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Libri & Letteratura – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 Il ritratto di un'Italia che non ci piace – Sacra fame dell'oro vs. Il ritorno a casa di Enrico Metz https://www.threemonkeysonline.com/it/il-ritratto-di-unitalia-che-non-ci-piace-sacra-fame-delloro-vs-il-ritorno-a-casa-di-enrico-metz/ https://www.threemonkeysonline.com/it/il-ritratto-di-unitalia-che-non-ci-piace-sacra-fame-delloro-vs-il-ritorno-a-casa-di-enrico-metz/#respond Mon, 01 Aug 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/il-ritratto-di-unitalia-che-non-ci-piace-sacra-fame-delloro-vs-il-ritorno-a-casa-di-enrico-metz/ “Seppure non eravamo testimoni né partecipi di nessun 25 aprile o 8 settembre, seppure gli ideali per cui combattevano le migliori menti della nostra generazione erano un contratto a tempo indeterminato e la normalità dei cicli circadiani, seppure avremmo fatto volentieri a meno di ricordare i nomi di quei ministri che ogni sera in televisione […]

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“Seppure non eravamo testimoni né partecipi di nessun 25 aprile o 8 settembre, seppure gli ideali per cui combattevano le migliori menti della nostra generazione erano un contratto a tempo indeterminato e la normalità dei cicli circadiani, seppure avremmo fatto volentieri a meno di ricordare i nomi di quei ministri che ogni sera in televisione sbagliavano la pronuncia dell'inglese, le addizioni a due cifre, le minime cognizioni di geografia e storia recente; ecco, seppure il contesto invitasse al rifiuto assoluto o alla narcolessia, avevamo una responsabilità: raccontare questo tempo”. Dichiarazioni che abbiamo ripescato da un'antologia letteraria pubblicata qualche tempo fa da minimum fax: si intitolava La qualità dell'aria. Storie di questo tempo e raccoglieva gli umori, le visioni, le reazioni di venti scrittori al nostro tempo devastato e vile. Sono passati due lunghissimi anni da quel manifesto, e l'aria che respiriamo è ancora satura di polveri sottili e soffocanti; ma se c'è un elemento nuovo e rassicurante nella situazione, va colto nel fatto che scrittori appartenenti a generazioni, geografie e scuderie editoriali diverse stanno rinunciando a raccontare il proprio ombelico e le storie minimaliste cui sono avvezzi per dare spazio invece a scandali finanziari, avidità di potere, aziende in mano a manager spregiudicati e corrotti, mediocrità trionfante al potere. Insomma il ritratto di un'Italia che non ci piace per niente ma con cui siamo costretti a convivere, e che i libri di Piersanti ed Aloia ci raccontano impietosamente, anche se con stile e approcci differenti.

Nel caso di Piersanti, classe 1954, autore di splendide storie intime come L'amore degli adulti e Luisa e il silenzio, il potere che si stanca di se stesso e si ritira a vita privata (non senza prima essere insidiato da Guardia di Finanza e magistratura) è incarnato dalla figura di Enrico Metz, avvocato cinquantenne che dopo aver passato metà della sua vita a Milano come consulente legale di un ricco industriale, si ritira dal suo ruolo pubblico per far ritorno alla casa paterna in provincia. Il passaggio dal 'grande' al 'piccolo', dalla metropoli alla cittadina, dai santuari della finanza allo studio legale ricavato in una stanza dell'abitazione è tutt'altro che indolore, soprattutto per il carico di rimpianti che porta con sé. Poiché Metz è un eroe da romanzo, il suo esilio non contempla la nostalgia per il potere, i soldi, i benefits aziendali o la visibilità mediatica, ma è invece una sorta di pausa (definitiva) da una forsennata partita a Monopoli, necessaria a fare dolorosi bilanci: soldi e successo sono costati (a lui come a una generazione di manager e politici) non solo paurosi compromessi morali, corruzione e comportamenti spregiudicati, ma anche rinuncia alla propria vita interiore, al proprio ruolo di padre (Metz si accorge di non aver visto crescere i suoi due gemelli ormai adulti, concentrati sulle fidanzate e lontanissimi per lavoro), all'amicizia, e perfino alla vita matrimoniale, ridotta a una convivenza tra estranei. Ripartendo da cose semplici e banali per riconciliarsi con gli anni sprecati (per dirla con gli Afterhours), a cinquant'anni Metz può finalmente concedersi una tregua, andare in giro nella piccola città di provincia senza essere riconosciuto, fermarsi davanti a una vetrina “come un soldato che torni dopo una lunga guerra in terre lontane. E come un soldato non voleva più pensare alle battaglie combattute, alle delusioni, ai successi, alle sconfitte cocenti… Non era più un capo, era finalmente libero”.

Il romanzo si sviluppa raccontando il progressivo re-inserimento dell'avvocato nella sua città natale, tra amici ritrovati, una segretaria fin troppo materna, una giovane fanciulla in fiore che gli fa perdere il sonno e una casa che gli ricorda in definitiva gli anni più belli. Piersanti è bravissimo ad alternare momenti di struggente malinconia (il protagonista invecchia velocemente dentro e fuori, addirittura sollecitando, se possibile, la sua lenta decadenza) ad altri di assoluto cinismo, in cui riaffiora il ruolo pubblico del personaggio e le meschinità ad esso collegate: ad esempio quando, in vista delle elezioni, i papaveri locali vorrebbero trascinarlo in politica sfruttando il suo nome ancora pulito da sospetti e pendenze giudiziarie. Poiché Metz declina l'offerta, la sua ingiuria viene ripagata con l'invio della Finanza in casa, nel segno di una persecuzione umana e fiscale che è il prezzo da pagare per chi non rispetta più le regole del gioco…

Altre ambientazioni, ma stesso sguardo intenso e pietoso sulla nostra realtà, si ritrovano nei quattro racconti che compongono Sacra fame dell'oro di Ernesto Aloia, collocati in anni diversi della nostra storia recente. La situazione è ambientato nella Torino del 1973, ai tempi dei maxi-licenziamenti alla FIAT e dei terroristi che sequestravano i dirigenti per portarli nel carcere del popolo. I due racconti centrali parlano invece di ragazzini che subiscono o esercitano violenza (fisica ma soprattutto psicologica) in due Italie diverse: quella del 1954, ancora molto povera e in Lambretta, e quella del 1969, dove invece tanti hanno la seconda casa a Cortina, Antibes o Portofino e tanti altri si affannano ad ostentare una ricchezza che non hanno. L'ultimo racconto, il più coinvolgente secondo chi scrive, si intitola programmaticamente Locuste, ed è ambientato ai tempi del crac argentino e degli iPod. Come in Enrico Metz, anche qui c'è un protagonista in crisi di coscienza che deve espiare qualcosa, e una moglie benpensante che vive in una specie di luna-park a prezzo di qualche scrupolo passeggero. Angela (pura di nome e nello spirito) legge il manifesto e Le monde diplomatique, odia il liberismo, l'America, Israele e le multinazionali e fa la spesa nei negozi del commercio equo e solidale, ma intanto vive in una villa con due palme e una magnolia nel giardino. Hanno “dieci stanze, una vasca idromassaggio, due Volvo, un home theater e altri due schermi al plasma. Hanno anche una casa a Cortina, un Manet presunto autentico, tre Mac portatili, due impianti stereo, una tonnellata di vestiti, una colf a tempo pieno, due assicurazioni sulla vita, due piani di risparmio e un bel po' di fondi lussemburghesi”. Da dove arrivano tutti questi soldi? Dal lavoro del marito, che 'cura' le relazioni esterne di una banca piegandosi a comportamenti illeciti e frodi doppie e triple ai danni dei risparmiatori, al limite del premio Nobel per l'ingegno.

Il piano della banca per speculare sui clienti rimasti in mutande è diabolicamente plausibile, e Aloia lo descrive con precisione svizzera. Ma ciò che l'autore sottolinea con altrettanta abilità è la sete di soldi, l'egoismo e l'istinto competitivo universale che governano giovani e anziani, ricchi e poveri, uomini e donne senza alcuna distinzione: da Angela, anima candida di cui sopra, ai risparmiatori che hanno creduto di poter guadagnare il 12% annuo da obbligazioni argentine, dalla stagista della banca (che si dedica con entusiasmo al confezionamento della frode) all'amico medico, che nel giro di 48 ore rinuncia alla sua missione con Medici senza Frontiere per stare con la donna che ha appena conosciuto.

Se c'è una via d'uscita da questo tunnel malefico e lastricato di buone intenzioni, ancora non l'abbiamo trovata. Forse non rimane che conviverci, e leggere libri come questi per 'allenare' (almeno ogni tanto) la nostra coscienza stordita da tv, riviste patinate e pubblicità.

Sacra fame dell'oro, di Ernesto Aloia – minimum fa
x, pp. 179.

Il ritorno a casa di Enrico Metz, di Claudio Piersanti – Feltrinelli, pp. 205.

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Rincorrere il potere – intervista con lo scrittore Ernesto Aloia https://www.threemonkeysonline.com/it/rincorrere-il-potere-intervista-con-lo-scrittore-ernesto-aloia/ https://www.threemonkeysonline.com/it/rincorrere-il-potere-intervista-con-lo-scrittore-ernesto-aloia/#respond Mon, 01 Aug 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/rincorrere-il-potere-intervista-con-lo-scrittore-ernesto-aloia/ Ha da poco pubblicato la sua seconda raccolta di racconti per minimum fax. L'ha intitolata Sacra fame dell'oro, guardando alla Commedia di Dante ma ispirandosi anche ai nostri tempi, ai nostri piccoli eroi avidi di soldi e potere. TMO intervista via email Ernesto Aloia, per chiedergli conto dei suoi personaggi antipatici (a dire il vero, […]

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Ha da poco pubblicato la sua seconda raccolta di racconti per minimum fax. L'ha intitolata Sacra fame dell'oro, guardando alla Commedia di Dante ma ispirandosi anche ai nostri tempi, ai nostri piccoli eroi avidi di soldi e potere. TMO intervista via email Ernesto Aloia, per chiedergli conto dei suoi personaggi antipatici (a dire il vero, non più di uno specchio che rilevi impietosamente le nostre imperfezioni) e più in generale della fatica, e delle urgenze, legate alla sua scrittura. Tre dei tuoi quattro racconti sono ambientati nel passato, in anni che hai vissuto da bambino (1969, 1973) o in cui addirittura non eri ancora nato (1954). Come mai la scelta di andare così indietro nel tempo?

Non è stata una scelta a priori. Diciamo che un racconto nasce da una scena, un personaggio, un'atmosfera che svolgono un ruolo germinale, e che quando questi elementi mi sono venuti incontro erano già avvolti nella loro dimensione storica. Non mi sono mai chiesto: perché non ambientare Missilistica per dilettanti negli anni Cinquanta? Semplicemente non mi ha neppure sfiorato l'idea di fare diversamente. Antonio, Nives e Nicola erano lì, già nel loro tempo. Tra l'altro viaggiare nel tempo – sia pure con l'immaginazione narrativa – è molto divertente.

Una costante dei tuoi personaggi, anche di quelli presenti nella raccolta precedente, è la loro doppia vita: alcuni hanno la moglie raffinata, bella e ricca, la Triumph rossa e la casa in collina, ma poi si trovano a loro agio solo nelle braccia dell'amante operaia e cellulitica. Altri leggono il manifesto e fanno la spesa nei negozi del commercio equo e solidale, ma poi vivono in una villa hollywoodiana, viaggiano in Volvo e hanno la colf a tempo pieno. Pensi davvero che la coerenza e la coscienza non siano più di questo mondo?

