Crash – Contatto Fisico

Un titolo infelice e fuorviante (che rimanda all'omonimo e trascurabile film di Cronenberg di alcuni anni fa) per un intenso, splendido film che si richiama invece di più ad America Oggi di Altman per la trama e a Magnolia per l'atmosfera.

Il regista all'esordio è Paul Haggins (già sceneggiatore canadese candidato all’Oscar per Million Dollar Baby) che si dimostra fine osservatore, attento e non banale.
Non è facile descrivere il film senza entrare nel merito dei singoli episodi (rovinando in tal modo la visione): non possiede una vera trama, né veri protagonisti. Matt Dillon (tenero angelo in privato e viscido demone in pubblico, che tuttavia saprà riscattarsi) e Sandra Bullock (ricca moglie wasp, razzista e xenofoba … ma si ricrederà) non hanno un ruolo più importante degli altri attori sconosciuti.
Il film descrive una serie di persone che incrociano i propri destini quotidiani in una schizofrenica Los Angeles che mescola ciò che rimane del sogno americano con gli inferni delle periferie senza speranza, rivelando tra le righe le ipocrisie e le insensatezze dell'american way of life.

E' un film contro i luoghi comuni, contro gli stereotipi, contro l'idea che nella vita quotidiana esistano, ben distinguibili, i buoni e i cattivi. Bastano 36 ore per farci capire quanto sia sottile la linea che separa il bene dal male. Impariamo che il giovane poliziotto 'buono' può diventare, suo malgrado, un freddo killer e quello 'cattivo' (che in realtà tanto cattivo fin dall'inizio non è) un angelo salvifico; vediamo come è possibile arrivare al bene facendo il male e commettere il male perseguendo il bene.

E' un film soprattutto sulle minoranze etniche: ci ricorda che non basta un aspetto da ispanico tenebroso per fare un criminale, né una divisa da poliziotto per fare una brava persona; ci insegna che l'atteggiamento razzista del bianco nei confronti del nero per quanto disgustoso non lo è mai quanto quello del nero 'arrivato' nei confronti del 'fratello' meno fortunato. Ci insegna che El Salvador, Portorico e Messico non sono la stessa cosa e che non bastano delle fattezze medio-orientali per fare un arabo (ma per rappresentare il personaggio femminile più bello del film, sì!).
E in mezzo alla rabbia, alla violenza e alle assurdità di questo microcosmo impazzito, rimane spazio anche per la favola, delicata e struggente, che permette a una stupenda bambina ispanica, di mantenere gli occhi aperti su un mondo fiabesco senza spalancarglieli alla cruda vita reale.

Insomma è un film tragico ma non completamente pessimista (perché dimostra come la possibilità di redenzione seppure remota e difficile può realizzarsi nei modi più impensati), che lascia lo spettatore con un senso di tristezza ma non gli nega la speranza di un mondo migliore.

Un film che non si può definire realista (perché le singole vicende che si susseguono di per sé assolutamente realistiche non sono, nel loro fitto intrecciarsi) bensì 'veritiero' nel senso che la vita è veramente un susseguirsi di chiaro-scuri, un infinito succedersi di infinite tonalità di grigio in cui non c'è posto per tutto ciò che pretende di essere solo bianco o solo nero.