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Shane Barry – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 Limpido come uno specchio. Intervista a John Banville https://www.threemonkeysonline.com/it/limpido-come-uno-specchio-intervista-a-john-banville/ https://www.threemonkeysonline.com/it/limpido-come-uno-specchio-intervista-a-john-banville/#respond Fri, 01 Apr 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/limpido-come-uno-specchio-intervista-a-john-banville/ Il Mare, il nuovo romanzo di John Banville, ci presenta Max Morden, da poco vedovo, ritornato nel luogo di villeggiatura estivo della sua infanzia.Meditando su frammenti della sua vita di coppia con Anna, Max ricorda anche il legame particolare che aveva instaurato anni prima con la splendida famiglia Grace, il cui status sociale, senza dubbio […]

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Il Mare, il nuovo romanzo di John Banville, ci presenta Max Morden, da poco vedovo, ritornato nel luogo di villeggiatura estivo della sua infanzia.Meditando su frammenti della sua vita di coppia con Anna, Max ricorda anche il legame particolare che aveva instaurato anni prima con la splendida famiglia Grace, il cui status sociale, senza dubbio superiore, è simboleggiato per il giovane Max da una cartina turistica della Francia abbandonata come per caso sotto il vetro posteriore della macchina di gran classe di Carlo Grace. Dapprima la consapevolezza nascente dell’altro sesso è stimolata dalla moglie di Carlo, Connie, ma infine è grazie all’esperienza con le figlie, la precoce Chloe, la muta Myles e Rose – la ragazza alla pari – che Max perde la sua innocenza.

John Banville discute con Shane Barry degli aspetti di Il Mare, così come delle verità eterne per lo scrittore: la morte, la commedia e la recensione.

TMO: In Il Mare, Max Morden sembra in principio un prototipico narratore banvilliano: erudito, solitario, con un segreto da custodire. Ma tuttavia Morden, con la sua disponibilità a condividere la vulnerabilità della sua infanzia e il dolore della sua vita sprecata, si rivela più simpatique di un Freddie Montgomery o di Axel Vandel. I cuori dei suoi personaggi si stanno sbrinando o sono forse ingiusto nei confronti dei suoi precedenti protagonisti?

Banville Sembra che i lettori trovino Max più cordiale e caloroso rispetto ai miei precedenti narratori. Ma credo sia strano perché pensavo che Axel Vander, Vistor Maskell (il cui nome, tra l’altro, non riuscivo a ricordare, e l’ho dovuto cercare proprio ora ne L’Intoccabile – il che la dice lunga a proposito dell’attaccamento di uno scrittore ai propri personaggi) e Freddie Montgomery si trascinavano, seppur miserevolmente, con pathos,–. Forse io non son riuscito a rendere più evidente la tristezza e l’autodifesa di questi personaggi. Con imbarazzo, considero i miei romanzi eccessivamente commoventi e un po’ troppo forti. Ma chi sono io per poter giudicare? I libri sono di dominio pubblico, e non posso più rivendicare, né ho voglia di farlo, il diritto di proprietà su di essi.

TMO: il Mare è un romanzo ossessionato dalla morte. Ciò che mi è saltato in mente leggendo il libro (e Il Mare è un libro creato per suscitare rêverie) è che il romanzo stesso è un genere letterario ossessionato dal tema della morte. Altre forme d’arte non astratte, quali pittura o poesia potrebbero a volte trattare l’argomento della morte, ma non lo affrontano nella stessa misura. Cos’è che induce gli scrittori a parlare di un dato argomento? Oppure, secondo lei, è per di più la forma del romanzo che ne reclama la trattazione?

Banville È un punto di vista interessante che non avevo mai preso in considerazione. Penso che la sua intuizione sia giusta – il romanzo per la sua forma è ossessionato dalla morte. Mi chiedo perché. Se pensiamo a Beckett, naturalmente, si comprende che la voce narrante nel romanzo, anche se in terza persona – o in ultima persona, come piaceva dire a Beckett – prende parte ad un costante blaterare contro l’oscurità che avanza. Ci sono grandi eccezioni nelle altre forme d’arte – Mahler, per esempio, o Munch, ma in realtà il dio che regna nel romanzo è Thanatos.

