenza.

Lloyd George esortò De Valera ad inviare una delegazione ad una conferenza che si sarebbe tenuta a Londra l’11 ottobre 1921. De Valera selezionò un gruppo di persone, senza includere se stesso. Tra i rappresentanti governativi, anche i repubblicani più incalliti, quali Cathal Brugha, si rifiutarono di partecipare. Con una certa riluttanza, Michael Collins accettò di guidare la delegazione, indebolita da dissidi interni e dalla decisione di De Valera, presidente della repubblica irlandese, di non capeggiarla. I poteri dei negoziatori erano ammantati di ambiguità. De Valera concesse loro il titolo di 'delegati plenipotenziari', la loro posizione ufficiale, il che implicava che essi avevano il potere di stringere accordi con gli inglesi. Ma prima di partire i delegati ricevettero l’istruzione di comunicare con la madre patria prima di prendere una qualsiasi decisione. L’11 ottobre 1921 un piccolo gruppo di irlandesi intraprese il difficile compito di negoziare la libertà dell’Irlanda e di sottrarla al dominio dell’impero britannico. Di fronte a loro sedevano uomini della statura e del calibro di Lloyd George, Winston Churchill, Austin Chamberlain e Lord Birkenhead.

Dalla discussione emersero tre temi principali: lo status dell’Irlanda e la natura del suo legame con la Gran Bretagna, se l’Irlanda dovesse essere unificata o rimanere divisa, e le richieste della sicurezza e della difesa britanniche. Il problema della difesa fu risolto relativamente in fretta, in quanto l’Inghilterra manteneva il controllo su alcuni porti irlandesi. L’attenzione si rivolse quindi alle prime due questioni. A questo punto la delegazione irlandese era determinata, se si fosse reso necessario, a interrompere i negoziati relativamente al problema dell’Ulster mentre gli inglesi li avrebbero interrotti relativamente al problema dell’impero. James Craig, primo ministro dell’Irlanda del Nord, rifiutò l’ipotesi di un’Irlanda unita, appoggiato dalla gran parte del partito conservatore inglese, alcuni esponenti del quale erano membri del gabinetto di Llyod George. Alla fine quest’ultimo convinse la delegazione irlandese ad accettare un confine, ma aggiunse che sarebbe stata istituita una Commissione sui Confini allo scopo di definire i dettagli. Lloyd George strappò a Griffith una dichiarazione scritta in cui questi accettava la Commissione sui Confini, dichiarazione che venne in seguito prodotta con grande imbarazzo di Griffith. Egli fu costretto ad onorare la propria promessa e ad appoggiare l’idea della Commissione, il che implicava il fatto che la delegazione irlandese non avrebbe potuto sciogliersi a causa della questione dell’Irlanda del Nord. Lloyd George sottolineò con forza che, col tempo, la divisione sarebbe diventata a livello politico ed economico insostenibile per l’Irlanda del Nord. Alla fine la delegazione accettò l’esistenza della Commissione sui Confini e l’attenzione si concentrò sull’ultimo problema rimasto: i rapporti tra Irlanda e impero britannico.

Gli inglesi rifiutarono ripetutamente la proposta di 'associazione esterna' fatta da De Valera, e Lloyd George cominciò a discutere separatamente con Collins e Arthur Griffith un eventuale compromesso. Entrambi gli uomini sapevano che per gli inglesi solamente lo status di Dominio era accettabile e Lloyd George tentò di arrivare ad una soluzione. Il 30 Novembre fece pervenire alla delegazione ciò che descrisse come la versione definitiva di un negoziato, documento che la delegazione portò con sé a Dublino. Griffith, e in misura minore Collins, erano dell’idea che gli inglesi non avrebbero concesso di più mentre altri delegati ritenevano che si sarebbero potute ottenere maggiori concessioni. De Valera suggerì che, con opportuni emendamenti alla Costituzione, sarebbe ancora stato possibile un accordo ma cosa intendesse con questo non era del tutto chiaro. O l’Irlanda era pronta al giuramento di fedeltà alla corona britannica oppure no, e tutte le parole del mondo non sarebbero servite a nasconderlo. Non vi era alcun dubbio su come i delegati avrebbero reagito se Lloyd George avesse preteso da loro di accettare o rifiutare il Trattato senza consultarsi coi colleghi di Dublino o su che cosa fare se gli inglesi avessero minacciato di riprendere le ostilità nel caso in cui il Trattato non fosse stato firmato.

