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Daniele Chicca – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 I Mau Mau tra presente e passato, da Torino ai Caraibi – Intervista con il leader del gruppo, Luca Morini. https://www.threemonkeysonline.com/it/i-mau-mau-tra-presente-e-passato-da-torino-ai-caraibi-intervista-con-il-leader-del-gruppo-luca-morini/ https://www.threemonkeysonline.com/it/i-mau-mau-tra-presente-e-passato-da-torino-ai-caraibi-intervista-con-il-leader-del-gruppo-luca-morini/#respond Fri, 01 Jul 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/i-mau-mau-tra-presente-e-passato-da-torino-ai-caraibi-intervista-con-il-leader-del-gruppo-luca-morini/ Fin dal 1991, data che segna la loro nascita, sorta dalle ceneri dei Loschi Dezi, un gruppo dell'underground torinese, i Mau Mau portano con loro la voglia di essere diretti, di poter esprimere dal vivo il loro suono semplice e composto da tre persone e un megafono. Mau Mau era il gruppo ribelle che in […]

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Fin dal 1991, data che segna la loro nascita, sorta dalle ceneri dei Loschi Dezi, un gruppo dell'underground torinese, i Mau Mau portano con loro la voglia di essere diretti, di poter esprimere dal vivo il loro suono semplice e composto da tre persone e un megafono.

Mau Mau era il gruppo ribelle che in Kenia si opponeva alla colonizzazione inglese, Mau Mau sono ancora oggi nel dialetto piemontese quelli che vengono da lontano, poveri e magari scuri di pelle e Mau Mau è una band che suona al ritmo dei balli popolari e feste paesane, che canta testi che raccontano storie di gente comune e multietnica in una miscela di lingue differenti. Risulta difficile per questo motivo catalogarli in un genere musicale diverso da quello che comunemente si definisce patchanka.

Sono passati 15 anni dagli esordi e i Mau Mau dopo una pausa di ormai 7 anni tornano con un nuovo album, al fine di proseguire il loro processo di “evoluzione continua”, come l'ha chiamata il leader del gruppo Luca Morini nell'intervista che ha rilasciato per TMO. Con Dea, registrato tra Torino, il Salento, Parigi e i Caraibi, il gruppo riesce a realizzare un semplice e allo stesso tempo maturo disco capace di far ballare, sognare e pensare, viaggiando al ritmo di percussioni etniche, chitarra e fiati, ma anche melodie immediate e poesia, in compagnia delle solite contaminazioni di culture e lingue.

Nell'intervista la chitarra e voce dei Mau Mau parte raccontando con quale entusiasmo stanno vivendo quest'ultimo elettrizzante periodo della loro nuova avventura musicale, facendo trasparire la grande voglia di suonare dei vecchi tempi. Tuttavia non si ferma solo alla musica proseguendo con l'umiltà e pacatezza che lo distinguono, spazia dalla fusione di arti differenti ai piacevoli ricordi di progetti passati, dalle tante collaborazioni artistiche della band alle sue personali idee su alcune tematiche di attualità.

Partiamo dal presente, parlando di Dea. Com’è andata la presentazione del vostro nuovo album a Milano venerdì scorso [il giorno 17 marzo a Milano, presso Feltrinelli in Piazza Piemonte NdR] ?

Luca Morini: E’ andata molto bene; siccome tra l’altro avevamo a disposizione un pianoforte abbiamo eseguito un paio di brani con piano, chitarra e voce, cosa che non fa parte del nostro solito sound.

Quali brani avete suonato?

Luca Morini: Abbiamo fatto Dea e Souvenir de Tulum, una ha una componente piano, l’altra per niente. Ad ogni modo l’inizio di questo primo periodo appena uscito il disco è elettrizzante. Stiamo verificando che c’è una bella accoglienza, abbiamo fatto un album che ci piace molto e abbiamo una gran voglia di farlo sentire alla gente.

Prossime date in programma?