TMO: Nel romanzo Il Mare è divertente il dark humour, che in parte deriva dalla stanchezza di circostanza del narratore o dall’insofferenza verso il suo compito di descrivere il mondo che lo circonda. Per esempio, durante la visita al consulente dall’inquietante nome diMr. Todd [N.d.T.: Tod in tedesco significa morte], Max osserva il mondo al di là del vetro e vede “.. una quercia, o forse era un faggio, non sono mai sicuro di quegli alberi a foglie caduche, sicuramente non è un olmo dal momento che sono tutti morti…”

Ciò che voglio dire con tali digressioni è che il narratore tradizionale onnisciente, la nostra guida nel romanzo del 19° secolo, adesso sembra assurdo. Ciò che è vagamente appropriato è la voce in prima persona, una voce che è costretta a filtrare il mondo perché c’è semplicemente troppo sapere dietro di esso. Lei è d’accordo?

Banville Bene, ciò che si nasconde dietro queste digressioni è il voler provocare una risata, o almeno un sorriso malinconico. Lei ha sostenuto che il romanzo è ossessionato dalla morte; io direi che è una forma comica, in fondo come la vita stessa, la quale sembra un viaggio comico con irruzioni occasionali del tragico. Capisco cosa intende riguardo al narratore onnisciente del 19° secolo, ma sento sempre più che ci siamo ingannati con i nostri atteggiamenti condiscendenti verso i grandi Vittoriani. Si pensi al Grand Narrator onnisciente di Thackeray, o Tolstoy e la sua insofferenza verso la narrativa pura e semplice. Post-modernisti ante litteram.

TMO: Per quanto riguarda lo stile, che ogni critico sembra obbligato a menzionare quando si parla delle sue opere, vorrei proporle una citazione abbastanza celebre di Cyril Connolly, un personaggio che lei ha preso in considerazione in diverse recensioni. È tratta da I nemici dei giovani talenti, nel quale, come lei sa, l’autore procede con una divisione giustamente arbitraria degli scrittori in vernacolari e mandarini:

“Lo stile mandarino […] è amato da coloro che renderebbero la parola scritta il più diversa possibile da quella orale. È lo stile di quegli scrittori che cercano di trasmettere attraverso il linguaggio qualcosa in più rispetto a ciò che pensano o che sentono.”

Qual è il suo punto di vista su questa dichiarazione alla luce del suo stesso lavoro, che secondo molti potrebbe appartenere alla tradizione mandarina?

Banville In primis, mi auguro di non dare l’impressione di voler rendere le parole scritte il più possibile diverse da quelle pronunciate. Infatti il mio stile mi dà l’idea di una forma di retorica interna, un canto ritmico che è molto simile al modo in cui parliamo nella nostra testa. E non cerco neanche di trasmettere attraverso il linguaggio più di quanto le mie voci narranti pensino o sentano. Il mio obiettivo è scrivere in un stile chiaro e diretto, e posso ben dire, sfacciatamente, di aver un certo successo a riguardo. Non c’è una frase nei miei lavori, che a livello sintattico, grammaticale e lessicale, che non possa esser capita da un bambino di otto anni munito di dizionario. Non mi aspetto che un bambino capti le sfumature di significato e la suggestione che le frasi evocano, ma tento di renderle limpide come uno specchio, con tutte le ambiguità che ciò implica. E poi, l’abito dei mandarini mi renderebbe goffo.

TMO: In una recensione a Il Mare, nel giornale Prospect, il suo collega dell’ Irish Times, Fintan O’Toole, sembra sostenere che il suo desiderio di evitare temi su stereotipi irlandesi faccia di lei “uno scrittore irlandese riconoscibile“.

Eppure Il Mare, così come gli altri suoi romanzi che ho letto, sembra profondamente consapevole del losco (evidente) segreto della vita irlandese: la classe sociale. Il giovane Max Morden descrive la sua arrampicata in una società meschina, nel luogo di villeggiatura estivo, come “l’arrampicarsi su una ziggurat”. La classe sociale non è tanto un incubo dal quale Morden vorrebbe sveglia
rsi – è dallo status di piccolo borghese che vorrebbe scappare. C’è qualche fondatezza a questa interpretazione?

Banville Credo di sì. Il Mare ha qualcosa da dire riguardo alle classi sociali ma non in modo socio-critico. Il divario tra il mondo dei Grace ed i genitori di Max è destinato semplicemente ad aumentare l’intensità dell’amore del giovane Max per Connie e poi per Chloe, e non vuol in alcun modo criticare le realtà della vita irlandese. Credo di essere uno scrittore irlandese riconoscibile perché scrivo in hiberno-english, un patois letterario che trovo profondamente ricco nella sua ambiguità poetica.