Una volta tornati a Londra De Valera impose ai delegati di adoperarsi ancora una volta per l’associazione esterna. Consapevoli che sarebbe stato un fallimento essi obbedirono senza troppa convinzione (Collins si rifiutò addirittura di presentarsi all’incontro) e l’idea di associazione esterna fu ancora una volta respinta dagli inglesi. Il 5 dicembre i negoziati volsero al termine. Griffith era pronto a firmare ma sollevò di nuovo la questione dell’Irlanda del Nord, poiché voleva ottenere da Craig un accordo sulla problema dell’unità. Lloyd George lo batté sul tempo producendo l’approvazione della Commissione sui Confini firmata da Griffith, il quale accettò di firmare senza riproporre il problema dell’Irlanda del Nord. Winston Churchill descrisse con queste parole la reazione di Michael Collins quando realizzò che Lloyd George aveva battuto Griffith in astuzia:

“Michael Collins si alzò con l’aria di chi stava per sparare a qualcuno, preferibilmente se stesso. In tutta la mia vita non avevo mai visto tanta passione e tanta sofferenza represse.”2

Anche Collins accettò di firmare, come il resto della delegazione, alcuni di buon grado, altri con riluttanza. L’offerta finale prevedeva per l’Irlanda lo status di Dominio. Il paese sarebbe stato conosciuto come il Libero Stato d’Irlanda e il re sarebbe stato rappresentato dal Governatore Generale. Tutti i membri del Dàil [il Parlamento irlandese] dovettero giurare fedeltà alla corona inglese. Perché Collins aveva accettato le condizioni del negoziato? Sapeva che l’IRA non era in grado di sfidare gli inglesi sul piano militare. Si erano limitati ad impedire che gli inglesi vincessero la guerra. Ma Collins sapeva che, se fosse scoppiata un’altra guerra, la scarsità cronica dell’IRA in fatto di uomini e di munizioni e la possente macchina bellica degli inglesi si sarebbero rivelate ancora una volta a scapito dell'IRA stessa. Se non avesse raccolto l'offerta che stava sul tavolo dei negoziati nel dicembre 1921, si sarebbe mai presentata un'occasione migliore per gli irlandesi? La sua natura pragmatica lo convinse che sarebbe stato meglio firmare.

Verso la guerra civile

Nella scorsa guerra contro gli inglesi siamo stati costretti a mettere nelle mani dei nostri soldati poteri più o meno illimitati.

Desmond FitzGerald3

La verità è che i nostri politici hanno fatto finta di governare una repubblica mentre i nostri soldati non sono morti per finta.

Richard Mulcahy, Capo di Stato Maggiore dell'IRA4

Il Trattato divise gli irlandesi. I suoi sostenitori lo consideravano un grosso risultato dopo la guerra anglo-irlandese, una possibilità di ottenere la pace in un paese libero, e, in un futuro, la possibilità di costituire una repubblica. Per i suoi detrattori esso era un tradimento che distruggeva il sogno repubblicano. Il gabinetto del Dàil era diviso a metà e quindi incapace di portare avanti una linea d’azione nei confronti del negoziato. Votò quindi a favore del Trattato, 64 a 57. Spesso durante i dibattiti in parlamento Griffith e Collins sostennero che il compromesso con il governo inglese era conseguenza della decisione di negoziare e che l’idea di una repubblica non era mai stata in programma. Una nuova guerra non era giustificabile per la differenza tra il negoziato e 'l’associazione esterna' e in ogni caso il governo inglese non avrebbe mai accettato l’associazione esterna, né nel presente né in futuro. Collins definì pubblicamente il Trattato come un trampolino per ottenere un’ulteriore libertà per l’Irlanda; nei circoli privati dell’IRB [Irish Republican Brotherhood, movimento indipendentista feniano risalente al secolo XIX] lo presentò invece come un mezzo per costituire un esercito irlandese che avrebbe alla fine costretto gli inglesi a cedere l’Irlanda del Nord5. Con estrema abilità, mentre approvava le condizioni del negoziato in veste di ministro governativo, e in seguito capeggiava l’esercito del Libero Stato, Collins fornì armi, in gran segreto, ad alcune unità dell’IRA del Nord le quali attaccarono alcune caserme di polizia, in aperta violazione del negoziato. Il 16 marzo del 1922 un gruppo di militanti dell’IRA del Nord dell’Irlanda furono catturati e con essi anche le armi fornite loro da Collins e provenienti dal governo inglese (il quale era naturalmente all’oscuro che le armi sarebbero servite a quello scopo)6. L’IRA era costretta ad agire nel nord del paese per proteggere le minoranze cattoliche che in certe zone venivano cacciate dalle proprie case da bande di lealisti, i quali temevano una potenziale riunificazione del paese.

Nelle campagne, benché divise, la maggioranza era favorevole al Trattato. La gente era stanca della guerra e voleva tornare ad una vita normale. L’entusiasmo per il negoziato era maggiore nelle aree rurali e imprenditoriali più ricche che si trovavano a est del paese. Vi era inoltre il sospetto che a Dublino stesse per essere istituito un governo centrale, inglese o irlandese che fosse, da parte di certi esponenti del Munster 7. L’IRA si divise tra favorevoli e contrari al negoziato; gli esponenti del GHQ [General Headquarters] erano pro negoziato (con alcune importanti eccezioni) mentre i comandi provinciali era contro. Gli uomini dell’IRA non avevano un’alta opinione di Sinn Féin e dei politici e, se Michael Collins non avesse firmato e appoggiato il negoziato, molto probabilmente neanche l’IRA l’avrebbe approvato. Nonostante l’influenza di Collins la maggior parte dell’esercito rimaneva contraria al Trattato. Richard Mulcahy, il nuovo ministro della Difesa che era succeduto a Cathal Brugha, anch’egli contrario, promise che l’IRA sarebbe rimasta fedele al governo. Ma l’esercito non aveva mai avuto potere sulle autorità civili e di sicuro non si sentiva più in dovere di obbedire ad un governo che aveva giurato fedeltà alla corona inglese. Lo storico Tom Garvin descrive così le differenze tra le due diverse facce di Sinn Féin: gli esponenti di spicco a favore del negoziato quali Collins, Cosgrave e O’Higgins tendevano a dare il meglio di sé nel “dirigere le cose” (ossia nell’amministrazione del paese) mentre quelli contrari eccellevano nell’ideale romantico di repubblica o nelle azioni militari su piccola scala8. Col tempo, l’amministrazione del Libero Stato d’Irlanda avrebbe sconfitto quell’ideale romantico al quale gli anti-Trattato erano così tenacemente attaccati.