Mi dispiacerebbe molto se qualcuno trovasse piena coerenza nei miei personaggi, perché gli esseri umani sono incoerenti per natura. Sono ambigui, pieni di zone d'ombra, e la loro vita psicologica ignora costantemente il principio di non contraddizione. La coerenza non è mai stata di questo mondo, e mi viene da dire per fortuna.

Sempre a questo proposito, ti chiedo: scrivere per te corrisponde a un'urgenza personale o è invece una sorta di 'dovere civile', un modo per denunciare politica e costumi ormai inaccettabili?

Non credo alla letteratura come denuncia e dovere civile. Con questo non voglio dire che non ci siano buone opere letterarie con un contenuto civile, ma che non fosse quella la spinta primaria dell'autore. Scrivere è un vizio: ti chiede molto, fa male perché assorbe energie importanti, ma può essere esaltante. Può anche essere penoso e umiliante, come gli altri vizi, ma uno scrittore che ha appena finito una scena ben riuscita lo riconosci perché cammina a un metro da terra, su un invisibile cuscinetto di narcisismo.

Locuste è il mio racconto preferito: sembra fantapolitica, è invece è terribilmente reale. Il protagonista cura le relazioni esterne di una banca che ha venduto bond argentini ai suoi clienti, e che adesso lucra sulla loro speranza di rivedere qualche soldo gestendo alcuni siti web di assistenza ai risparmiatori (naturalmente fasulli). In questa doppia truffa, già di per sé squallida, aggiungi un elemento ulteriormente disturbante: il webmaster è un 25enne part-time laureato in filologia germanica e la sua assistente una stagista laureata in Scienze della Comunicazione… Purtroppo la situazione che descrivi è tutt'altro che fantascientifica… Ti chiedo: da scrittore e da lavoratore (mi sembra che il tuo 'vero' lavoro sia l'impiegato) vedi uno spiraglio di luce oltre questo binario unico del Sesso-Soldi-Successo?

Il mio lavoro 'vero' è fare lo scrittore. Il problema del protagonista di Locuste è che ormai stenta a comprendere il mondo, tutto quello che non è denaro o non è direttamente accessibile tramite versamento di una congrua somma di denaro gli sfugge, perde consistenza ed è come se diventasse invisibile ai suoi occhi. Quando il suo amico Alec, un uomo solo reduce da un divorzio penoso, si innamora della giovane Rada, la prima cosa che fa è metterlo in guardia su questioni di portafoglio. D'altra parte, persino lui avverte confusamente che una possibilità di evasione esiste. Arriva la primavera, e questo personaggio sente che c'è una forza al lavoro che potrebbe cambiare la sua vita. A guardarlo bene, è un uomo che vive sull'orlo di un cambiamento ma, d'altra parte, tra le cose di cui non si accorge c'è anche il suo stato di semicecità. Dunque le occasioni esistono, però gli sfuggono. Quanto agli spiragli di luce… di per sé non c'è niente di male nella Tripla S di Sesso-Soldi-Successo, il problema rimane sempre quello di riuscire a stare al mondo da vivi, cioè con gli occhi aperti e senza farsi assorbire dall'inessenziale. Se giorno dopo giorno cammini a capo chino da un'abitudine all'altra e non ti accorgi del mondo, hai perso. Non c'entrano necessariamente i soldi. Certo, il modello della Tripla S produce infelicità, ma se è per quello anche il mito della povertà virtuosa.

Che rapporto hai con i tuoi personaggi? Pochissimi di loro sono 'puri' e positivi, nel senso eroico del termine, siano essi uomini o donne…

Ritorna il tema della coerenza. I miei personaggi non sono puri e positivi, ma neanche negativi al 100%. Non ce n'è uno che sia interamente negativo. Beh, forse un 'cattivo totale' c'è, il Danilo Serra di Locuste. I cattivi mi piacciono molto (sulla pagina, s'intende), direi che mi vengono bene.

Un romanzo che assomiglia parecchio all'atmosfera dolente, direi quasi sconfitta, dei tuoi racconti, è Il ritorno a casa di Enrico Metz appena pubblicato da Claudio Piersanti. L'hai letto? Credi che le somiglianze siano l'inevitabile frutto di questo momento storico?

Veramente no, non l'ho letto. Ma perché le somiglianze dovrebbero essere l'”inevitabile frutto di questo momento storico”? Se andassimo a vedere in quanta letteratura aleggia un'atmosfera dolente e sconfitta, scopriremmo che questo momento storico non finisce mai. Forse è la condizione umana.

Ci sono degli scrittori con cui fai 'squadra', insieme ai quali discuti di quello che scrivi e soprattutto delle urgenze letterarie e non che ne sono all'origine?

No, niente squadra. Conosco degli scrittori, ma raramente parliamo dei nostri libri. Per ovvi motivi gli scrittori preferiscono commentare i libri degli assenti…

È più difficile iniziare un racconto, trovare l'incipit e l'ispirazione giusta, oppure finirlo, individuare il momento giusto per la chiusura?

Questo dipende dal racconto. Generalmente l'inizio non è un problema, perché se non mi viene in mente un incipit evocativo e stimolante non mi metto neanche a scrivere un racconto. Poi, magari, lo modifico strada facendo. Comunque, mai fatto un piano a tavolino, uno schema con la trama, roba così. Bisogna che tutto nasca da un'immagine originaria che può anche non trovarsi all'inizio, ma che genera l'intero racconto. In Locuste, per quanto possa sembrare strano, l'immagine del protagonista che corre da solo, volontariamente murato in un isolamento ipnotico che taglia fuori lavoro, famiglia, amici, è nata prima dell'idea della disinformazione ai danni degli obbligazionisti argentini. La conclusion
e sì, qualche volta può essere un problema. Certe volte mi capita che un racconto rimanga senza finale per mesi. Ma a quel punto, non è più veramente preoccupante: il racconto è già lì, può fare resistenza quanto vuole, al massimo riesce a rallentare i tempi.

Se dovessi bilanciare la 'quota' autobiografica e generazionale e quella di pura invenzione nei personaggi e nelle situazioni che descrivi, che percentuale indicheresti? A cosa è dovuto il prevalere dell'una o dell'altra componente?

È impossibile stabilire delle percentuali. Non mi capita mai di utilizzare materiali autobiografici puri e semplici. D'altra parte, tutto deriva dall'autobiografia. Un personaggio può nascere dallo stato d'animo di un giorno o può rappresentare l'estrapolazione di una tendenza che nell'io dell'autore coesiste con altre cento, magari contraddittorie. È un po' come per gli attori: se devi impersonare, che so, Adolf Hitler, devi cercare dentro di te quelle spinte alla violenza e alla sopraffazione che di solito tieni ben nascoste (però ci sono, ci sono…), isolarle e portarle alla luce.

Libro sul comodino in questi giorni? Libro che tieni sulla scrivania come una Bibbia?

In questi giorni sto leggendo Dies Irae, di Giuseppe Genna. Un libro da cui imparare: l'autore ci si è gettato a corpo morto, senza riserve. Senza timore dell'eccesso, della dismisura. Sul comodino i libri vanno e vengono. Tra quelli che ci tornano più frequentemente ci sono Underworld di De Lillo (ho un comodino molto spazioso), i romanzi di Cormac McCarthy, Il falò delle vanità di Tom Wolfe e la Commedia di Dante, da cui ho tratto il titolo Sacra fame dell'oro.

Rispetto alla raccola precedente, ho notato che hai scelto la via del realismo (mentre Peter Szoke aveva situazioni più surreali e uno stile in alcuni casi iperbolico) e che sei passato da temi privati ad argomenti 'pubblici'. A cosa è dovuto questo cambio di rotta? Ti ha condizionato il dibattito intorno a La qualità dell'aria?

Peter Szoke rappresentava una varietà di strade possibili, in qualche caso divergenti. Sacra fame dell'oro ne sceglie una e va fino in fondo. Il dibattito sull'antologia La qualità dell'aria non mi ha influenzato (c'è stato un dibattito?), anche perché io all'epoca avevo già abbandonato iperboli e situazioni surreali: se vai a rileggere il racconto Pavel in Chi si ricorda di Peter Szoke?, il secondo della raccolta ma l'ultimo in ordine cronologico, vedrai che ha molto in comune con quelli di SFDO [Sacra fame dell'oro], molto più degli altri. Quanto al passaggio dagli argomenti 'pubblici' a quelli 'privati', non credo che le cose stiano così, non c'è stato alcun passaggio. Anzi, io sono per abolire la distinzione. In Chi si ricorda di Peter Szoke, Le notti cieche parlava della grande bolla speculativa borsistica del 1999-2000 e dei bombardamenti notturni della seconda guerra mondiale. Pavel parlava di Chernobyl. In Concentrazione c'è di nuovo la seconda guerra mondiale. Ammiro molto gli scrittori che riescono a creare una corrispondenza simbolica tra le vicende dei loro personaggi e il contesto storico (che tra l'altro così non è più semplice contesto). I narratori americani, con tutte le ovvie differenze, sono bravissimi: Philip Roth, De Lillo, Wolfe. Non esiste contraddizione tra storia pubblica del paese e privata dei personaggi, anzi si potenziano a vicenda.

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‘Non sono solo un romanziere’ – Palazzo Yacoubian e Ala-Al-Aswani, https://www.threemonkeysonline.com/it/non-sono-solo-un-romanziere-palazzo-yacoubian-e-ala-al-aswani/ https://www.threemonkeysonline.com/it/non-sono-solo-un-romanziere-palazzo-yacoubian-e-ala-al-aswani/#respond Mon, 01 Aug 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/non-sono-solo-un-romanziere-palazzo-yacoubian-e-ala-al-aswani/ Di questi tempi, Palazzo Yacoubian dovrebbe diventare una lettura obbligatoria nelle scuole, un libro a distribuzione gratuita (o quasi) nelle edicole, un film che raggiunga il grande pubblico (ormai ci siamo, la pellicola è stata girata con un budget stratosferico per i canoni del cinema arabo e presto sarà nelle sale). Insomma tutti, per un […]

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Di questi tempi, Palazzo Yacoubian dovrebbe diventare una lettura obbligatoria nelle scuole, un libro a distribuzione gratuita (o quasi) nelle edicole, un film che raggiunga il grande pubblico (ormai ci siamo, la pellicola è stata girata con un budget stratosferico per i canoni del cinema arabo e presto sarà nelle sale). Insomma tutti, per un verso o per l'altro, dovrebbero conoscere storie e personaggi di questo romanzo, che abbina a un'altissima valenza letteraria un ancor più importante valore sociologico, alla maniera dei tanti film e romanzi neorealisti che, negli anni Cinquanta, raccontarono al mondo l'Italia del dopoguerra.

Palazzo Yacoubian è stato pubblicato in Egitto, tra mille difficoltà, un anno dopo l'11 settembre 2001, e da allora è il libro più venduto nel mondo arabo dopo il Corano. Con i toni ora brillanti ora amari della commedia, il suo autore Ala-Al-Aswani (che per anni nello Yacoubian vero del Cairo ha avuto il suo studio dentistico) racconta le microstorie degli abitanti di questo vivacissimo palazzo, che per ospiti, litigi, urla, pettegolezzi ricorda un qualunque condominio del Sud Italia: c'è la ragazza bella e prosperosa costretta a farsi palpare dal suo datore di lavoro per mantenere il posto di commessa, c'è il suo fidanzato che sogna un futuro in polizia, negatogli in quanto figlio di misero portiere, e che da giovane mite e pacifico finisce per diventare un kamikaze; c'è il vecchio trafficone che compra un posto in politica e il giornalista gay protagonista di una tragica storia d'amore…

Spirito di osservazione da entomologo e abilità nell'intreccio di destini e personaggi hanno assicurato all'autore la definizione (che condividiamo) di “Robert Altman in salsa mediorientale”, ma avendo conosciuto Aswani in occasione di un incontro pubblico, la sensazione è che, più che onori letterari o riconoscimenti di stile, il suo Palazzo Yacoubian voglia attirare un'attenzione politica sul mondo musulmano, che il libro venga letto come un reportage neanche troppo romanzato sulla insostenibile situazione egiziana ed araba in genere. Ecco le dichiarazioni di Aswani a questo proposito, e lo scambio di battute con cui abbiamo cercato di capire meglio un mondo per noi così lontano, ma in definitiva così vicino.