TMO: Un personaggio in Punto contro punto di Aldous Huxley, che svolge la professione vaga del giornalismo letterario, pensa che “un cattivo libro richiede tanto lavoro per esser scritto quanto un buon libro; deriva direttamente dall’anima dell’autore”. Data la sua esauriente recensione ed il recente trambusto sulla sua affermazione negativa riguardo a Sabato di Ian McEwan, quanto ricorda delle fatiche del romanziere quando esprime la sua opinione?

Banville Ricordo la frase di Huxley – Cyril Connolly fa spesso la stessa osservazione – e sono d’accordo con lui. Come ho sottolineato nella mia recensione a Sabato , non ho provato alcun piacere nel dare il mio giudizio sul libro. Sono più che consapevole del lavoro che si svolge e spesso dell’angoscia che si prova quando si scrive un romanzo, e non è mia intenzione scartare con leggerezza qualsivoglia sforzo, pur se minimo, nel genere – e qualunque cosa sia stata detta in quella recensione non è stata scritta alla leggera. Mi fa male criticare il lavoro di un collega, sebbene non abbia dubbi che McEwan si consideri un mio collega unicamente da un punto di vista tecnico. A volte comunque, bisogna dire forte e chiaro ciò che si pensa. Il romanzo viene preso sempre meno sul serio oggigiorno, e qualcuno deve pur prendersi cura di tale povero vecchio mezzo di comunicazione.

TMO: Per finire, chi stima tra i suoi pari nell’industria della narrativa?

Banville È sempre una domanda antipatica. Risponderò al condizionale. Penso che la morte prematura di W.G. Sebalt sia stata un disastro per la letteratura. Stava facendo qualcosa di assolutamente nuovo, creando una sintesi del romanzo – intesi tutti i giochi di parole – e credo che avrebbe fatto prodigi se non fosse morto. La sua morte è l’evento più significativo per la letteratura contemporanea.

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Non lasciarmi, di Kazuo Ishiguro https://www.threemonkeysonline.com/it/non-lasciarmi-di-kazuo-ishiguro/ https://www.threemonkeysonline.com/it/non-lasciarmi-di-kazuo-ishiguro/#respond Mon, 01 Nov 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/non-lasciarmi-di-kazuo-ishiguro/ “Mi chiamo Kathy H.”. La frase d'apertura dell'ultimo romanzo di Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi, rende il tono e presagisce il tema di quest'opera incrinata ma costantemente sconvolgente. Da un lato la voce del narratore è colloquiale, aperta alla chiacchierata informale col lettore, dall'altro c'è qualcosa di sinistro in quel cognome amputato, che porta alla mente […]

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“Mi chiamo Kathy H.”. La frase d'apertura dell'ultimo romanzo di Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi, rende il tono e presagisce il tema di quest'opera incrinata ma costantemente sconvolgente. Da un lato la voce del narratore è colloquiale, aperta alla chiacchierata informale col lettore, dall'altro c'è qualcosa di sinistro in quel cognome amputato, che porta alla mente i travagli di Joseph K. di Kafka. Il riferimento non è nemmeno così lontano dal segno. Nei suoi lavori precedenti, specialmente ne Gli Inconsolabili del '95, Ishiguro ha adottato quello che potrebbe vedersi come il marchio kafkiano di un distaccato senso dell'orrido. Se ad esempio pensiamo a quel piccolo capolavoro che è Nella Colonia Penale (in cui un direttore illustra orgoglioso il funzionamento di un sofisticato congegno di tortura), il disagio che la storia causa nel lettore può essere ricondotto meno alla spiegazione di come il corpo umano venga tormentato dalla macchina, e più al fatto che il comandante non riesca a vedere quel che c'è di terrificante nella situazione.