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Il colore rosso – storia della cocciniglia https://www.threemonkeysonline.com/it/il-colore-rosso-storia-della-cocciniglia/ https://www.threemonkeysonline.com/it/il-colore-rosso-storia-della-cocciniglia/#respond Fri, 01 Apr 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/il-colore-rosso-storia-della-cocciniglia/ “Due secoli fa nessuno avrebbe immaginato che una cosa preziosa come la cocciniglia, considerata, alla stessa stregua dell’oro e dell’argento, uno dei più importanti tesori dell’impero spagnolo, sarebbe stata dimenticata”, sostiene Amy Butler Greenfield, studiosa di storia e autrice di A Perfect Red [N.d.T.: Un rosso perfetto]. Per chi non lo sapesse, la cocciniglia è […]

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“Due secoli fa nessuno avrebbe immaginato che una cosa preziosa come la cocciniglia, considerata, alla stessa stregua dell’oro e dell’argento, uno dei più importanti tesori dell’impero spagnolo, sarebbe stata dimenticata”, sostiene Amy Butler Greenfield, studiosa di storia e autrice di A Perfect Red [N.d.T.: Un rosso perfetto]. Per chi non lo sapesse, la cocciniglia è un insetto che, schiacciato ed essiccato, produce un colorante che dà origine ad una tonalità di rosso viva e duratura. Mentre si dedicava alle ricerche per la sua tesi di Master, sull’introduzione del cioccolato in Europa, la Greenfield fu incuriosita da un costante riferimento alla parola “grana” o “grana cochinilla“, da lei notato in alcuni documenti contenuti nell’archivio di Siviglia. Tra le principali merci che la Spagna importava dal Nuovo Mondo risultò esservi un colorante rosso.

Anni dopo, questa informazione spinse l’autrice ad approfondire le ricerche sulla cocciniglia e sulle ragioni per cui il colorante rosso sarebbe diventato così importante nell’Europa pre-industriale.

Uno dei punti partenza è il colore rosso in sé. Gli esseri umani hanno sempre avuto un rapporto speciale con questo particolare colore, fa notare la Greenfield. “Gli antropologi Brent Berlin e Paul Kay hanno dimostrato che, nella maggior parte delle culture, i primi nomi riferiti ai colori distinguevano tra chiaro e scuro. Quando una lingua si evolveva fino a comprendere tre nomi di colori, quasi sempre il terzo termine si riferiva al rosso. I nomi che indicavano gli altri colori si svilupparono solamente in seguito, dopo che il termine che indicava il rosso diveniva di uso comune. È interessante notare come, secondo Berlin e Kay, è frequente che il termine “rosso” sia collegato alla parola che indica il sangue. Essi citano esempi di gruppi di aborigeni in cui la stessa parola esprime entrambi i concetti.”

L’importanza del colore rosso durante il Medioevo non si limitava alla sua affinità con la natura. Era apprezzato anche perché era relativamente raro. I tintori medioevali, estremamente abili e preparati, riuscivano a produrre molti colori ma il rosso era molto difficile da ottenere, almeno in forma duratura. Le radici che producevano la 'robbia', un colorante rosso, erano conosciute sin dall’antichità, ma il colore era soggetto a leggere variazioni di alcalinità e di temperatura. Tinture prodotte da insetti quali il chermes, il sangue di San Giovanni e il rosso armeno erano molto ricercate ma difficili da ottenere (secondo alcuni documenti prodotti dalla Greenfield, ad una tintoria medioevale di Firenze tingere una stoffa di rosso costava dieci volte di più che tingerla di azzurro).

A Perfect Red ci svela informazioni affascinanti, tutte basate su questo particolare colore. Chi avrebbe mai pensato, ad esempio, che vi fosse l’usanza di dipingere la Vergine vestita di rosso? “Molti associano la Madonna ai colori bianco e azzurro,” afferma la Greenfield, “ma nei dipinti rinascimentali essa è spesso dipinta vestita di rosso, oppure di una combinazione di rosso e blu. Ciò ha una spiegazione. Benché il rosso sia in qualche modo legato all’idea di peccato, esso è ancora più legato alla Chiesa e a Dio. Era il colore dei cespugli in fiamme, del fuoco pentecostale, del sangue di Cristo, dei martiri, per non parlare dell’emblema stesso della Chiesa. Era il colore associato anche ad un’elevata condizione sociale: chi indossava un abito rosso apparteneva ad un certo ceto sociale ed era meritevole di rispetto”. (Sembra che “in parte, l’usanza andò persa durante il periodo barocco a causa delle tendenze artistiche del tempo. Durante il XIX secolo, quando il Papa dichiarò il bianco colore ufficiale della Vergine, il rosso era caduto in disgrazia ed era più spesso associato al peccato che al divino”.)