“Ho scritto questo libro anche per trattare il tema della religione. In Egitto sono presenti le tre più grandi religioni monoteiste, l'Islam, il Cristianesimo e l'Ebraismo, ma il problema non è la religione ma l'interpretazione che si dà di essa. Come forse sapete, l'Islam è nato nel deserto ma poi si è sviluppato e ha prosperato nei grandi luoghi dove esisteva la civiltà, in Iran, in Iraq e in Medio Oriente. La realtà dell'Egitto è fondata su due elementi estremamente negativi: la dittatura e, una sua conseguenza, la povertà di milioni di persone. Molti egiziani sono stati costretti ad emigrare in Arabia Saudita per cercare lavoro e una fonte di guadagno; lì sono entrati in contatto con una realtà molto ricca ma anche permeata di wahabismo, che è una delle interpretazioni più intolleranti dell'Islam. Questo ha portato conseguenze negative su tutto l'Egitto.”

Ha parlato di dittatura senza virgolette.

Il signor Mubarak governa e comanda sull'Egitto da trent'anni con una serie di elezioni fintamente democratiche, e adesso sta cercando di spingere il figlio in una posizione di potere. Non c'è altro modo per descrivere questo regime se non parlare di dittatura.

E allora come mai il suo libro non è stato censurato?

Da 14 anni in Egitto vige una legge che dice più o meno: “Tu puoi dire quello che vuoi, noi facciamo quello che ci pare”. Da un lato può essere in qualche modo positivo, ma in realtà è solo una dichiarazione di facciata per il regime, una libertà di parola passiva. In un paese democratico, la libertà di parola dovrebbe produrre dei risultati politici, ad una denuncia dovrebbe seguire un'inchiesta e, all'inchiesta, le dimissioni di qualcuno. Invece in Egitto non succede mai niente, siamo in una realtà senza un libero parlamento, perché le persone che vi siedono sono state elette attraverso elezioni finte, perché c'è la tortura come scrivo nel libro, ci sono migliaia di persone detenute illegalmente e così via. Il mondo arabo non conosce l'espressione ex-presidente, i presidenti sono tutti defunti, è l'unico modo in cui si cambia.

Dal punto di vista di uno scrittore, la possibilità di una parola politicamente inefficace è una frustrazione o al contrario ne rafforza il ruolo, in quanto può esercitare almeno questo primo grado di libertà?

Nelle intenzioni del regime questa nuova legge non ha sortito l'effetto voluto, perché invece di avere degli intellettuali sempre più frustrati, vediamo la possibilità di intervenire e di creare un movimento democratico secolare, laico. E infatti io non sono solo un romanziere, ma sono anche un attivista politico, scrivo saggi e articoli di giornale.

Qui la parola 'laico' è diventata quasi una parolaccia, come se fosse una forma ideologica e non una premessa di convivenza per tutti. Da quel che dice sembra che lì sia altrettanto difficile.

'Laico' può essere sinonimo di democratico, civile, senza alcuna accezione religiosa. D'altra parte in Egitto si sono nutriti a vicenda due poli, il regime e il fanatismo, che solo apparentemente sono in contraddizione. Ma non è affatto così, anzi si autoalimentano: attraverso l'ingiustizia diffusa e la repressione, il regime utilizza il fanatismo dopo averlo creato.

A scuola di medicina uno degli insegnamenti fondamentali è che il medico deve imparare subito la differenza tra patologia e malattia, e questo discrimine è molto importante: se si cura la malattia, si può guarire realmente, se si cura la complicanza come se fosse una malattia, il paziente muore. Questa è una similitudine per dire che nel mio paese è accaduta la stessa cosa: la malattia è il regime, la complicanza della malattia è il fanatismo. Il regime vuole convincerci in tutti i modi che il fanatismo e l'integralismo siano la malattia da curare, mentre invece sono una conseguenza della malattia. Questo elemento traspare anche nel giovane protagonista del mio libro, che inizialmente è un idealista, ma che poi viene portato alla scelta del terrorismo perché imprigionato ingiustamente, torturato ecc.

Nei paesi arabi, Palazzo Yacoubian è stato accolto in maniera diversa a seconda dei diversi gradi di democraticità di ogni nazione?

Questo libro è stato un best seller nel mondo arabo per quattro anni, pubblicato in Egitto all'inizio con difficoltà (quattro editori lo hanno letto, ne hanno parlato benissimo però non lo hanno pubblicato) e poi con grande successo (la prima ristampa è arrivata dopo due mesi). Ho ricevuto molti feedback da parte di lettori che mi hanno contattato, scritto email, e da tutti ho sentito le stesse parole, e cioè: “stai parlando del mio paese, descrivi la situazione del mio paese”. Questo conferma la mia opinione, e cioè che ci sono 22 paesi arabi con 22 tipologie di regime: c'è la monarchia, ci sono i rivoluzionari, ma non c'è la democrazia. Credo si ritorni sempre al concetto che la mancanza di democrazia è la patologia da curare. Adesso la malattia sembra aggravarsi, in quanto dopo l'11 settembre c'&egrav
e; una mancanza di democrazia anche nei paesi occidentali.

Lei è uno scrittore ma fa anche il lavoro quotidiano di dentista, che è un mestiere che lascia una libertà di gestione del tempo e anche una libertà di scrittura notevoli (se facesse il giornalista potrebbero metterla a tacere immediatamente). Come mai fa ancora il dentista, dopo tutti i soldi che ha guadagnato grazie a questo libro?

Credo fermamente nello scrittore indipendente, che non deve essere vincolato, per questo ho continuato a mantenere il mio ambulatorio di dentista. Sono riuscito a farlo perché è una libera professione, ma meno impegnativa ad esempio della chirurgia, una specialità che richiederebbe una presenza 24 ore su 24 e che non mi permetterebbe di scrivere. Un altro motivo per cui continuo a fare il dentista è che mantengo forti i contatti con le persone, mi occupo di loro, e questo è veramente importante per la mia scrittura.

Questo libro è diventato anche un film: ha mai pensato di scrivere per il cinema, non è anche quello un modo per arrivare più facilmente al popolo?

La letteratura è molto importante per me, ma ho seguito il consiglio di mio padre, che è morto quando avevo 19 anni e mi ha detto che se la letteratura diventa la cosa dominante, devo smettere di scrivere. Mi hanno fatto tantissime offerte di sceneggiatura, soprattutto dopo l'uscita del libro. Offrono anche moltissimi soldi, ma alla fine mi sono reso conto che mi rovinerei la vita. Io ho una vita pacifica, tranquilla, posso scrivere tutti i giorni con calma. Se invece si guadagna in maniera spropositata per un lavoro di tre o quattro mesi, a un certo punto il gioco può diventare davvero pericoloso, può impedirmi di scrivere un altro romanzo. Se guadagni così tanto, come fai a vivere per due, tre anni senza guadagnare mentre scrivi il prossimo libro? Poi immagino i miei personaggi al cinema e non riesco a vederli. Ho molti amici sceneggiatori, non ho niente contro di loro, ma io non mi ci vedo!

Palazzo Yacoubian, di Ala-Al-Aswani – Feltrinelli, pp. 215, euro 16

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Ricordi, Lotta E Fantasia Dalla Penna Dell&apos;eroina Della Letteratura Sudamericana- Intervista Con Isabel Allende https://www.threemonkeysonline.com/it/ricordi-lotta-e-fantasia-dalla-penna-delleroina-della-letteratura-sudamericana-intervista-con-isabel-allende/ https://www.threemonkeysonline.com/it/ricordi-lotta-e-fantasia-dalla-penna-delleroina-della-letteratura-sudamericana-intervista-con-isabel-allende/#respond Fri, 01 Jul 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/ricordi-lotta-e-fantasia-dalla-penna-delleroina-della-letteratura-sudamericana-intervista-con-isabel-allende/ Isabel Allende, la famosa scrittrice cilena, nipote dell'ex presidente cileno Salvador Allende, accetta con pazienza e senso dell'umorismo il fatto che, nonostante sia uno degli esponenti di spicco della letteratura in lingua spagnola e un personaggio chiave dei circoli letterari ispanici, in alcune nazioni è ancora confusa con la cugina, la figlia del presidente. La […]

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Isabel Allende, la famosa scrittrice cilena, nipote dell'ex presidente cileno Salvador Allende, accetta con pazienza e senso dell'umorismo il fatto che, nonostante sia uno degli esponenti di spicco della letteratura in lingua spagnola e un personaggio chiave dei circoli letterari ispanici, in alcune nazioni è ancora confusa con la cugina, la figlia del presidente. La scrittrice fa parte di una delle famiglie più famose del mondo ispanofono, ma questo non è stato mai un appiglio a cui si è aggrappata per ottenere popolarità e successo. Al contrario, è solo grazie al suo talento, alla sua conoscenza dei media unita alla maestria nell'uso della lingua, se ha ricevuto onori e riconoscimenti importanti a livello internazionale. Isabel Allende ha una brillante carriera alle spalle. Il suo primo romanzo, La casa degli spiriti, è stato adattata per il cinema ed è diventato un successo da botteghino. Libri come Eva Luna, Il piano infinito, Paula, tra gli altri, l'hanno condotta di trionfo in trionfo, nel vasto e ricco mare della letteratura ispano americana contemporanea.

Negli ultimi anni, l'autrice si è concentrata su una scrittura più leggera, eccitante, rivolta ad un pubblico più giovane, senza però allentare la forza misteriosa ed emozionale che è il suo tratto distintivo. La sua trilogia Le memorie di Aquila e Giaguaro raccontano le avventure di due bambini che, accompagnati dalla loro nonna giornalista, viaggiano attraverso regioni misteriose trasformandosi, lei in aquila, lui in giaguaro, come suggerisce il titolo. Ma è l'ultimo romanzo, Zorro, che conferma la sua natura di scrittrice versatile. In quest'ultimo progetto il personaggio mitico nasce dalla penna della Allende e ci rivela un aspetto della sua vita fino ad ora sconosciuto: lei ci guida attraverso quelle tappe che la leggenda ha dimenticato, gli anni della gioventù e i suoi inizi come “primo super eroe della storia”. Tra i classici, Zorro è l'unico super eroe veramente umano, il solo che non vanta super poteri, ma che agisce spinto dall'audacia e dall'astuzia.

La Allende ha commentato in diverse occasioni che “tutto viene dalla memoria” e mentre i lettori non dubitano di questo nei primi romanzi, cominciano invece a interrogarsi sulla veridicità di quei ricordi a mano a mano che si addentrano nell'intricato mondo fantastico dei romanzi successivi. “La memoria è sempre soggettiva”, puntualizza la Allende a Three Monkeys Online, “tu ed io possiamo essere testimoni dello stesso accadimento e ricordarlo in modi completamente diversi, uno di noi potrebbe anche dimenticarsene come se non si fosse mai verificato. Noi ricordiamo i momenti più felici e i più cupi della nostra esistenza, ma quelli grigi scompaiono nella frenesia della quotidianità”.