Luca Morini: Per il momento solo date di presentazione del disco, prima di giugno non faremo concerti dal vivo, a parte il 23 aprile, a Torino dove, siccome si inaugura la città come capitale mondiale della letteratura per il 2006, faremo un concertone insieme a Marlene Kuntz, Subsonica. Metteremo insieme sia letteratura che musica cercando di combinare un poco queste discipline.

A proposito di fusione tra arti, nel 1997 avete eseguito dal vivo la colonna sonora del film inaugurale del Festival Internazionale del Cinema Sportivo di Torino, cosa ricordi di quell'esperienza?

Luca Morini: Molto spesso cerchiamo di unire la musica strettamente suonata ad aspetti visuali a livello di performance dal vivo. Addirittura quella volta avevamo messo insieme una banda da strada di fiati che ha sfilato per le strade della città prima di essere poi accompagnata da una serie di immagini delle prime olimpiadi della nuova era, del 1892. Da lì è nata questa costola che avevamo definito Banda Maulera che ha fatto anche apparizioni all'estero come banda di strada ed è stato molto divertente.

Anche Fabio ha scritto canzoni per alcuni film italiani ultimamente?

Luca Morini: Si, ha scritto canzoni per parecchi film e da questo progetto sono poi stati pubblicati due dischi.

Parlaci invece del tuo album da solista.Luca Morini: Io ho puntato molto di più sulla parte letteraria e quindi ne è uscito il libro Mistic Turistic, un progetto molto obliquo, perché c'erano basi di musica elettronica mentre io facevo reading di vari racconti e da questo ne è venuto fuori anche uno spettacolo che ha girato per l'Italia e per altro l'unico video di reading tutt'ora mai pubblicato e trasmesso su Mtv che è un canale prettamente musicale.

Pensa che nemmeno Lou Reed che leggeva e reinterpretava passi di Edgar Allan Poe per il suo album da solista Raven è mai stato trasmesso. A proposito di testi che tu scrivi, nelle canzoni Qualcuno verrà da te e Cannibal del vostro ultimo album ci sono accenni alla situazione politica italiana, ma senza slogan diretti. Qualcosa da dire a proposito?

Luca Morini: Noi abbiamo sempre come linea cercato di evitare lo slogan un po' terra terra. Gli aspetti sociali e politici dell'ultimo anno in questa nazione hanno interferito non poco con la composizione dell'album. Poi in alcuni pezzi, quelli che hai citato sono tra i più evidenti, c'è una presa di posizione abbastanza chiara. Poi io non amo lo slogan perché è troppo di facile presa, preferisco lavorare sulla musica, pretendo una lettura più approfondita dei testi. Detto tutto questo, comunque in Qualcuno verrà da te c'è forse l'unico slogan di tutto l'album che è “la legge non è uguale per tutti”.

Cannibal invece è una macchietta nata un po' da quella visione delle barzellette, dove c'è la classica coppia di esploratori che si trovano nel pentolone dei cannibali, pronti per essere mangiati. Giocare sull'associazione in cui noi siamo i due esploratori nella pentola con l'acqua che sta per iniziare a bollire era molto divertente e facilmente interpretabile in chiave politica attuale.

A proposito di politica volevo sapere cosa pensi della musica peer 2 peer, scaricabile da internet gratuitamente e del problema sui diritti d’autore? Siete d’accordo con l’idea di una legge repressiva come quelle appena approvate in Francia e Germania?

Luca Morini: Non so nello specifico in cosa consistono queste leggi. E' un tema molto delicato. Ovviamente siccome la tecnologia consente tutta una serie di attività io credo che la strada della repressione di questa pratica sia una presa di posizione sbagliata. Ha molto più senso prendere atto del fatto che questa sia una nuova modalità per poter usufruire della musica così come delle immagini e lavorare preso questo come punto di riferimento, come punto di partenza e non cercando di andare contro corrente, perché tanto questa è ormai la linea: chiunque può scaricare musica dalla rete e io lo trovo un ottimo modo per venire a conoscenza di un sacco di roba che altrimenti non si avrebbe l'occasione di conoscere.