La scoperta dell’America da parte della Spagna portò alla scoperta di un nuovo mondo, pieno di ricchezze sconosciute all’Europa del tempo. Una di esse era la cocciniglia, un piccolo insetto che abbondava in un tipo di cactus che cresceva in Messico (in particolare nella zona di Oaxaca). La cocciniglia presentava una serie di vantaggi sulle tinture utilizzate a quell’epoca in Europa. Grazie alla sua composizione chimica, essa produceva un rosso più ricco e duraturo ed era più facile da coltivare, per lo meno in Messico. Nel 1570 l’industria tessile europea si era convertita all’uso della cocciniglia, dalla quale era diventata dipendente. E aveva così portato nelle casse della corona spagnola le tanto attese entrate.

La Greenfield è oltremodo adatta a descrivere il processo di introduzione della cocciniglia, avendo, come è stato già accennato, studiato l’introduzione di un altro prodotto proveniente dalle Americhe: la cioccolata. “L’arrivo del cioccolato in Europa è stato fitto di ostacoli. Dovette passare un secolo prima che gli europei accettassero questa bevanda, e ciò che li conquistò fu tanto il cacao quanto lo zucchero che essi vi aggiungevano. Quando il cioccolato divenne popolare, i coloni spagnoli delle Americhe non ebbero difficoltà a coltivare il cacao secondo il classico stile coloniale: in enormi piantagioni, con manovali e schiavi”, spiega la studiosa. “Con la cocciniglia fu invece diverso. Gli europei apprezzavano le tinture rosse da secoli, tennero quindi in grande stima la cocciniglia fin dal primo momento. Ma quando i coloni spagnoli tentarono di riprodurre la cocciniglia nelle piantagioni andarono incontro a ripetuti fallimenti. Furono quindi costretti a dipendere dagli indigeni del Messico per ottenere la tintura. Ciò concesse agli allevatori di cocciniglia del luogo un certo potere contro i peggiori eccessi del colonialismo.”

Uno degli argomenti secondari più interessanti del libro è quello che affronta lo sviluppo della mentalità scientifica che, a differenza della segretezza tipica delle corporazioni dei mestieri, cercava di studiare e di discutere apertamente i nuovi materiali, tra cui la cocciniglia. Mentre i membri delle corporazioni, come i tintori, venivano severamente puniti (in casi estremi anche con la morte) se svelavano i segreti del proprio mestiere, gli uomini di scienza, sempre più numerosi, incoraggiavano una mentalità più aperta. Poiché l’uso della cocciniglia era sottoposto a restrizioni da parte degli spagnoli, uno dei maggiori dibattiti scientifici del tempo riguardò la vera natura della cocciniglia (si ricordi che all’epoca il microscopio era ancora agli albori). “Il tramonto delle corporazioni fu causato più che altro dai radicali cambiamenti che caratterizzarono l’economia europea e dai nuovi sviluppi nella circolazione delle informazioni”, chiarisce la Greenfield, “ma la storia della cocciniglia aiuta senz’altro a comprendere cosa stava accadendo. Nell’Europa medioevale o del primo Rinascimento le corporazioni di tintori riuscivano a mantenere tra loro il segreto della loro arte, spesso minacciando di morte coloro che ne violavano il codice. Nel XVII secolo però gli scienziati cominciarono a sconfinare nel loro territorio. I nuovi “filosofi della natura” svilupparono un particolare interesse per la cocciniglia. Non avevano idea se fosse di origine animale, vegetale o minerale ma, svelando l’enigma, speravano di gettare luce sui misteri della luce e del colore; o, almeno, di sviluppare nuove strategie per ottenere la preziosa tintura. Per i tintori era di vitale importanza mantenere tali i segreti della cocciniglia, ma, per loro disgrazia, gli scienziati erano determinati a fare luce su di essi”.

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La Storia della paura. Intervista con la Professoressa Joanna Bourke https://www.threemonkeysonline.com/it/la-storia-della-paura-intervista-con-la-professoressa-joanna-bourke/ https://www.threemonkeysonline.com/it/la-storia-della-paura-intervista-con-la-professoressa-joanna-bourke/#respond Tue, 01 Feb 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/la-storia-della-paura-intervista-con-la-professoressa-joanna-bourke/ “Per citare le parole pronunciate dall’arcidiacono R.H. Charles nel 1931, la scienza avrà anche smascherato molte superstizioni del Medioevo e la fallacia del pensiero magico, sia laico che religioso, del passato e del presente ma, al loro posto, ha introdotto nuove paure che dominano la nostra vita dalla culla alla tomba” – Fear. A Cultural […]

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“Per citare le parole pronunciate dall’arcidiacono R.H. Charles nel 1931, la scienza avrà anche smascherato molte superstizioni del Medioevo e la fallacia del pensiero magico, sia laico che religioso, del passato e del presente ma, al loro posto, ha introdotto nuove paure che dominano la nostra vita dalla culla alla tomba” – Fear. A Cultural History, Joanna Bourke (pag.5).