E' una simile indifferenza, o una distorsione nel riconoscere qualcosa di fondamentalmente sbagliato, che regge la storia di Kathy. Ad uno sguardo di superficie, la protagonista rievoca dal presente (sul finire degli anni '90) le amicizie e le abitudini che le sembravano fondamentali quando frequentava Hailsham, un collegio misto situato da qualche parte nella campagna inglese. Tuttavia, inframmezzato ai suoi ricordi degli anni '70 delle chiacchierate al buio con le altre ragazze, dei portamatite colorati, delle litigate con la sua migliore amica, e di un fanatismo per una certa Miss Geraldine, ritroviamo un costante stillicidio del terrore. Come la parola “donazioni”, che salta continuamente fuori. O rigorose visite mediche che vengono effettuate ogni settimana. E il fumo è tabù al punto tale che le fotografie di persone con le sigarette sono tagliate via dai libri. E gli insegnanti non sono solo insegnanti, ma “tutori”: il titolo è appropriato perché gli alunni di Hailsham sembrano non avere genitori. Infatti, come gradualmente si palesa nel lettore, per Kathy, Ruth, Tommy e il resto dei bambini, Hailsham è il loro mondo.

Ishiguro potrebbe essere accusato di stuzzicarci eccessivamente, poiché è con estrema cautela che toglie via gli strati di finzione che nascondono l'oscurità del nucleo di Hailsham.La storia di Kathy H. è interrotta – qualcuno potrebbe dire che la sua storia è soprattutto interruzione – pressoché ad ogni pagina, da esitazioni, ricapitolazioni e reintroduzioni.Ad esempio, un passaggio come questo presenta un contenuto informazionale piuttosto basso:

“E' pur possibile che io abbia cominciato a comprendere, proprio allora, la natura delle sue preoccupazioni e frustrazioni. Ma magari sto andando troppo lontano; è probabile che all'epoca abbia notato tutte quelle cose senza sapere che diavolo farmene. E se tutti questi episodi ora sembrano significativi e coerenti, è forse perché li sto guardando alla luce di ciò che è avvenuto in seguito […]”.

Alcuni critici hanno accusato Ishiguro di riempire, allungare un convenzionale soggetto di fantascienza per farlo divenire romanzo. Ma l'esperienza di leggerlo comporta qualcosa di più profondo. E' come se il frammentato racconto di Kathy H. riflettesse il modo in cui abbia raggiunto la riluttante (e parziale) consapevolezza di un sistema, di un perverso sistema di valori che in precedenza aveva dato per scontato. Come qualcuno che è cresciuto in un macello, Kathy non è di certo in sintonia con il triste lamento delle creature che devono essere uccise. In questo caso, comunque, l'osservatore e la vittima coincidono: Hailsham, con tutte le sue pretese di decoro della scuola pubblica, è di fatto un tipo di anticamera al mattatoio. Il posto è una menzogna.

Ma Kathy e i suoi amici sembrerebbero accettare il loro destino con la docilità del bestiame. Certo altri lettori saranno esasperati da questa apparente mancanza di attendibilità. Perché non si ribellano, non scappano, o addirittura non uccidono i responsabili? Almeno su un piano, Ishiguro aderisce al realismo. Per giungere a un tema che fluttua ai margini del libro, l'Olocausto, bisogna ricordare l'impenetrabile questione del perché in tanti siano saliti sui treni con così sottomessa obbedienza. Infine, la passività dei personaggi di Ishiguro è aderente allo strano mondo kafkiano che egli ricrea. E' un mondo in cui gli ospedali che uccidono i cloni fanno parte del paesaggio quanto i grandi magazzini e i distributori di benzina dell'autostrada. La loro esistenza è semplicemente un dato.

E' solo alla fine del libro che questo mondo ermetico si disgrega. Dandoci una spiegazione di Hailsham, e del sistema di cui è parte, l'autore paradossalmente li rende meno plausibili.

Ma mentre Kathy comincia ad accettare a malavoglia le disgustose implicazioni del ruolo per cui lei e i suoi amici sono venuti al mondo, alcune domande più profonde, di natura esistenziale potrebbero ribollire nella coscienza del lettore. Hailsham ha cresciuto questi bambini perché diventassero adulti intelligenti e beneducati. Ha concesso loro il tempo di farsi delle amicizie, addirittura di innamorarsi. Qual era il punto di tutto quello, chiede Kathy, dato il loro ultimo destino? Fornendoci un resoconto attento di vite il cui scopo principale è finire – nel gergo del libro morire è “completarsi” – Ishiguro ci obbliga a domandare a noi stessi se possa essere mai inutile impegnarsi nella sporca faccenda del vivere, anche se l'estinzione dovesse metterci una pietra sopra.

Non lasciarmi, di Kazuo Ishiguro – Ed. Einaudi – pp. 296 – Euro 17,50

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