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Lou Reed, direttore d’orchestra rock https://www.threemonkeysonline.com/it/lou-reed-direttore-dorchestra-rock/ https://www.threemonkeysonline.com/it/lou-reed-direttore-dorchestra-rock/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/lou-reed-direttore-dorchestra-rock/ “I dreamed I was the president of these United States…” questo è l’incipit di The day John Kennedy Died, terza canzone della scaletta del concerto che Lou Reed ha tenuto lo scorso lunedì 27 febbraio a Milano. Parole sulle quali il pubblico variegato (spaziava da sessantenni vestiti con cinture chiodate e jeans strappati a giovani […]

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“I dreamed I was the president of these United States…” questo è l’incipit di The day John Kennedy Died, terza canzone della scaletta del concerto che Lou Reed ha tenuto lo scorso lunedì 27 febbraio a Milano. Parole sulle quali il pubblico variegato (spaziava da sessantenni vestiti con cinture chiodate e jeans strappati a giovani dall’aspetto innocente che non erano probabilmente ancora nati quando usciva uno degli album più significativi dell’era rock, Transformer) del teatro Ventaglio ha letteralmente osannato il cantante.

Sembrava quasi che avessero realizzato solo in quel momento chi si trovavano davanti sul palco. Già, il palco di un teatro, l’ambiente dove meno mi sarei mai immaginato di trovare Lou Reed e la sua band. E invece si è rivelato essere il suo habitat ideale, l’arena perfetta da dove poter dirigere con gesti e voce la sua musica composta di poesia, bassi e alti, ritmo cadenzato, ma anche tante improvvisazioni e assoli. Lo cercavano spesso le luci del teatro e insieme a loro gli occhi dei presenti, come se la sua esibizione potesse essere l’ultima, una sorta di canto del cigno.

Ma l’ormai sessantaquattrenne ha invece a più riprese dimostrato di avere ancora l’energia di un tempo. Quando, tornato in scena per concedere un bis, iniziava a suonare quei tre accordi memorabili composti al tempo dei Velvet Underground e intonava quelle magiche parole “Standing on the corner, suitcase in my hand…. sweet Jane”, ci faceva tornare indietro ai tempi della sua gioventù. Mentre precedentemente, con una selezione di pezzi inediti o meno famosi, ci aveva fatto partecipe delle sue esperienze di vita, del suo viaggio nella musica, dal punk al glam, passando per il rock puro e l’improvvisazione jazz.

Il risultato è stata una miscela di pezzi veloci (Street Hassle su tutti), rivisitazioni di canzoni più datate come Red Joystick e ballate melodiche (Who Am I e Tell It to Your Heart), entrambe accompagnate dalla voce acuta e soave del fedele e bravissimo bassista-corista Fernando Saunders, che non ha fatto rimpiangere la Nico del tempo dei Velvet Underground. Se il contrabbassista Rob Wasserman riusciva invece nell’intento di ricreare atmosfere lugubri col solo uso dei polpastrelli, il batterista Tony ‘Thunder‘ Smith (l’ultimo arrivato alla corte della band diretta da Reed) si impegnava a rendere impossibile la staticità dei corpi di chi, come me, aveva deciso di godersi lo spettacolo in piedi, se non altro per omaggiare l’icona.