Nel 1862 Duchenne de Boulogne, pioniere francese della neurofisiologia, pubblicò un’opera dal titolo Fisiologia delle passioni, un interessante studio in cui egli cercò, tramite scosse elettriche, di riprodurre le varie emozioni sul volto di una persona anziana, dopo averla anestetizzata. Dopo aver provocato la contrazione di certi muscoli, l’espressione della paura che riuscì a riprodurre e a fotografare fu tanto stupefacente quanto illuminante. Secondo Duchenne il volto era lo specchio delle emozioni (un volto malvagio era indicativo di un’indole malvagia). Nello stesso periodo Darwin esponeva le proprie teorie sull’evoluzione e sui ‘principi dell’espressività’, sostenendo che l’espressione della paura aveva determinate caratteristiche fisiche funzionali alla sopravvivenza della specie (ad esempio gli occhi spalancati con le sopracciglia inarcate permettono all’individuo di esplorare velocemente l’ambiente circostante). La professoressa Joanna Bourke, nel suo ultimo libro Fear: A Cultural History [N.d.T.: Storia culturale della paura], utilizza queste teorie per introdurre un argomento vasto sottolineando il fatto che, benché gli studiosi concordino su quale sia l’espressione facciale della paura, non hanno fornito una spiegazione di cosa essa sia veramente, e quali siano le sue conseguenze.

Si potrebbe pensare che lo spunto per questo affascinante studio sia nato dall’osservazione del mondo dopo la tragedia dell’11 Settembre. In realtà l’ispirazione ha radici storicamente più profonde : “Avrebbe dovuto essere una storia delle emozioni in generale: la paura, la rabbia, l’odio, la gelosia, l’amore e così via”, spiega la professoressa Bourke che è lettrice di storia presso il Birkbeck College di Londra. “Il mio interesse per la storia delle emozioni è nato da un’insoddisfazione nei confronti di alcuni miei libri precedenti, i quali guardavano alcuni tra i momenti più traumatici della storia moderna con occhio spassionato. Avevo impiegato un decennio a leggere lettere e diari di uomini e donne che durante la guerra si trovavano al fronte o nelle sue vicinanze e tuttavia non ero riuscita a centrare veramente il punto riguardo alle emozioni. Credo sia stato un errore [che i miei libri avevano in] comune a molti libri di storia che stavo leggendo. Gli storici amano discutere sulle risposte razionali, sulle ‘economie morali’ e sul concetto di causalità, ma sono meno a loro agio quando si parla di irrazionalità, una caratteristica spesso attribuita alle emozioni.”

Il libro esamina le paure considerate predominanti in Gran Bretagna e Stati Uniti (nonché Irlanda e Australia) negli ultimi 150 anni. Partendo dal 1860 con gli esperimenti di Duchenne de Boulogne per finire con le recenti riflessioni sulla ‘guerra al terrore’, il libro è una raccolta di episodi che stimolano la riflessione. L’approccio cronologico ha dato a Joanna Bourke l’occasione di suggerire un affascinante contrasto tra le paure predominanti nel 19° secolo e quelle predominanti nel nostro: “Nel 19° secolo”, spiega la professoressa Bourke facendo un esempio, “le paure legate alla morte erano intimamente legate a quelle riguardanti un’eventuale vita nell’aldilà oppure al timore legato al corretto accertamento del decesso (ovvero al rischio di una sepoltura prematura). Al contrario, al giorno d’oggi la nostra preoccupazione è più che altro legata all’obbligo di rimanere forzatamente in vita o al fatto che venga negato il diritto di ‘morire dignitosamente’. E’ il personale medico, più dell’autorità religiosa, ad influenzare sempre più spesso la nostra paura della morte. Gli attuali dibattiti sull’eutanasia e sulla morte assistita sono legati a questi cambiamenti.”

Fino a che punto Fear: A Cultural History può essere considerato un completamento dei suoi libri precedenti? “In un certo senso, il libro sulla paura è il compendio di Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia. Una delle critiche che ho dovuto affrontare quando uscì, fu quella per cui avevo posto troppa enfasi sul piacere di uccidere in tempo di guerra: la gioia, l’eccitazione e l’esaltazione espressa da molti combattenti subito dopo un brutale massacro. Ho accettato questa critica fino ad un certo punto. A mia difesa va detto che nel libro precedente a Le seduzioni della guerra avevo affrontato esplicitamente il tema degli orrori della guerra (il titolo di questo libro è molto significativo: Dismembering the Male: Men’s Bodies, Britain and the Great War [N.d.T.: Lo smembramento del maschio: corpi umani, la Gran Bretagna e la Grande Guerra]). Tuttavia il libro sulla paura è molto più di un ‘completamento’: solo tre capitoli su undici sono dedicati alle società in tempo di guerra. Il libro affronta anche svariati argomenti quali le fobie, la paura di Dio e della morte, gli incubi, le paure infantili, la malattia, il crimine, il terrorismo.”