Ci sono quindi delle interpretazioni che sono involontariamente soggettive, idealizzate? Chiedo, riferendomi alla presenza di così tanti ricordi personali nel suo mondo letterario. “Ogni ricordo letterario è, necessariamente, una forma di invenzione. Il fatto che noi scegliamo cosa dire e cosa tenere segreto, è già un limite alla veridicità del racconto. Credo che ciascuno di noi abbia il diritto di inventare ricordi, o almeno, di alimentarli. Io non provo nemmeno a raggiungere l'oggettività, mi sento molto più a mio agio nel limbo dell'immaginazione”.

Il lettore si integra facilmente in quel limbo. La scrittura di Isabel Allende è fluida, veloce, ci trasporta dalla realtà più buia alla magia coinvolgente del suo mondo di spiriti, sogni, premonizioni. Tuttavia, il suo mondo è sempre stato pieno di riferimenti politici, di temi sociali. L'autrice, dai suoi esordi come giornalista quando ancora viveva in Cile e non aveva pubblicato il suo primo bestseller, si è impegnata nella lotta per i diritti civili e in particolare delle donne. Non sorprende, quindi, che la maggior parte dei suoi personaggi più complessi siano donne. “Ho sempre avuto a cuore il tema della condizione della donna,” spiega, “insieme a quello della giustizia, dell'amore e della morte. Sono nata negli anni quaranta in un ambiente conservatore, cattolico e maschilista, in cui le donne avevano poche opportunità. Era necessario uno sforzo doppio per ottenere la metà del risultato. Le nostre idee non erano rispettate, non avevamo voce”.

La Allende afferma che la situazione è cambiata molto grazie alle “lotta senza quartiere” delle donne della sua generazione. In risposta alla mia domanda sul percorso di evoluzione delle donne verso l'uguaglianza, specialmente in America latina, la scrittrice predice la vittoria elettorale dell'attuale presidente del Cile, Michelle Bachelet (l'intervista si è svolta prima del voto). Le elezioni si tennero il 15 gennaio e la cinquantenne candidata socialista ottenne il 53,49% delle preferenze diventando così la prima presidente donna della nazione. “In America latina sono stati fatti molti progressi, soprattutto per quelle classi sociali che hanno accesso a istruzione e assistenza sanitaria,” aggiunge Allende. Ma l'uguaglianza femminile non è il solo argomento che la preoccupa. Isabel, in omaggio alla figlia Paula, che perse dopo una lunga battaglia contro la porfiria, ha fondato un'associazione attraverso cui cerca di dare istruzione, cure mediche e protezione a donne e bambini bisognosi. La Allende è anche impegnata attivamente in progetti per la pace, la giustizia e l'ambiente. Noto che nella prima pagina del suo libro La foresta dei pigmei, l'autrice dichiara il suo impegno per la difesa delle foreste; un impegno che dimostra, come spiega lei stessa, non solo con le parole ma anche con la creazione del gruppo dei Defensores del Bosque Cileno.

Durante un'intervista che fece agli inizi della sua carriera con il famoso giornalista spagnolo Sánchez Dragó, Isabel paragonava la scrittura all'arte del ricamo a crochet e ora aggiunge: “E' molto difficile raccontare una storia in modo coerente, mantenendo la suspence e senza lasciare che l'idea principale esca dalla tua traccia. Scrivo senza un piano, senza un canovaccio e questo significa che devo tenere tutte le parti del ricamo nella mia testa e non posso perdere neanche un punto. Correggo molto. Non ho correttori di bozze e non discuto i miei libri, ma a volte, quando leggo la traduzione inglese noto errori che mi erano sfuggiti nell'originale. Di solito ho il tempo di correggerli perché la mia traduttrice è molto veloce”.

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Una scrittrice &apos;speciale&apos;: Dacia Maraini a colloquio con Three Monkeys Online https://www.threemonkeysonline.com/it/una-scrittrice-speciale-dacia-maraini-a-colloquio-con-three-monkeys-online/ https://www.threemonkeysonline.com/it/una-scrittrice-speciale-dacia-maraini-a-colloquio-con-three-monkeys-online/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/una-scrittrice-speciale-dacia-maraini-a-colloquio-con-three-monkeys-online/ Ho incontrato, in diverse occasioni, Dacia Maraini e, ogni volta, sono rimasta affascinata dalla sua incredibile capacità di raccontare. E' una vera affabulatrice che coinvolge e trasmette emozioni, proprio come succede quando si leggono i suoi romanzi, tutti indimenticabili, dal primo La vacanza a La lunga vita di Marianna Ucria o a Bagheria, La nave […]

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Ho incontrato, in diverse occasioni, Dacia Maraini e, ogni volta, sono rimasta affascinata dalla sua incredibile capacità di raccontare. E' una vera affabulatrice che coinvolge e trasmette emozioni, proprio come succede quando si leggono i suoi romanzi, tutti indimenticabili, dal primo La vacanza a La lunga vita di Marianna Ucria o a Bagheria, La nave per Kobe, Colomba, solo per citarne alcuni.

Ma Dacia Maraini non è soltanto una grande scrittrice, conosciuta e tradotta in tutto il mondo, autrice di romanzi, poesie, saggi e opere teatrali, ma è anche una persona che, con sensibilità e passione, si è impegnata per i diritti civili, per la pace, la giustizia, la libertà, è una donna che ha appoggiato le lotte del femminismo e che ha dimostrato, più volte, di avere il coraggio delle proprie idee.
Una persona generosa e autentica, una scrittrice 'speciale', da conoscere un po' più da vicino, proprio come è successo a me con questa intervista.

Fanizza: Che cosa rappresenta per Lei la scrittura?

Dacia Maraini: L’aria che respiro.

Fanizza: Per dedicarsi completamente alla sua professione di scrittrice a cosa ha dovuto rinunciare?

Dacia Maraini: Se ho fatto delle rinunce, le ho fatte senza fatica. Da ragazza ricordo che rinunciavo ad andare a ballare per restare a leggere sotto un albero.
Oppure passavo le notti con un libro in mano e il giorno dopo morivo di sonno. Ma non pensavo di fare un sacrificio, semplicemente mi dedicavo a qualcosa che amavo.

Fanizza: Come è stato il rapporto di Dacia Maraini con suo padre? Quanto l’ha condizionata nell’incontro con le persone che ha amato?

Dacia Maraini: Rimanderei alla lettura di Bagheria. Adesso non posso qui riassumere il complicato e profondo rapporto che ho avuto con mio padre. Ricordo solo che lui mi ha sempre trattata più come un compagno di avventure sportive che come una figlia: ore e ore di roccia, ore e ore di sci, ore e ore di barca o di nuotate nell’acqua fonda. Senza tenere conto delle fragilità di una bambina.

Fanizza: Lei si è spesso occupata di diritti civili e dei diritti delle donne. Che cosa è cambiato, oggi, nel rapporto uomo-donna?

Dacia Maraini: Anche questa è una domanda che avrebbe bisogno di un libro intero per risposta. Comunque, brevemente potrei dire che, mentre sul piano dei diritti civili molte cose sono cambiate decisamente per il meglio, sul piano dei costumi e della mentalità c’è ancora molto da fare. D’altronde è chiaro che è molto più facile cambiare una legge che cambiare un modo di pensare.

Fanizza: Quale qualità femminile è necessaria e utile, nel nostro tempo, per affermarsi nel mondo del lavoro e per affrontare serenamente la vita?

Dacia Maraini: Una donna deve dimostrare in ogni momento di essere trenta volte più brava di un uomo, per ottenere fiducia e considerazione. Quindi deve essere tenace, combattiva ma non aggressiva, deve amare molto il suo lavoro e non lasciarsi scoraggiare dalle tante discriminazioni che accompagnano le sue giornate. Soprattutto non deve pensare che usando il suo corpo raggiungerà meglio lo scopo. Gli uomini usano le donne che fanno le seduttive, e poi le disprezzano.

Fanizza: Nei suoi romanzi Lei parla spesso di donne che sono state violentate, molte anche da piccole. Perché la violenza arriva spesso proprio dalle persone più vicine e più care?

Dacia Maraini: Non so dire perché. So che tutte le indagini e le statistiche parlano della diffusione allarmante delle violenze in famiglia. Segno che qualcosa non funziona nelle famiglie di oggi. Segno che gli adulti non sanno rispettare e amare veramente i loro piccoli. Spesso si confonde l’amore col possesso. Si dice: “questo è mio” di un figlio, senza tenere conto che si tratta di una persona con la sua personalità, i suoi diritti, la sua autonomia, anche da piccolissimo.
Amare in maniera possessiva spesso vuol dire per chi ama ‘lasciare un marchio’ su quel corpo, covarlo morbosamente, diventarne gelosi. Da questo all’incesto ci manca poco. Solo se si impara a rispettare l’altro nel figlio, nel nipote, nel fratello, nella figlia, nella sorella, nella moglie, si può parlare di vero amore. Altrimenti si tratterà solo di una forma di narcisismo: si ama l’altro in quanto ci ama, ci appartiene, ci è fedele. E basta un piccolo tradimento, un allontanamento, una affermazione di autonomia per scatenare l’ira, la paura e anche l’odio dell’adulto. Quanti mariti e fidanzati uccidono la donna che dicono di amare perché ha deciso di andare via. È cronaca di tutti i giorni.

Fanizza: A quale personaggio femminile dei suoi romanzi Lei è maggiormente affezionata? Per quale motivo?

Dacia Maraini: Sono sempre affezionata all’ultimo dei miei personaggi. Perché mi è più vicina, perché ho camminato con lei per più tempo.

Fanizza: Quale consiglio si sente di dare a chi oggi vuole scrivere? Quale il segreto di un romanzo di successo?

Dacia Maraini: Il successo non bisogna mai metterlo in conto: se lo si insegue, scappa. Importante è amare molto il proprio lavoro di scrittura, leggere moltissimo fino a riconoscere a occhi chiusi, sentendolo leggere, un autore di ieri e di oggi. Importante è scrivere tutti i giorni, per ore. Avere fiducia nella propria immaginazione e farla camminare. Non aspettarsi mai il successo, ma la stima e l’interesse di chi legge. All’inizio può essere un compagno di banco, uno che ha i tuoi stessi interessi. Prima di mandare il manoscritto di un romanzo all’editore, sarà bene provare a scrivere dei racconti e a pubblicarli in qualche rivista locale (ce ne sono sempre in tutte le città). Anche su Internet si trovano siti dedicati a chi scrive, aperti a tutti. Solo quando vi siete fatte le ossa, pensate in grande. La qualità si fa strada, ma ha bisogno di tempo. Non ci sono scorciatoie per una professione fatta sul serio. Però sarà bene ricordare che il nostro è un paese che legge pochissimo (solo il 5% legge più di un libro all’anno), e che, invece, moltissimi vogliono scrivere, e quindi preparatevi a una durissima concorrenza. In bocca al lupo!


Sito di Dacia Maraini

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Dal racconto di una Vita a quello di Un giorno perfetto: intervista a Melania G. Mazzucco. https://www.threemonkeysonline.com/it/dal-racconto-di-una-vita-a-quello-di-un-giorno-perfetto-intervista-a-melania-g-mazzucco/ https://www.threemonkeysonline.com/it/dal-racconto-di-una-vita-a-quello-di-un-giorno-perfetto-intervista-a-melania-g-mazzucco/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/dal-racconto-di-una-vita-a-quello-di-un-giorno-perfetto-intervista-a-melania-g-mazzucco/ Melania Mazzucco è una delle autrici più felicemente mainstream della nostra narrativa. Dopo il successo di Vita, premiato con lo Strega nel 2003 e in arrivo al cinema per la regia di Paolo Virzì, l’abbiamo intervistata (via email) sul suo nuovo libro, Un giorno perfetto, romanzo-specchio di questi anni e di quest’Italia, e sulle urgenze, […]

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Melania Mazzucco è una delle autrici più felicemente mainstream della nostra narrativa. Dopo il successo di Vita, premiato con lo Strega nel 2003 e in arrivo al cinema per la regia di Paolo Virzì, l’abbiamo intervistata (via email) sul suo nuovo libro, Un giorno perfetto, romanzo-specchio di questi anni e di quest’Italia, e sulle urgenze, letterarie e non, che sono all’origine delle sue storie.