I commenti finali all’uscita del teatro di chi non era già corso ad acquistare magliette con stampate le foto del rocker di Long Island o il logo della sua prima famosa band il cui titolo venne preso da quello di un libro giallo trovato per caso nella spazzatura, sono stati discordanti. C’era chi aveva sperato in una performance più lunga, chi magari di rivederlo truccato o con gli occhali da sole a coprirgli le rughe, forse per avere almeno l’illusione di tornare a quei fantastici (per il glam-rock) anni ’70, chi si era immaginato una selezione delle canzoni più famose. Ma questo è il concerto come l’aveva inteso lui, Lewis Firbank Reed, questo è il messaggio che ci voleva dare: “It’s just a perfect day”. Quello a cui avevamo appena assistito era stata l’espressione di quello che aveva dentro, di quello che voleva trasmettere il ragazzo sessantaquattrenne di adesso. I fans più attenti lo hanno capito.


www.LouReed.org

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Pinter, tra tradizione realista e teatro dell'assurdo https://www.threemonkeysonline.com/it/pinter-tra-tradizione-realista-e-teatro-dellassurdo/ https://www.threemonkeysonline.com/it/pinter-tra-tradizione-realista-e-teatro-dellassurdo/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/pinter-tra-tradizione-realista-e-teatro-dellassurdo/ “Nelle sue opere svela il baratro nascosto sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe ad entrare nelle chiuse stanze dell'oppressione”, questa la motivazione dell'Accademia di Svezia al conferimento del nobel per la letteratura del 2005. Parole perfette per descrivere in due righe l'opera del drammaturgo inglese di origine ebrea Harold Pinter. Nato in uno […]

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“Nelle sue opere svela il baratro nascosto sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe ad entrare nelle chiuse stanze dell'oppressione”, questa la motivazione dell'Accademia di Svezia al conferimento del nobel per la letteratura del 2005. Parole perfette per descrivere in due righe l'opera del drammaturgo inglese di origine ebrea Harold Pinter.
Nato in uno dei quartieri più poveri e malfamati di Londra, Hackney, il più grande merito dell'autore è stato quello di essere riuscito nell'intento di rappresentare in modo rivelatore, lancinante, quello che spesso si tende a non voler mostrare o che per comodità si preferisce addirittura non accettare. Le sue opere descrivono infatti il mondo contemporaneo come un mondo dove gli esseri umani sono costretti a combattere ogni giorno contro problemi sociali quali incomunicabilità, ingiustizia, violenza e si ritrovano di conseguenza rinchiusi nelle 'stanze dell'oppressione'.
Questa è la forza delle sue opere. Partire da storie comuni di individui inglesi, reietti della società o borghesi alto-locati che siano, dalla trama talvolta insulsa e senza soluzione, apparentemente così lontane dalla vita reale, che finiscono invece per suscitare nello spettatore la sensazione amara di avere davanti a sé proprio il mondo reale di cui fa parte, quella stessa stanza in cui è rinchiuso. Una riproduzione talmente fedele da lasciare attoniti.

Per farlo Pinter usa uno stile tutto suo che potremmo metaforicamente considerare come un ponte che collega due luoghi lontani, due modi di fare teatro completamente distinti tra loro: quello realista di Chechov e quello surreale di Beckett.
Di certo ai critici che erano presenti alla prima di The Birthday Party, messo in scena per la prima volta nel 1958, – “Cosa significa tutto questo solo il signor Pinter lo sa.” 1 – il termine 'realista', associato all'autore dell'opera che avevano appena visto rappresentata sul palco, sarebbe sembrato quanto mai inappropriato. I critici hanno infatti sempre associato il teatro pinteriano degli esordi a quello dei grandi maestri dell'assurdo, da Ionesco a Genet fino a Beckett2. “Alcuni elementi isolati delle sue opere sono profondamente realistici, ma la combinazione risultante è totalmente assurda.”3 Sebbene nelle opere di Pinter si alternino dialoghi surreali, pause e silenzi, che servono a rappresentare un mondo in cui presente e passato convivono, con un metodo (vedi The Room, Dumbwaiter, Silence) molto vicino a quello di Samuel Beckett, il tipo di interesse sociale che Pinter propone, specialmente nella rivelazione e psiche dei suoi personaggi, attraverso soventi monologhi, è molto vicino alla tradizione del diciannovesimo secolo, quella di Ibsen e Chechov. Beckett rifiutava qualsiasi convenzione naturalistica, a suo modo di vedere incapace di descrivere il mondo contemporaneo, mentre Pinter ne fa largo uso, fissando spesso l’attenzione sul subtesto, i così detti 'lapsus Freudiani', su ripetizioni convulsive, sulla nostalgia e i misteri della memoria che si vanno a intersecare con la storia presente. Questo tradisce i personaggi e perciò il pubblico è immerso nella lettura delle loro personalità, del loro passato, domandandosi allo stesso tempo cosa accadrà nel loro futuro con una curiosità che sarebbe inappropriata per personaggi beckettiani quali Estragon (Waiting for Godot) o Hamm (Endgame).