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Da Simbolo di Fertilità a Propaganda Politica – Il Murale di Massa Marittima e la sua Decodificazione https://www.threemonkeysonline.com/it/da-simbolo-di-fertilit-a-propaganda-politica-il-murale-di-massa-marittima-e-la-sua-decodificazione/ https://www.threemonkeysonline.com/it/da-simbolo-di-fertilit-a-propaganda-politica-il-murale-di-massa-marittima-e-la-sua-decodificazione/#respond Wed, 01 Dec 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/da-simbolo-di-fertilit-a-propaganda-politica-il-murale-di-massa-marittima-e-la-sua-decodificazione/ Nel 2000, durante alcuni lavori di restauro, venne alla luce un raro ed importante murale, presso la fontana comunale di Massa Marittima, in Toscana. Inizialmente non fu considerata una sorpresa piacevole, trattandosi di un dipinto, risalente all'epoca medievale e raffiguarnate un albero coperto da peni. “Al momento della scoperta, furono presi un po' alla sprovvista”, […]

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Nel 2000, durante alcuni lavori di restauro, venne alla luce un raro ed importante murale, presso la fontana comunale di Massa Marittima, in Toscana. Inizialmente non fu considerata una sorpresa piacevole, trattandosi di un dipinto, risalente all'epoca medievale e raffiguarnate un albero coperto da peni. “Al momento della scoperta, furono presi un po' alla sprovvista”, spiega George Ferzoco, direttore del Centro Studi Toscani dell'Università di Leicester, riferendosi alla reazione dei cittadini e degli amministratori locali. “Lo considerarono in qualche modo osceno o erotico, – continua, – una delle due. Chi lo considerava erotico, lo interpretava come un simbolo che rispecchiava la realtà del luogo [di ritrovamento] e dell'acqua. L'Acqua dà la vita; i Peni danno la vita: non è un modo originale e interessante di raffigurare le proprietà vivificanti dell'acqua? I sostenitori dell'interpretazione pornografica, se così li possiamo chiamare, lo consideravano deliberatamente osceno e quindi auspicavano che attirasse il minimo interesse possibile.”

Fortunatamente per la cittadina, Ferzoco, che l'aveva scelta quell'anno per essere la sede del suo corso universitario estivo in Italia, si lasciò immediatamente intrigare dal dipinto e dal suo particolarissimo immmaginario. Il suo studio ha rivelato diversi livelli di significati che aggiungono tasselli importantissimi alla nostra interpretazione della cultura popolare medievale e rinascimentale in Toscana ed in Europa. Secondo la sua teoria, la pittura non è né uno stravagante simbolo di fertilità, né sconvolgente pornografia.

Il contesto

Per spiegare il murale si devono prima approfondire le condizioni storiche e politiche italiane nel Medioevo (il dipinto risale alla fine del XIII secolo). “In linea di massima – spiega Ferzoco – questo era il momento dell'ascesa dei Comuni italiani, le Città-stato. In particolare il Norditalia era disseminato di questi piccoli Stati indipendenti. Per metterla in termini moderni, se ci fossero state le Olimpiadi verso la fine del XIII secolo, al posto dell'attuale formazione italiana avrebbero partecipato un paio di decine di squadre. Ognuna di queste Città-stato costituiva una vera e propria nazione. Alcune delle più famose sono ben note anche a chi ha una vaga conoscenza dell'Italia medievale e rinascimentale, tipo Venezia o Firenze o Pisa per esempio.”

Nella lista delle famose Città-stato italiane, Massa Marittima resta un nome forse sconosciuto ai più. “Un paio d'anni fa uscì una pluripremiata enciclopedia in sei volumi sul Rinascimento, e in quei sei volumi non si trova neanche una vaga menzione a Massa Marittima, – concorda Ferzoco, – ma ai tempi era un posto estremamente ricco e completamente indipendente dal 1225 al 1335. Ed è stato proprio nel bel mezzo di questo periodo di indipendenza che il murale fu creato.

Massa traeva la sua ricchezza da una fonte insolita. La gran parte del denaro che finanziava questa rapida diffusione di Stati indipendenti veniva da attività bancarie, specialmente nel caso delle Città-stato toscane, e dal commercio tessile. Era una materia prima diversa, quasi unica, quella che forniva ricchezza a Massa Marittim, costituita da minerali. Le colline attorno a Massa Marittima si chiamano infatti 'Colline Metallifere'. Nel Medioevo ci saranno stati almeno almeno trenta tipi di minerali grezzi che venivano estratti e raffinati, dall'oro al piombo. Costituiva probabilmente il più grosso centro minerario della penisola, quindi chiunque avesse bisogno di queste materie prime doveva per forza avere a che fare con Massa Marittima, e questo spiega il suo successo e la ricchezza. E come conseguenza doveva subire diversi conflitti. Come sempre i più scoccianti erano i vicini più prossimi. Quelli che provavano più assiduamente e ripetutamente a prendere il controllo a Massa Marittima erano Pisa e Siena, e sarebbe stata proprio Siena a battere definitivamente Massa Marittima nel 1335.”