Com’è nata l’architettura del romanzo, l’idea di bilanciare una famiglia ricca con una famiglia monoreddito, una moglie che passa le giornate tra parrucchiere e agenzie immobiliari e un’altra che fatica ad arrivare al 27 del mese, un uomo di successo (per quanto al declino) con un poliziotto ossessionato dalla fine del suo matrimonio?

Nel mio romanzo precedente, Vita, avevo raccontato una storia lunga cent'anni – dal 1903 al 2003. In Un giorno perfetto volevo utilizzare una struttura temporale antitetica: solo ventiquattro ore. Ma in queste ventiquattro ore volevo raccontare il respiro di un'epoca – e di una città – e per fare ciò avevo bisogno di attraversare le classi sociali e le generazioni. Lo schema più semplice era quello di incrociare i destini di due famiglie che non si incontrerebbero mai se il lavoro non le legasse – se uno non lavorasse per l'altro. Il lavoro, in tutte le sue implicazioni, è uno dei nuclei di Un giorno perfetto. Così Antonio lavora per l'onorevole, e la vita dei Buonocore e quella dei Fioravanti finiscono per intrecciarsi.

Dopo il successo planetario di Vita, cosa ti ha spinto a scrivere un libro così diverso, a osare così tanto? Mentre scrivevi Un giorno perfetto, hai mai pensato alle attese dei tuoi lettori o hai assecondato solo l’urgenza di raccontare la ‘tua’ storia?

Sai, uno scrittore sente la mancanza dei libri che non ha ancora scritto, dei libri che da qualche parte dentro di lui aspettano di essere trovati. Non può provare nostalgia di quelli che ha compiuto, anche se gli sono riusciti. Ogni libro ne genera un altro, spesso è legato a quello che lo precede da fili sottili, impalpabili. Un giorno perfetto, in questo senso, è profondamente legato a Vita. Con quel romanzo, ho raccontato una storia italiana che attraversava un secolo – il Novecento: le vicende dei protagonisti mi hanno portato dalla grande povertà dell'Italia rurale all’apparente ricchezza di un paese che crede di essere diventato l'America, e si è fatto paese di accoglienza e di immigrazione. Era di questa Italia del Duemila – ricca ed egoista, appagata e delusa, sgretolata e confusa – che volevo scrivere, proprio del mondo in cui viviamo. Ed è Vita che mi ci ha portato. I lettori che con Vita mi hanno seguito in America – e poi nell'Italia del dopoguerra – vivono, come me, nel mondo di Un giorno perfetto, e sono certa che in questa storia di oggi possono riconoscersi: è del nostro paese, è di noi che si parla. Forse scrivere di questo era osare, ma nessuno scrittore può accontentarsi di ripetere una formula vincente: a meno che non sia un imprenditore, un venditore di parole come altri vendono prosciutti, occhiali o automobili. Io non lo sono. Preferisco mettermi in discussione, e ricominciare ogni volta daccapo.

Il tema dell’immigrazione ritorna in Un giorno perfetto come argomento di salotto sulle nazionalità delle colf: meglio le equadoregne o le rumene, meglio le cattoliche o le musulmane? Un approccio completamente diverso rispetto al racconto appassionato dell’odissea di Vita e Diamante…

La scena delle chiacchiere delle signore durante la festa di Camilla è ovviamente satirica, le banalità che dicono vanno lette in controluce. Ma mi pare che le parole di queste donne – frivole e superficiali mentre discutono di temi come razza e religione – siano esattamente quelle che riecheggiano in conversazioni simili e che ognuno di noi ha ascoltato dozzine di volte, in treno o in aereo, sull'autobus o a cena. È la trascrizione di una conversazione qualunque. Purtroppo. Nessuna di quelle donne si chiede davvero chi sia la propria domestica, quale dramma abbia affrontato lasciando i propri bambini al suo paese, separandosi dal marito per guadagnarsi la vita, quali difficoltà di lingua, abitudini, cultura, abbia trovato. Vita raccontava proprio questo, ma dall'altra parte: con la prospettiva di chi è dovuto partire, di chi ha lasciato il proprio paese, gli affetti, la lingua, la storia, l'identità. La differenza sta nel rovesciamento culturale e sociale che ha subito l'Italia in questi cento anni: i migranti di ieri sono i nonni e i genitori delle signore del salotto di Un giorno perfetto.

Pur raccontando una sola giornata, il tuo libro ha il respiro di un affresco storico, di un film che ho amato molto come La meglio gioventù. Tu hai corso un rischio in più, che è quello di raccontare l’oggi, il contemporaneo. È stato più facile o più difficile, rispetto ad esempio alla stesura di Vita?

Credo che la 'firma' di uno scrittore non stia tanto nel soggetto che racconta quanto nel modo in cui lo fa. Le storie, in fondo, sono sempre le stesse. Ciò che costituisce il nostro segno, ciò che ci rivela, è lo sguardo che dedichiamo alle persone, ai paesaggi, alle idee e alle cose. Il mio, credo, è sempre lo stesso – sia che racconti dell'America del primo Novecento sia che racconti della Roma del 2001. Mi riconosco nella parola 'affresco': ci ritrovo il respiro narrativo delle mie storie, i molti personaggi, i molti piani, la simultaneità del tempo e così via. È ugualmente difficile costruire dei personaggi che restino nella memoria, dei dialoghi veri, un mondo che abbia la sua coerenza e la sua necessità. Nel caso di un romanzo contemporaneo c'è forse una difficoltà in più. Quando uno scrittore scrive – che ne so – della Londra vittoriana, il lettore si fida della sua descrizione. Si affida al mondo narrativo che gli viene raccontato. Quando lo scrittore scrive invece di oggi, non può confidare sulla 'sospensione dell'incredulità' – perché il mondo narrativo che evoca è lo stesso del lettore, e il lettore può abbandonarti se ciò che gli racconti non è vero, se non sei credibile. In un certo senso, giochi con lui ad armi pari, in un corpo a corpo che vi vede entrambi disarmati: e questa è una sfida che uno scrittore non può eludere, e che mi è piaciuto accogliere.

Qualche tuo amico o conoscente si è riconosciuto nelle storie o nei personaggi che racconti? La vita quotidiana di Maja, i timori di Elio, le alienazioni del lavoro in un call center sono troppo realistici per non essere veri…

Nessuno dei personaggi di Un giorno perfetto ha un modello reale. Sono tutti personaggi inventati. Però ho lavorato molto 'dal vero' – dall'interno degli ambienti rappresentati. Invece di documentarmi in archivio o in biblioteca, ho proceduto come se dovessi scrivere un reportage, o interpretare una parte secondo il Metodo – immergendomi di volta in volta nella professione dei poliziotti, dei politici, delle telefoniste, passando del tempo con loro, entrando nelle stazioni dei carabinieri, ascoltando i comizi e così via. Ho pensato che come un lettore non sapeva com'era la pensione di un emigrato italiano a New York nel 1903, così in fondo non è mai stato a un comizio politico in periferia, nell'o
pen space di un call center, a farsi un piercing al capezzolo, e ho provato a portarcelo col mio racconto. E' vero che molti si sono riconosciuti nei personaggi del romanzo. La cosa più bella però me l'hanno detta lettori che non conosco, e perciò non potevano essere miei 'modelli': Emma sono io, Valentina è mia figlia, io sono stato Aris a vent'anni – e così via. Per me, è stato come sapere di aver colto una verità che va al di là dell'esistenza di una singola persona.

Un romanzo che per certi versi assomiglia al tuo è La bestia nel cuore di Cristina Comencini. Anche lì la famiglia è tutt’altro che “il luogo che fa spuntare le ali ai sogni”. È un romanzo che hai letto? Che rapporto hai con gli scrittori contemporanei, in particolare romani? Esiste un gruppo che riflette e produce sugli stessi temi, oppure preferisci restare estranea a queste ‘associazioni di categoria’?

Non so se anche a Roma esiste un gruppo coeso di scrittori che condividono un progetto letterario – forse sì, ma non ne faccio parte. Qualche occasione di incontro e scambio ce l'ha offerta la Casa delle Letterature, e anche la redazione romana de La Repubblica, che ha coinvolto una trentina di scrittori che vivono a Roma (qualche nome, Giartosio, Guarnieri, Picca, Trevi), in progetti collettivi – come la narrazione dei quartieri di Roma. Abbiamo fatto dei reading insieme, coinvolgendo la città in un modo quasi impensabile per un singolo. Mi piacciono i progetti collettivi, e vi partecipo quando posso, ma sento che non ci tengono insieme esperienze condivise. Anche in letteratura, ognuno segue la propria strada. A volte i percorsi si incrociano, più spesso no. Siamo una generazione dispersa. Ci aggreghiamo volentieri, poi scompariamo – e ci ritroviamo alla fine solo leggendoci.

Uno dei temi che nel libro è solo accennato ma è molto importante è il potere, in qualche caso taumaturgico, della televisione. Se il caso di Antonio ed Emma finisse a Stranamore o a C’è posta per te, credi che il finale sarebbe diverso?

Decisamente sì, e questo è qualcosa di abbastanza sconvolgente. La gente come Emma e Antonio (o, nel caso di un romanzo come Vita, la gente come Vita e Diamante) finisce sul giornale solo quando viene ammazzata. Diventa interessante solo da morta. La televisione, invece, trova interessante anche la gente viva – perché la cannibalizza. La 'mette in scena' (nei reality show, nei talk show efferati e via dicendo) perché presuppone che nella sua storia e nel suo comportamento il presunto telespettatore medio può riconoscersi. La televisione è diventata un camera di decompressione dei conflitti (personali e sociali), un limbo che depotenzia ogni impulso e ogni follia, proprio perché lo disvela. Olimpia crede che se la figlia andasse in televisione a fare un appello all'ex-marito, tutti loro sarebbero in salvo. E credo che abbia ragione: la televisione è una paradossale salvezza (c'è chi muore, oggi, perché NON è riuscito ad andare in televisione: si uccide per questo).

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Pinter, tra tradizione realista e teatro dell&apos;assurdo https://www.threemonkeysonline.com/it/pinter-tra-tradizione-realista-e-teatro-dellassurdo/ https://www.threemonkeysonline.com/it/pinter-tra-tradizione-realista-e-teatro-dellassurdo/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/pinter-tra-tradizione-realista-e-teatro-dellassurdo/ “Nelle sue opere svela il baratro nascosto sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe ad entrare nelle chiuse stanze dell'oppressione”, questa la motivazione dell'Accademia di Svezia al conferimento del nobel per la letteratura del 2005. Parole perfette per descrivere in due righe l'opera del drammaturgo inglese di origine ebrea Harold Pinter. Nato in uno […]

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“Nelle sue opere svela il baratro nascosto sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe ad entrare nelle chiuse stanze dell'oppressione”, questa la motivazione dell'Accademia di Svezia al conferimento del nobel per la letteratura del 2005. Parole perfette per descrivere in due righe l'opera del drammaturgo inglese di origine ebrea Harold Pinter.
Nato in uno dei quartieri più poveri e malfamati di Londra, Hackney, il più grande merito dell'autore è stato quello di essere riuscito nell'intento di rappresentare in modo rivelatore, lancinante, quello che spesso si tende a non voler mostrare o che per comodità si preferisce addirittura non accettare. Le sue opere descrivono infatti il mondo contemporaneo come un mondo dove gli esseri umani sono costretti a combattere ogni giorno contro problemi sociali quali incomunicabilità, ingiustizia, violenza e si ritrovano di conseguenza rinchiusi nelle 'stanze dell'oppressione'.
Questa è la forza delle sue opere. Partire da storie comuni di individui inglesi, reietti della società o borghesi alto-locati che siano, dalla trama talvolta insulsa e senza soluzione, apparentemente così lontane dalla vita reale, che finiscono invece per suscitare nello spettatore la sensazione amara di avere davanti a sé proprio il mondo reale di cui fa parte, quella stessa stanza in cui è rinchiuso. Una riproduzione talmente fedele da lasciare attoniti.