'Pinter's Nobel lecture', la ricerca della verità

Tuttavia il 7 dicembre a Stoccolma, durante la nobel lecture di rito in cui l'Accademia di Svezia concede 45 minuti ai premiati, Pinter non ha parlato per nulla di Beckett o Chechov, bensì, ha preferito occuparsi di argomenti di stretta attualità politica, piuttosto che del suo teatro. Ha sì iniziato cercando di definire il teatro, inteso come ricerca della verità, spesso elusiva, una verità che ogni spettatore, ma anche semplicemente essere umano in quanto cittadino, dovrebbe ricercare, “Tuttavia come ho detto, la ricerca della verità non deve mai fermarsi. Non può essere rinviata o rimanandata. Va affrontata proprio là, nel suo punto cruciale.”, per poi allargare tuttavia il discorso alla verità in senso lato che, secondo il drammaturgo inglese, raramente possiamo incontrare nel linguaggio politico, in quanto la maggior parte degli uomini politici non è interessata alla verità, bensì a mantenere il potere e per farlo ha bisogno che il popolo rimanga nell'ignoranza. Da lì è poi stato facile e scontato collegarsi alla recente invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti.

Dopo essersi soffermato nuovamente sui suoi plays, cercando di spiegare che, se essi sono pieni di incomunicabilità, assurdità e violenza, è proprio perché così si presenta la vita di tutti i giorni, ha in seguito fatto uso degli stessi aggettivi per descrivere la politica estera degli Stati Uniti d’America dalla seconda guerra mondiale ad oggi, citando i casi di Indonesia, Grecia, Uruguay, Brasile, Paraguay, Haiti, Turchia, Filippine, Guatemala, El Salvador e quello, più tristemente famoso, del Cile. Usando l'esempio del suo dramma Mountain Language che fa riferimento alle vicende del popolo curdo e che, insieme all'opera di denuncia sociale The Hothouse, potremmo definire tra le opere pinteriane più palesemente politicizzate, arriva quindi a citare e condannare gli episodi di tortura di Abu Ghraib (Iraq) e Guantanamo (Cuba).

Dopo aver lasciato spazio alla forza delle parole della poesia di Pablo Neruda I'm Explaining a Few Things, poesia sugli omicidi di civili occorsi durante la guerra civile di Spagna, e del suo stesso componimento in versi Death, ha poi concluso la nobel lecture usando una bellissima metafora dello specchio e dell'artista: “Quando ci guardiamo allo specchio pensiamo che l'immagine che ci riflette sia accurata. Stiamo in realtà guardando una serie infinita di riflessi. Tuttavia a volte lo scrittore deve rompere lo specchio, perché è dall'altra parte di quello specchio che la verità si rivela a noi”. Una sorta di esortazione a rompere anche noi quello specchio di riflessi, mezze verità o illusioni, sperando di trovarvi dietro la verità e uscire così dalla stanza chiusa dell'oppressione.

Note:

Manchester Guardian Review, 20 maggio 1958.
Martin Esslin fu il primo con il suo saggio Godot and his children: The theatre of Beckett and Pinter.
V.E. Amend, “Pinter – some credits and debits” in Modern Drama 10, 1967.


Il testo originale della nobel lecture

Il video della nobel lecture

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