Questo contesto di ricchezza e guerre è vitale per l'interpretazione di questo strano murale. Dipinto sulla fontana comunale, il murale mostra un albero coperto di falli attorno cui svolazzano alcune aquile, e sotto il quale si trovano delle donne. L'ubicazione del murale è la prima chiave per spiegarne l'importanza: “E' un'opera intesa per essere vista – sottolinea Ferzoco – da tutti, cittadini e visitatori, in quanto posta presso la fonte principale. La fonte stessa era un'opera straordinaria dal punto di vista tecnologico e sanitario. La maggiorparte delle città costruite in cima alle colline disponevano di sorgenti di acqua situate ben al di fuori delle mura cittadine, ai piedi della collina. Questo significava che gli abitanti di queste città dovevano sottoporsi a lunghe escursioni per procurarsi l'acqua, trasportando enormi giare, magari con i loro muli o gli asini. Lo sforzo effettivo richiesto non era da poco. Anche da turista in un posto come San Giminiano, dopo una visita alla fonte comunale fuori le mura cittadine e poi il ritorno su per la collina, con la sola macchina fotografica, ci si ritrova in un bagno di sudore e belli stanchi. A parte questo, c'è un altro fattore importante collegato al rifornimento di acqua: le invasioni nemiche, come per esempio quelle senesi o pisane. Gli invasori, nel tentativo di attaccare una città, innanzitutto tentavano di metterla sotto assedio, e il mezzo più semplice per farla cadere in ginocchio era impossessarsi delle sue riserve di acqua. Quindi la salvaguardia della propria sorgente di acqua era un compito piuttosto difficile per questi paesi appollaiati in colline e queste Città-stato. La cosa veramente insolita per Massa Marittima era, grazie alla sua ricchezza e in particolare alla sua competenza tecnologica, sviluppatasi attraverso la costruzione di gallerie e condotti nelle miniere, l'abilità a canalizzare l'acqua in grandi quantità verso il centro della città, all'interno delle mura. Questo significava che nessuno doveva camminare troppo lontano per rifornirsi di acqua e che questa riserva di acqua era completamente al sicuro in caso di attacco nemico. La popolazione non doveva rischiare una corsa da kamikaze per andare a prendere l'acqua fuori porta.”

E così, collocato in una posizione tanto centrale e prestigiosa, non c'erano dubbi che il murale fosse rivolto ad un vasto pubblico. E il suo significato? Il fatto che ci siano tanti peni esposti porterebbe a presupporre, da un moderno punto di vista, una certa connotazione erotica. L'atteggiamento medievale era diverso: “Parliamo del periodo precedente la foglia di fico o il velo strategicamente posizionato a coprire le nudità genitali nei dipinti, – risponde Ferzoco ridendo. – L'immagine nuda non era vista come oscena e nel contesto dell'arte pubblica non era neanche considerata necessariamente erotica. Era semplicemente vista come il ritratto della nudità e nient'altro.”

Dipingere l'innaturale

Scartando l'idea che si tratti semplicemente di pornografia, il passo successivo è quello di considerlarlo un simbolo di fertilità, no? “Coloro che hanno affermato che sia un simbolo di fertilità si sono basati, in maniera naturale e comprensibile, sull'immagine dei falli visibili sull'albero e sul fatto che sin dai tempi dei Romani e degli Etruschi, il pene era considerato un simbolo di fortuna e fertilità”, concede Ferzoco, prima di procedere a smantellare questa teoria. “Il nocciolo
della faccenda è che i peni in mostra in questa pittura non hanno nulla a che fare con la fertilità. Una cosa è avere un pene simbolico per conto suo – quello può rappresentare la fortuna, la fertilità, quello che si vuole – un'altra è porlo in un contesto diverso, uno in cui [il pene] viene visto letteralmente crescere su un albero. La cultura medievale, più della nostra, era molto sensibile a quella che veniva percepita come la bontà della natura, la bontà di tutto ciò che è naturale, e [qui] si sfruttava il fatto di mostrare questo albero particolare che produceva qualcosa che non era un frutto naturale. Questi due elementi dell'equazione si sommavano per portare ad un risultato che non era naturale e quindi non buono.”

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Cosa Nostra – ridefinire la mafia. https://www.threemonkeysonline.com/it/cosa-nostra-ridefinire-la-mafia/ https://www.threemonkeysonline.com/it/cosa-nostra-ridefinire-la-mafia/#respond Wed, 01 Dec 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/cosa-nostra-ridefinire-la-mafia/ “La mafia, nel senso stretto di 'Cosa Nostra', l'organizzazione criminale gerarchica basata in Sicilia, non 'governa l'Italia' come capita di sentir dire in qualche discorso un po' facilone,” spiega John Dickie, studioso di Studi italiani all'Università di Londra e autore di Cosa Nostra, Storia della mafia siciliana [edito in Italia da Laterza], in risposta alla […]

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“La mafia, nel senso stretto di 'Cosa Nostra', l'organizzazione criminale gerarchica basata in Sicilia, non 'governa l'Italia' come capita di sentir dire in qualche discorso un po' facilone,” spiega John Dickie, studioso di Studi italiani all'Università di Londra e autore di Cosa Nostra, Storia della mafia siciliana [edito in Italia da Laterza], in risposta alla domanda su quanto è cruciale per una corretta interpretazione della storia moderna d'Italia la comprensione della mafia. “Non è una coincidenza, – continua, – che la mafia sia nata allo stesso tempo quando stava nascendo lo Stato italiano moderno, a metà del diciannovesimo secolo. Da allora, lo Stato italiano ha co-abitato con forme illegali di potere basate sull'abilità nell'uso della violenza (ovvero, in senso lato con la mafia). A tutt'oggi, alcune zone del meridione non si trovano sotto il vero e proprio controllo del governo legale, nel senso ci sono associazioni criminali che creano la propria 'legalità', il proprio stato-ombra. Capire come si è evoluta tale situazione ci può rivelare molto a proposito dell'Italia e delle difficoltà dello Stato nell'istituire e consolidare il proprio diritto a governare.”