Per farlo Pinter usa uno stile tutto suo che potremmo metaforicamente considerare come un ponte che collega due luoghi lontani, due modi di fare teatro completamente distinti tra loro: quello realista di Chechov e quello surreale di Beckett.
Di certo ai critici che erano presenti alla prima di The Birthday Party, messo in scena per la prima volta nel 1958, – “Cosa significa tutto questo solo il signor Pinter lo sa.” 1 – il termine 'realista', associato all'autore dell'opera che avevano appena visto rappresentata sul palco, sarebbe sembrato quanto mai inappropriato. I critici hanno infatti sempre associato il teatro pinteriano degli esordi a quello dei grandi maestri dell'assurdo, da Ionesco a Genet fino a Beckett2. “Alcuni elementi isolati delle sue opere sono profondamente realistici, ma la combinazione risultante è totalmente assurda.”3 Sebbene nelle opere di Pinter si alternino dialoghi surreali, pause e silenzi, che servono a rappresentare un mondo in cui presente e passato convivono, con un metodo (vedi The Room, Dumbwaiter, Silence) molto vicino a quello di Samuel Beckett, il tipo di interesse sociale che Pinter propone, specialmente nella rivelazione e psiche dei suoi personaggi, attraverso soventi monologhi, è molto vicino alla tradizione del diciannovesimo secolo, quella di Ibsen e Chechov. Beckett rifiutava qualsiasi convenzione naturalistica, a suo modo di vedere incapace di descrivere il mondo contemporaneo, mentre Pinter ne fa largo uso, fissando spesso l’attenzione sul subtesto, i così detti 'lapsus Freudiani', su ripetizioni convulsive, sulla nostalgia e i misteri della memoria che si vanno a intersecare con la storia presente. Questo tradisce i personaggi e perciò il pubblico è immerso nella lettura delle loro personalità, del loro passato, domandandosi allo stesso tempo cosa accadrà nel loro futuro con una curiosità che sarebbe inappropriata per personaggi beckettiani quali Estragon (Waiting for Godot) o Hamm (Endgame).

'Pinter's Nobel lecture', la ricerca della verità

Tuttavia il 7 dicembre a Stoccolma, durante la nobel lecture di rito in cui l'Accademia di Svezia concede 45 minuti ai premiati, Pinter non ha parlato per nulla di Beckett o Chechov, bensì, ha preferito occuparsi di argomenti di stretta attualità politica, piuttosto che del suo teatro. Ha sì iniziato cercando di definire il teatro, inteso come ricerca della verità, spesso elusiva, una verità che ogni spettatore, ma anche semplicemente essere umano in quanto cittadino, dovrebbe ricercare, “Tuttavia come ho detto, la ricerca della verità non deve mai fermarsi. Non può essere rinviata o rimanandata. Va affrontata proprio là, nel suo punto cruciale.”, per poi allargare tuttavia il discorso alla verità in senso lato che, secondo il drammaturgo inglese, raramente possiamo incontrare nel linguaggio politico, in quanto la maggior parte degli uomini politici non è interessata alla verità, bensì a mantenere il potere e per farlo ha bisogno che il popolo rimanga nell'ignoranza. Da lì è poi stato facile e scontato collegarsi alla recente invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti.

Dopo essersi soffermato nuovamente sui suoi plays, cercando di spiegare che, se essi sono pieni di incomunicabilità, assurdità e violenza, è proprio perché così si presenta la vita di tutti i giorni, ha in seguito fatto uso degli stessi aggettivi per descrivere la politica estera degli Stati Uniti d’America dalla seconda guerra mondiale ad oggi, citando i casi di Indonesia, Grecia, Uruguay, Brasile, Paraguay, Haiti, Turchia, Filippine, Guatemala, El Salvador e quello, più tristemente famoso, del Cile. Usando l'esempio del suo dramma Mountain Language che fa riferimento alle vicende del popolo curdo e che, insieme all'opera di denuncia sociale The Hothouse, potremmo definire tra le opere pinteriane più palesemente politicizzate, arriva quindi a citare e condannare gli episodi di tortura di Abu Ghraib (Iraq) e Guantanamo (Cuba).

Dopo aver lasciato spazio alla forza delle parole della poesia di Pablo Neruda I'm Explaining a Few Things, poesia sugli omicidi di civili occorsi durante la guerra civile di Spagna, e del suo stesso componimento in versi Death, ha poi concluso la nobel lecture usando una bellissima metafora dello specchio e dell'artista: “Quando ci guardiamo allo specchio pensiamo che l'immagine che ci riflette sia accurata. Stiamo in realtà guardando una serie infinita di riflessi. Tuttavia a volte lo scrittore deve rompere lo specchio, perché è dall'altra parte di quello specchio che la verità si rivela a noi”. Una sorta di esortazione a rompere anche noi quello specchio di riflessi, mezze verità o illusioni, sperando di trovarvi dietro la verità e uscire così dalla stanza chiusa dell'oppressione.

Note:

Manchester Guardian Review, 20 maggio 1958.
Martin Esslin fu il primo con il suo saggio Godot and his children: The theatre of Beckett and Pinter.
V.E. Amend, “Pinter – some credits and debits” in Modern Drama 10, 1967.


Il testo originale della nobel lecture

Il video della nobel lecture

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A capofitto, con ironia, nell’adolescenza d’oggi: TMO intervista Margherita F., autrice di Guide pratiche per adolescenti introversi. https://www.threemonkeysonline.com/it/a-capofitto-con-ironia-nelladolescenza-doggi-tmo-intervista-margherita-f-autrice-di-guide-pratiche-per-adolescenti-introversi/ https://www.threemonkeysonline.com/it/a-capofitto-con-ironia-nelladolescenza-doggi-tmo-intervista-margherita-f-autrice-di-guide-pratiche-per-adolescenti-introversi/#respond Sun, 01 May 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/a-capofitto-con-ironia-nelladolescenza-doggi-tmo-intervista-margherita-f-autrice-di-guide-pratiche-per-adolescenti-introversi/ Margherita Ferrari, diciott'anni compiuti da poco, non ama che le si chieda in che cosa è diversa dai suoi coetanei, ma certo è che lei, grazie alla sua sensibilità, creativa ed originale, ha fatto di un blog, nato come semplice diario, uno studio ironico e intelligente sugli adolescenti di oggi e dal blog al libro […]

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Margherita Ferrari, diciott'anni compiuti da poco, non ama che le si chieda in che cosa è diversa dai suoi coetanei, ma certo è che lei, grazie alla sua sensibilità, creativa ed originale, ha fatto di un blog, nato come semplice diario, uno studio ironico e intelligente sugli adolescenti di oggi e dal blog al libro il passo è stato breve. È nato così Guide pratiche per adolescenti introversi (Einaudi, 2005), un manuale semiserio in cui la giovane autrice vicentina osserva, intuisce, approfondisce e poi analizza e rielabora i comportamenti dei suoi compagni di classe e degli adolescenti che incrocia per strada e dà la sua ricetta per la sopravvivenza di chi è come lei: un Adolescente Introverso, un A.I., che vive ai confini del mondo conosciuto, rassicurante panorama berico fatto di marmi palladiani e aziende orafe, di cellulari spaziali e scarpe firmate col logo più trendy.

I pensieri condivisi nel blog, raccontati ad una comunità di lettori prevalentemente coetanei a cui Margherita si apre senza riserve, hanno preso la forma di un manualetto che fa il verso ai proclami e alle dissertazioni del sociologo o tuttologo di turno, che seziona il mondo degli adolescenti, li etichetta e li divide in categorie. Ed è proprio per fuggire queste odiate categorie che, forse un po' ingenuamente, Margherita F. ne crea delle altre, “e questo è un po' controsenso – spiega – ma mi serve per far capire in modo ironico quello che intendo, romanzando anche un po' ciò che osservo, e comunque non trovo giusto che gli adulti ci classifichino”. Ma le sue categorie sono così autentiche e divertenti che non si resiste alla tentazione di provare a riconoscersi in qualcuna di queste, o magari di trarne spunto per meglio capire il proprio fratello, la figlioletta o magari, l'alunno ribelle.

TMO: Con l'uscita del libro ti stai facendo conoscere ad un pubblico sempre più vasto, sta cambiando il tuo rapporto con i coetanei, quelli stessi di cui scrivi?

MARGHERITA F..: Ora mi considero una post adolescente, se non oltre. Mi piace dire che sono “introversa estroversamente” e sono più aperta verso quei coetanei che hanno modi di intendere la vita, interessi e passioni, diversi dai miei. Non mi piace che gli altri ora mi riconoscano come “quella che ha scritto il libro”, soprattutto se non lo hanno letto, e non mi piace neppure questo continuo raffronto con Melissa P.

TMO: A proposito di questo, è inutile dire che il confronto sorge spontaneo: due scrittrici adolescenti, esordienti entrambe, e tutte e due che firmano il loro lavoro con la sola iniziale del cognome. Tu cosa ne pensi?

MARGHERITA F.: Quello di non citare il mio cognome per esteso è una scelta editoriale. Certo, forse ha qualcosa a che vedere col fatto che già ci fosse Melissa P. Ma io mi firmavo così anche nel mio blog e non ci vedo niente di strano, anzi essendone il libro una versione più estesa, questo è del tutto naturale. Io però con Melissa Panarello non ho niente in comune, i paragoni si sprecano senza ragione. Scriviamo di argomenti completamenti diversi, i nostri stili non hanno nulla in comune, il fatto che anche lei scriva un blog non ci avvicina, tanta è la diversità di quello che vogliamo esprimere.

Dopo questa digressione sulla scrittrice esordiente più controversa degli ultimi tempi, a cui Margherita non risparmia le critiche, TMO vuole scoprire quali sono le influenze letterarie, i modelli a cui Margherita si ispira per i suoi racconti, dallo stile così personale, fluido e coinvolgente.

TMO: Leggendo le tue Guide pratiche ci si immerge nelle atmosfere eccentriche ma allo stesso tempo intimistiche degli Smiths, si viaggia con i Nirvana, ma meno esplicite sono le tue influenze letterarie…

MARGHERITA F.: Sopra a tutti metterei Orwell con 1984, un capolavoro illuminante e di piacevole lettura che tutti dovrebbero leggere. Tra i giovani autori contemporanei invece mi piacciono moltissimo Dave Eggers, di lui ho letto tutto e con la cui scrittura ho un rapporto forte, direi quasi carnale, e David Foster Wallace di cui amo il modo in cui struttura i suoi romanzi. In questo ultimo periodo sono stata influenzata molto anche da Beautiful Losers di Leonard Cohen, un libro che mi aspettavo pacifico e rassicurante e che invece si è rivelato terribile, specialmente in alcuni capitoli, una scrittura completamente diversa dai testi delle sue canzoni.
Tra i miei modelli letterari, in un certo senso inserirei anche gli Smiths, che ho iniziato ad amare per i loro testi, mentre la musica è venuta dopo. I loro versi assomigliano alle opere di Wilde, delle vere macchine per aforismi.

