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Michael Keyes – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 Restaurazione e Invenzione: Il ruolo del linguaggio nell'invenzione della nazione irlandese e norvegese https://www.threemonkeysonline.com/it/restaurazione-e-invenzione-il-ruolo-del-linguaggio-nellinvenzione-della-nazione-irlandese-e-norvegese/ https://www.threemonkeysonline.com/it/restaurazione-e-invenzione-il-ruolo-del-linguaggio-nellinvenzione-della-nazione-irlandese-e-norvegese/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/restaurazione-e-invenzione-il-ruolo-del-linguaggio-nellinvenzione-della-nazione-irlandese-e-norvegese/ Le nazioni non sono un fenomeno completamente nuovo. Il concetto di nazione irlandese e norvegese risale infatti al medioevo. Ciò che però costituisce una novità è il riconoscimento, da parte della popolazione in generale, di appartenere alla Nazione. L’essere umano è un animale sociale e, da tempi antichissimi, si è sempre definito come X, figlio […]

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Le nazioni non sono un fenomeno completamente nuovo. Il concetto di nazione irlandese e norvegese risale infatti al medioevo. Ciò che però costituisce una novità è il riconoscimento, da parte della popolazione in generale, di appartenere alla Nazione. L’essere umano è un animale sociale e, da tempi antichissimi, si è sempre definito come X, figlio di Y, originario di Z. All’alba dell’era moderna, questo innato senso della comunità ebbe la sua massima espressione nell’attaccamento al luogo di nascita e nella fedeltà al signore locale. La nascita dello stato moderno vide però l’allargarsi, dal locale al nazionale, di questi orizzonti. Stando a questi parametri la nazione divenne, secondo le parole di Benedict Anderson, una “comunità immaginata”1 poiché i suoi membri, pur non conoscendosi personalmente, condividevano un senso di appartenenza alla stessa comunità. Similmente ad un’altra grande comunità immaginata, la religione, la devozione alla nazione deve essere sostenuta dalla convinzione che tutti i membri sono uniti da uno stesso legame. La selezione e la promozione di ciò che è destinato a diventare un legame comune è quel che si potrebbe definire l’invenzione della nazione. Le persone hanno sostenuto la causa del nazionalismo sotto una varietà di bandiere: una terra comune, religione, etnia, storia e anche un linguaggio condiviso. In certi casi alcuni di questi elementi sono considerati prerequisiti dell’appartenenza ad una nazione mentre altri rinforzano il legame comune. Nel caso di Irlanda e Norvegia la lingua nazionale non fu un prerequisito di appartenenza alla nazione in quanto, in entrambi i paesi, essa era stata soppiantata dalla lingua del paese confinante e dominante. Alla lingua nazionale non era richiesto di rappresentare un comune veicolo per trasmettere il messaggio del nazionalismo, in quanto questa esigenza era già soddisfatta rispettivamente dagli inglesi e dai danesi. In entrambi i paesi però la lingua si dimostrò una forza potente nella genesi della nazione e fu utilizzata come strumento politico per spingere Irlanda e Norvegia all’indipendenza. Se si considera il fatto che il processo avvenne con modalità diverse nei due paesi si comprende come il nazionalismo possa assumere forme diverse, dando una minore o una maggiore enfasi ai vari fattori, a seconda dei paesi. La seguente disamina rivelerà inoltre i parallelismi esistenti tra i due nazionalismi e come essi sono stati vissuti nei due paesi. Si vedrà come i principi del nazionalismo culturale furono acquisiti dalla medesima fonte e che benché, tali principi furono applicati in modo diverso, il nazionalismo culturale ebbe il medesimo sviluppo in entrambi i paesi. La politicizzazione della questione della lingua ebbe infatti a che fare tanto con la competizione per il potere quanto con l’aspirazione ad un’identità irlandese e norvegese. Se la nazione è la comunità ideale, si può affermare che il nazionalismo divenne l’arte di indurre le persone ad immaginarla secondo determinati criteri. Uno sguardo al linguaggio post indipendenza è altrettanto illuminante. In entrambi i paesi esisteva una situazione paradossale in cui la lotta, che pretendeva di affermare l’essenza della nazionalità e l’esistenza di una lingua nazionale che accomunasse i cittadini di una nazione, divenne invece il motivo principale di una divisione che perdura tuttora.