L'opera di Dickie, che fra i primi veri studi di carattere accademico su Cosa Nostra pubblicati in lingua inglese, sfata molti dei miti associati all'organizzazione [mafiosa], diffusi da i propri membri, nonché dall'arte, la letteratura e il cinema, durante tutto il secolo scorso.

Parliamo del nome. Ne conosciamo le origini? Quando si cominciò ad utilizzarlo? I 'mafiosi' usano questo termine riferito a se stessi?

Gli uomini d'onore, come sono chiamati gli iniziati a Cosa nostra, non usano il termine mafia riferito a se stessi. Già questo fatto dovrebbe essere sufficiente a farci capire come tutte le speculazioni etimologiche che si sono susseguite a proprosito dell'origine del termine non si avvicinano alla realtà. Ciò detto, l'ipotesi migliore è si basa sul fatto che tale parola faceva parte del dialetto palermitano già a metà del secolo diciannovesimo: significava una sorta di mescolanza tra fiducia in sé e bellezza; l'approssimazione in inglese sarebbe 'cool' [ N.d.T.: una figata, ma anche fantastico, sfacciato]. La storia di come poi assunse connotazioni criminali e divenne allo stesso tempo una potentissima arma politica è raccontata in uno dei primi capitoli del mio libro.

Molti libri sulla mafia sono stati redatti da giornalisti e commentatori, e relativamente pochi da studiosi di storia (certamente in lingua inglese). Quali sono le sfide cui uno storico va incontro nell'affrontare un argomento quale la mafia?

Il primo e fondamentale problema è stato aggirato solo di recente. Prima del 1992 non sapevamo neppure cosa fosse di preciso la mafia siciliana! Fu infatti solo allora che i tribunali italiani confermarono l'esistenza della mafia. Prima di allora, gli storici non potevano avere la certezza di sapere cosa stavano cercando quando scorrevano la documentazione alla ricerca di notizie sulla mafia. Questo spiega anche il motivo per cui la prima vera storia della mafia siciliana mai scritta in italiano fu pubblicata solo nel 1993, un'opera eccezionale di studio ed analisi compilata dallo storico catanese Salvatore Lupo. E' un vero peccato che il suo libro non fu mai tradotto in inglese.

L'altro ovvio apsetto del problema è la mancanza di docuemntazione. La mafia siciliana è ed è sempre stata un'associazione segreta di assassini e criminali. Proprio per questa sua natura intrinseca, essa non lascia tracce scritte. Allo stesso tempo però, poiché ha da sempre co-abitato al fianco del potere politico, ha lasciato di riflesso un'abbondanza di prove di natura accessoria.

Che cosa contraddistingue Cosa nostra da alter organizzazioni [criminali] quali la 'Ndrangheta calabrese o la Sacra Corona Unita pugliese? Come si è giunti a considerare la mafia come il modello per le attività criminali organizzate su scala mondiale?

Cosa nostra è, molto semplicemente, molto meglio organizzata rispetto ad altre associazioni criminali dell'Italia meridionale. Nessuna delle altre possiede qualcosa di simile alle Commissioni provinciali che funzionano da parlamento e tribunali mafiosi nella Sicilia occidentale. Nessuna delle altre associazioni ha un capo dei capi come Cosa nostra. Gli stretti legami con gli Stati Uniti, dove il modello siciliano vinse sulle altre associazioni criminali esportate dall'Italia, hanno anche aiutato Cosa nostra a conquistare la sua prominenza.

Una delle recensioni del suo libro lo ha descritto come “un lavoro preciso e necessario di ridefinizione”. E' d'accordo? Cosa l'ha avvicinata all'argomento?

Trovo interessante il riferimento alla marchiatura [N.d.T. il termine inglese 'brand' significa letteralmente 'marchio']. Deriva da un'affacinante analisi sociologica della mafia siciliana ad opera di Diego Gambetta, un altro studio che rappresentò una svolta su questo argomento e che uscì all'inizio degli anni '90. Egli fu il primo a proporre l'idea che 'mafia' potesse essere inteso come una marca, un marchio di fiducia o di intimidazione, a seconda di come si vuole interpretare il racket dell'estorsione che sono alla base del potere di cosa nostra.

Cosa nostra esiste per proteggere la credibilità del proprio marchio. In altre parole, per assicurare che le minacce dei propri adepti non siano mai proferite invano. Un po' come la marca Volkswagen e la sua reputazione di affidabilità. Solo che nel caso di Cosa nostra, la protezione dell'identità di marca consiste nella capacità di ammazzare la gente e di farla franca, invece che la semplice sicurezza di esser in grado di avviare il motore della tua auto in un mattino uggioso.

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