TMO: E cosa ci puoi dire del tuo rapporto con Il Maestro e Margherita di Bulgakov, sappiamo che i tuoi genitori hanno scelto per te questo nome in onore dell'eroina del romanzo…

MARGHERITA F.: Sì, è così. Il Maestro e Margherita è il mio libro preferito soprattutto per quanto riguarda la struttura della trama che è geniale e per lo stile. Amo un po' tutta la letteratura russa, Dostoevskij in particolare, ma anche quella francese dell'ottocento. Capolavori come Il rosso e il nero o Madame Bovary penso siano perfettamente adatti a ragazzi della mia età.

A Margherita, TMO chiede anche di dare qualche suggerimento cinematografico ai suoi lettori, agli adolescenti introversi e a quelli “acefali”, personaggi privi di una mente capace di ragionare autonomamente e criticamente, che lei definisce con questo efficace aggettivo preso a prestito dalla storia dell'arte e trasportato, con maestria, ai giovanotti d'oggi.

MARGHERITA F.: Kubrik è il mio regista preferito, ha influenzato il mio linguaggio e il mio stile. Tim Burton invece lo amo per come unisce il gusto per il fantastico alla critica della società. Il fantasy di solito non mi appassiona particolarmente, non ho visto Il Signore degli Anelli né letto Harry Potter, ma quando raggiunge i livelli sublimi di Tim Burton, allora sì, amo il genere fantastico.

Alla luce di questo ottimo libro d'esordio, in cui dimostra uno straordinario spirito d'osservazione e una vena ironica matura e intelligente, chiediamo a Margherita quali sono i suoi progetti per il futuro.

MARGHERITA F.: A breve termine l'obiettivo è la maturità e poi l'università. Per il futuro, beh, vorrei poter vivere facendo la scrittrice ed ho già qualche idea per un prossimo libro. I miei amici mi danno molti spunti, io li assimilo e li elaboro; mi piacerebbe scrivere un romanzo di mille pagine, come Infinite Jest di David Foster Wallace. Dovrà essere un libro con una componente fantascientifica, ma che allo stesso tempo mantenga una vena ironica, come le mie Guide pratiche.

In bocca al lupo Margherita!

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Per amore del popolo – Intervista allo scrittore James Meek https://www.threemonkeysonline.com/it/per-amore-del-popolo-intervista-allo-scrittore-james-meek/ https://www.threemonkeysonline.com/it/per-amore-del-popolo-intervista-allo-scrittore-james-meek/#respond Fri, 01 Apr 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/per-amore-del-popolo-intervista-allo-scrittore-james-meek/ Il terzo romanzo di James Meek, Per amore del popolo [edito da Longanesi], è ambientato in una piccola città della Siberia nel 1919, durante la Guerra civile russa. I personaggi e la trama, tuttavia, sono molto lontani dai tipi letterari dei rossi e dei bianchi. Tra le sue drammatis personae ci sono cristiani castrati, cannibali […]

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Il terzo romanzo di James Meek, Per amore del popolo [edito da Longanesi], è ambientato in una piccola città della Siberia nel 1919, durante la Guerra civile russa. I personaggi e la trama, tuttavia, sono molto lontani dai tipi letterari dei rossi e dei bianchi. Tra le sue drammatis personae ci sono cristiani castrati, cannibali e una divisione dell'esercito ceco disfatto in una guerra che dovrebbe, nelle intenzioni, averli a quel punto della storia, liberati.

Il romanziere Michael Faber ha descritto Per amore del popolo come “una storia grande, coraggiosa e tremendamente diversa, raccontata con un'autorità quasi soprannaturale”, mentre Irvine Welsh, nel Guardian, ha affermato che si tratta di “un romanzo scritto in modo pregevole, che, benché ambientato nel passato, profuma come la narrativa più contemporanea”. Oltre ai riconoscimenti di numerosi altri scrittori, Meek ha ricevuto importanti apprezzamenti dalla critica e Per amore del popolo è stato inserito tra i candidati al Man Booker Prize.

Altrettanto conosciuto come giornalista – i suoi reportage dall'Iraq e Guantanamo Bay hanno vinto svariati premi inglesi ed internazionali – James Meek ha gentilmente preso una pausa per raccontare di Per amore del popolo e della sua attività di scrittore a Three Monkeys Online.

TMO: Molti romanzi vengono pubblicati con un titolo di convenienza, un titolo che risulta facile all'orecchio (e all'occhio), ma che non aggiunge né toglie nulla al lavoro d'insieme. Per amore del popolo , come titolo, sembra invece andare contro questa tendenza, agendo come una chiave che schiude il significato profondo dell'opera. È vero questo? E quanto importante è stato il titolo per lei?

James Meek: Il titolo è una citazione dal libro. La incontrai rileggendo il libro una volta terminato e ne feci il titolo. In questo senso è saldamente calato nella narrazione e nelle idee dei personaggi che la costituiscono; scegliendo la citazione per titolo ho cercato di attirare l'attenzione sul significato che aveva per me. Se c'è un punto su cui i quattro personaggi principali del libro – Anna, Samarin, Balashov e Mutz – sono d'accordo, è che l'amore esiste ed è importante. Ciò su cui non sono d'accordo è cosa sia l'amore. Samarin e Balashov credono che possa andare al di là dell'amore di un uomo per una donna, o di una madre per il figlio, o di quello fra due amici, oltre l'amore individuale. Questo è l'amore di Dio; questo è l'amore della gente; è l'amore della tua nazione. Anna e Mutz sono più scettici riguardo questo tipo di idealismo. Tuttavia, l'intensa ricerca dell'amore di Dio e della gente da parte di Samarin e Balashov, fino alle estreme conseguenze, attrae Anna. Mutz sa che senza questo a lui manca qualcosa da poter dare a lei. L'atto d'amore delle persone è, letteralmente, un atto di cannibalismo. Ma agli occhi di Samarin è un piccolo gesto d'amore, di affetto e attenzione da parte di una generazione fallita, morente, nei confronti di una generazione nuova e più felice. La capacità di vedere qualcosa di crudele come un atto d'amore è caratteristico dell'idealismo estremo e, in un certo senso, di un modo maschile di pensare. Questa idea si riflette nell'intero romanzo.

TMO: Lei è un giornalista e uno scrittore di successo. Le differenze tra giornalismo e narrativa sono ovvie: una disciplina chiede all'autore di inventare, l'altra glielo impedisce. Nonostante questo, esistono delle analogie tra giornalismo e narrativa?

James Meek: Io opererei una distinzione all'interno del giornalismo stesso tra ciò che è fare cronaca, ed è ciò che ho fatto maggiormente, e altre forme di giornalismo – recensioni, editoriali, interviste con personaggi famosi, racconti di eventi sportivi, pettegolezzo. Una delle limitazioni principali che ha il reporter, al contrario del romanziere, è lo spazio. Al cronista è chiesto di essere sintetico, a volte questo è spinto all'estremo. Le notizie raccontate in 150 parole lasciano poco spazio a considerazioni sul ritmo o sulla poesia e le storie di 1500 parole non ne lasciano molto di più. Di norma c'è anche una rigida scadenza da rispettare. Si potrebbe pensare che tutto questo esercizio di sintesi faccia bene a un autore di romanzi. Io non ne sono sicuro. Per sentirti a proprio agio nel mestiere di scrittore, anche di racconti, tu non puoi darti dei limiti, o non limiti, di lunghezza.

Nel corso degli anni la mia attività di giornalista è cambiata. Recentemente mi è stata data l'opportunità di scrivere pezzi più lunghi, che possono trasmettere delle sensazioni, dipingere gli stati d'animo e le atmosfere di un certo luogo in un certo momento piuttosto che descrivere asetticamente le azioni di attori al comando di eventi considerati notizie. In questo tipo di pezzi ci può essere vicinanza tra lo scrittore e il giornalista in due modi: l'occhio inventore dello scrittore, in realtà i suoi occhi, orecchie, naso e il tatto devono riuscire a estrapolare i pochi dettagli che trasmettono un senso di spazio senza il tedio di dover elencare tutto ciò che si è percepito. La differenza è che l'autore di romanzi probabilmente si ricorderà tutti i dettagli più tardi.

L'altra analogia è l'immaginazione. Per immaginazione si intende di solito l'espansione del reale, ma è anche uno strumento per controllare il mondo concreto dell'esperienza. Come lo scrittore usa la sua immaginazione per indagare solo quelle piccole parti dell'infinito mondo delle possibilità che servono alla sua narrazione, così il giornalista, prima di cominciare a raccontare una storia, deve usare l'immaginazione per decidere dove dovrà andare e con chi dovrà parlare – per immaginare il tipo di fatti che potrebbero accadere e ciò che la gente reale effettivamente gli dirà.

TMO: Scrivendo nella London Review of Books riguardo ad un ritorno dei libri riguardanti la Seconda Guerra Mondiale lei ha commentato: “Per gli scrittori la guerra è una base ritmica, non la melodia”. Questo solleva una domanda: cos'è più importante, la base ritmica o la melodia? Fino a che punto, collocando gli avvenimenti sullo sfondo di una guerra, l'autore crea automaticamente un racconto?

James Meek: In quello stesso articolo scrissi che la guerra trasforma la più semplice delle relazioni in un mènage à trois – la ragazza amoreggia con un soldato, ma il soldato amoreggia con la morte. Durante una guerra civile o in tempi di tirannia ognuno amoreggia con la morte. Fino al punto in cui per lo scrittore si creano delle particolari possibilità drammatiche. Non credo ci sia niente di automatico in questo. L'ambientare i libri durante una guerra può essere inutile e stupido. Se lo scrittore si affida ad un qualsiasi scenario per la sua finzione narrativa fallirà. L'arcobaleno della gravità e Addio alle armi non sono dei grandi romanzi perché sono ambientati durante una guerra, ma per come agiscono i personaggi in questa ambientazione. Inoltre, solo poche azioni umane, e non importa fino a che punto estreme, accadono in tempo di guerra. Anche i periodi di pace sono pieni di germi di crudeltà, sofferenza e perdita. È solo meno probabile che sboccino nella loro crudele pienezza. Ma ci sono, lì che aspettano di crescere, si poss
ono vedere, e se ne può scrivere.

TMO: Lei ha scritto un romanzo sui fanatici religiosi, sulla guerra e sul terrorismo. A parte il fatto che è ambientato nel 1919, in Siberia, sembra molto collegato al presente. Quanto ha pesato lo 'scontro di civiltà' post 11 settembre nella stesura del libro?

James Meek: Anche se l'11 settembre il libro era ben lungi dall'essere terminato, la sua struttura e contenuti erano già delineati. Non fu rivisto alla luce di quello e dei successivi eventi. Sembra rilevante, ma non è perché io fui influenzato dall'11 settembre, né perché io lo avessi predetto, ma perché il fanatismo religioso, la guerra e il terrorismo sono eterni. Come tutti i mali di ogni civiltà, la necessità di trattarli con i migliori mezzi a disposizione non preclude l'accettazione che saranno sempre tra noi. Storicamente parlando, dire che lo scontro (non c'è stato molto di civile in questo evento), a cui si fa riferimento, si iniziato l'11 settembre è come dire che la Seconda Guerra Mondiale sia cominciata il 7 dicembre 1941.

Ciò che ho appena detto non significa che il libro non sia pertinente a quello che è diventato un conflitto tra fondamentalisti islamici, fondamentalisti cristiani-ebrei e liberali secolarizzati negli Stati Uniti, Europa, Israele e nel mondo arabo. Nelle azioni di questi tempi che vedono protagonisti i kamikaze islamici si rispecchia una perfetta fusione dell'idea di suicidio di Balashov e Samarin. Come Balashov, 'l'uomo bomba' sacrifica il suo corpo per un ideale intangibile, per l'amore di Dio; come Samarin, il kamikaze sacrifica civili innocenti per un ideale, per l'amore della Gente. Come Balashov e Samarin, il kamikaze gira le spalle al mondo dei genitori, dei bambini, degli amanti e amici, o, per lo meno, ci prova. Le prigioni del mondo sono piene di uomini-bomba che, quando tocca a loro, come Balashov e Samarin, non possono tirarsi indietro. Se può mettere a disagio qualcuno che il fanatismo religioso di Balashov sia cristiano e che Samarin veda nel fanatismo cristiano una soluzione a una distrazione personale, avrò raggiunto un obiettivo.

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Limpido come uno specchio. Intervista a John Banville https://www.threemonkeysonline.com/it/limpido-come-uno-specchio-intervista-a-john-banville/ https://www.threemonkeysonline.com/it/limpido-come-uno-specchio-intervista-a-john-banville/#respond Fri, 01 Apr 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/limpido-come-uno-specchio-intervista-a-john-banville/ Il Mare, il nuovo romanzo di John Banville, ci presenta Max Morden, da poco vedovo, ritornato nel luogo di villeggiatura estivo della sua infanzia.Meditando su frammenti della sua vita di coppia con Anna, Max ricorda anche il legame particolare che aveva instaurato anni prima con la splendida famiglia Grace, il cui status sociale, senza dubbio […]

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Il Mare, il nuovo romanzo di John Banville, ci presenta Max Morden, da poco vedovo, ritornato nel luogo di villeggiatura estivo della sua infanzia.Meditando su frammenti della sua vita di coppia con Anna, Max ricorda anche il legame particolare che aveva instaurato anni prima con la splendida famiglia Grace, il cui status sociale, senza dubbio superiore, è simboleggiato per il giovane Max da una cartina turistica della Francia abbandonata come per caso sotto il vetro posteriore della macchina di gran classe di Carlo Grace. Dapprima la consapevolezza nascente dell’altro sesso è stimolata dalla moglie di Carlo, Connie, ma infine è grazie all’esperienza con le figlie, la precoce Chloe, la muta Myles e Rose – la ragazza alla pari – che Max perde la sua innocenza.

John Banville discute con Shane Barry degli aspetti di Il Mare, così come delle verità eterne per lo scrittore: la morte, la commedia e la recensione.

TMO: In Il Mare, Max Morden sembra in principio un prototipico narratore banvilliano: erudito, solitario, con un segreto da custodire. Ma tuttavia Morden, con la sua disponibilità a condividere la vulnerabilità della sua infanzia e il dolore della sua vita sprecata, si rivela più simpatique di un Freddie Montgomery o di Axel Vandel. I cuori dei suoi personaggi si stanno sbrinando o sono forse ingiusto nei confronti dei suoi precedenti protagonisti?

Banville Sembra che i lettori trovino Max più cordiale e caloroso rispetto ai miei precedenti narratori. Ma credo sia strano perché pensavo che Axel Vander, Vistor Maskell (il cui nome, tra l’altro, non riuscivo a ricordare, e l’ho dovuto cercare proprio ora ne L’Intoccabile – il che la dice lunga a proposito dell’attaccamento di uno scrittore ai propri personaggi) e Freddie Montgomery si trascinavano, seppur miserevolmente, con pathos,–. Forse io non son riuscito a rendere più evidente la tristezza e l’autodifesa di questi personaggi. Con imbarazzo, considero i miei romanzi eccessivamente commoventi e un po’ troppo forti. Ma chi sono io per poter giudicare? I libri sono di dominio pubblico, e non posso più rivendicare, né ho voglia di farlo, il diritto di proprietà su di essi.

TMO: il Mare è un romanzo ossessionato dalla morte. Ciò che mi è saltato in mente leggendo il libro (e Il Mare è un libro creato per suscitare rêverie) è che il romanzo stesso è un genere letterario ossessionato dal tema della morte. Altre forme d’arte non astratte, quali pittura o poesia potrebbero a volte trattare l’argomento della morte, ma non lo affrontano nella stessa misura. Cos’è che induce gli scrittori a parlare di un dato argomento? Oppure, secondo lei, è per di più la forma del romanzo che ne reclama la trattazione?

Banville È un punto di vista interessante che non avevo mai preso in considerazione. Penso che la sua intuizione sia giusta – il romanzo per la sua forma è ossessionato dalla morte. Mi chiedo perché. Se pensiamo a Beckett, naturalmente, si comprende che la voce narrante nel romanzo, anche se in terza persona – o in ultima persona, come piaceva dire a Beckett – prende parte ad un costante blaterare contro l’oscurità che avanza. Ci sono grandi eccezioni nelle altre forme d’arte – Mahler, per esempio, o Munch, ma in realtà il dio che regna nel romanzo è Thanatos.

TMO: Nel romanzo Il Mare è divertente il dark humour, che in parte deriva dalla stanchezza di circostanza del narratore o dall’insofferenza verso il suo compito di descrivere il mondo che lo circonda. Per esempio, durante la visita al consulente dall’inquietante nome diMr. Todd [N.d.T.: Tod in tedesco significa morte], Max osserva il mondo al di là del vetro e vede “.. una quercia, o forse era un faggio, non sono mai sicuro di quegli alberi a foglie caduche, sicuramente non è un olmo dal momento che sono tutti morti…”

Ciò che voglio dire con tali digressioni è che il narratore tradizionale onnisciente, la nostra guida nel romanzo del 19° secolo, adesso sembra assurdo. Ciò che è vagamente appropriato è la voce in prima persona, una voce che è costretta a filtrare il mondo perché c’è semplicemente troppo sapere dietro di esso. Lei è d’accordo?

Banville Bene, ciò che si nasconde dietro queste digressioni è il voler provocare una risata, o almeno un sorriso malinconico. Lei ha sostenuto che il romanzo è ossessionato dalla morte; io direi che è una forma comica, in fondo come la vita stessa, la quale sembra un viaggio comico con irruzioni occasionali del tragico. Capisco cosa intende riguardo al narratore onnisciente del 19° secolo, ma sento sempre più che ci siamo ingannati con i nostri atteggiamenti condiscendenti verso i grandi Vittoriani. Si pensi al Grand Narrator onnisciente di Thackeray, o Tolstoy e la sua insofferenza verso la narrativa pura e semplice. Post-modernisti ante litteram.

TMO: Per quanto riguarda lo stile, che ogni critico sembra obbligato a menzionare quando si parla delle sue opere, vorrei proporle una citazione abbastanza celebre di Cyril Connolly, un personaggio che lei ha preso in considerazione in diverse recensioni. È tratta da I nemici dei giovani talenti, nel quale, come lei sa, l’autore procede con una divisione giustamente arbitraria degli scrittori in vernacolari e mandarini:

“Lo stile mandarino […] è amato da coloro che renderebbero la parola scritta il più diversa possibile da quella orale. È lo stile di quegli scrittori che cercano di trasmettere attraverso il linguaggio qualcosa in più rispetto a ciò che pensano o che sentono.”

Qual è il suo punto di vista su questa dichiarazione alla luce del suo stesso lavoro, che secondo molti potrebbe appartenere alla tradizione mandarina?

Banville In primis, mi auguro di non dare l’impressione di voler rendere le parole scritte il più possibile diverse da quelle pronunciate. Infatti il mio stile mi dà l’idea di una forma di retorica interna, un canto ritmico che è molto simile al modo in cui parliamo nella nostra testa. E non cerco neanche di trasmettere attraverso il linguaggio più di quanto le mie voci narranti pensino o sentano. Il mio obiettivo è scrivere in un stile chiaro e diretto, e posso ben dire, sfacciatamente, di aver un certo successo a riguardo. Non c’è una frase nei miei lavori, che a livello sintattico, grammaticale e lessicale, che non possa esser capita da un bambino di otto anni munito di dizionario. Non mi aspetto che un bambino capti le sfumature di significato e la suggestione che le frasi evocano, ma tento di renderle limpide come uno specchio, con tutte le ambiguità che ciò implica. E poi, l’abito dei mandarini mi renderebbe goffo.

TMO: In una recensione a Il Mare, nel giornale Prospect, il suo collega dell’ Irish Times, Fintan O’Toole, sembra sostenere che il suo desiderio di evitare temi su stereotipi irlandesi faccia di lei “uno scrittore irlandese riconoscibile“.

Eppure Il Mare, così come gli altri suoi romanzi che ho letto, sembra profondamente consapevole del losco (evidente) segreto della vita irlandese: la classe sociale. Il giovane Max Morden descrive la sua arrampicata in una società meschina, nel luogo di villeggiatura estivo, come “l’arrampicarsi su una ziggurat”. La classe sociale non è tanto un incubo dal quale Morden vorrebbe sveglia
rsi – è dallo status di piccolo borghese che vorrebbe scappare. C’è qualche fondatezza a questa interpretazione?

Banville Credo di sì. Il Mare ha qualcosa da dire riguardo alle classi sociali ma non in modo socio-critico. Il divario tra il mondo dei Grace ed i genitori di Max è destinato semplicemente ad aumentare l’intensità dell’amore del giovane Max per Connie e poi per Chloe, e non vuol in alcun modo criticare le realtà della vita irlandese. Credo di essere uno scrittore irlandese riconoscibile perché scrivo in hiberno-english, un patois letterario che trovo profondamente ricco nella sua ambiguità poetica.

TMO: Un personaggio in Punto contro punto di Aldous Huxley, che svolge la professione vaga del giornalismo letterario, pensa che “un cattivo libro richiede tanto lavoro per esser scritto quanto un buon libro; deriva direttamente dall’anima dell’autore”. Data la sua esauriente recensione ed il recente trambusto sulla sua affermazione negativa riguardo a Sabato di Ian McEwan, quanto ricorda delle fatiche del romanziere quando esprime la sua opinione?

Banville Ricordo la frase di Huxley – Cyril Connolly fa spesso la stessa osservazione – e sono d’accordo con lui. Come ho sottolineato nella mia recensione a Sabato , non ho provato alcun piacere nel dare il mio giudizio sul libro. Sono più che consapevole del lavoro che si svolge e spesso dell’angoscia che si prova quando si scrive un romanzo, e non è mia intenzione scartare con leggerezza qualsivoglia sforzo, pur se minimo, nel genere – e qualunque cosa sia stata detta in quella recensione non è stata scritta alla leggera. Mi fa male criticare il lavoro di un collega, sebbene non abbia dubbi che McEwan si consideri un mio collega unicamente da un punto di vista tecnico. A volte comunque, bisogna dire forte e chiaro ciò che si pensa. Il romanzo viene preso sempre meno sul serio oggigiorno, e qualcuno deve pur prendersi cura di tale povero vecchio mezzo di comunicazione.

TMO: Per finire, chi stima tra i suoi pari nell’industria della narrativa?

Banville È sempre una domanda antipatica. Risponderò al condizionale. Penso che la morte prematura di W.G. Sebalt sia stata un disastro per la letteratura. Stava facendo qualcosa di assolutamente nuovo, creando una sintesi del romanzo – intesi tutti i giochi di parole – e credo che avrebbe fatto prodigi se non fosse morto. La sua morte è l’evento più significativo per la letteratura contemporanea.

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