In Germania, le idee di Herder e Fichte ispirarono un senso nazionale di autostima, che cominciò a diffondersi negli anni che seguirono l’occupazione francese agli inizi del XIX secolo. Questo crescente senso di identità nazionale si basava quasi esclusivamente sul possesso di una lingua comune. Herder scrisse che “senza una sua lingua un Volk (popolo) è un’idea assurda, una contraddizione in termini”. Che il nazionalismo tedesco si basasse sulla lingua non deve sorprendere poiché essa era l’unico comune denominatore in un insieme di stati altrimenti frammentario. Questo nazionalismo culturale basato sul linguaggio si diffuse dalla Germania al resto d’Europa e, se la questione della lingua fu fondamentale nella nascita della nazione tedesca, si impose decisamente anche in paesi come l’Irlanda, dove la lingua nazionale era quella della minoranza, e come la Norvegia, dove di essa non era rimasta traccia.

Tra coloro che aderirono a questo movimento vi fu la corrente del romanticismo che costituì una potente forza trainante di grande impatto emotivo. La nazione era considerata qualcosa di primordiale dal passato glorioso, la cui storia si dipanava nei secoli in progressione teleologica verso una nuova grandezza. Il passato veniva attentamente rivisitato alla ricerca di miti e saghe e le nazioni si inventarono un passato glorioso ed eroico dove la lingua costituiva un legame mai interrotto con quel passato. Romantico, eroico e glorioso questo concetto di nazionalismo ispirava poeti e patrioti e spingeva le persone a combattere e morire per l’ideale di patria. Non prese però questa direzione se non quando si trovò al centro della scena politica. In Norvegia e in Irlanda, il problema della lingua assunse connotazioni politiche in misura diversa sia per quanto riguarda la collocazione temporale che l’intensità, ma si può affermare che, in entrambi i casi, essa fu influenzata dallo sviluppo dei partiti politici e costituì un passo avanti verso un tipo di nazionalismo più esclusivo.

In Irlanda il nazionalismo culturale di ispirazione herderiana emerse in un’epoca dominata dal nazionalismo culturale di Daniel O’Connell. O’Connell aveva fondato un movimento nazional-popolare, celandolo dietro la sua campagna per l’emancipazione cattolica. Era un nazionalismo definito soprattutto dalla sua natura religiosa e, nonostante parlasse correttamente l’irlandese, O’Connell incoraggiò l’uso dell’inglese tra i suoi seguaci2. A partire dal 1831, il sistema scolastico nazionale sostenne la diffusione dell’inglese. Il sistema sfondava però una porta già aperta in quanto, grazie alla situazione economica vigente, l’irlandese era considerato la lingua dei poveri, mentre l’inglese era visto come la lingua delle grandi opportunità3. Era quindi difficile per Thomas Davis riconciliarsi con la realtà irlandese in quanto la sua visione delle cose, ispirata dal continente, sosteneva che “perdere la propria lingua madre e acquisirne una straniera è l’emblema peggiore della vittoria”4. Davis comprese che le passate glorie irlandesi, incluse quelle della lingua, potevano essere efficacemente diffuse tramite le pagine del The Nation, in inglese. Dopo la carestia, la lingua irlandese aveva subito un declino tale che il suo principale interesse divenne quello di difendere coloro che erano interessati alla sua conservazione, in contrapposizione al suo ripristino. La lingua aveva un ruolo minore in politica poiché il nazionalismo si concentrava sulla questione della terra e divenne una significativa entità politica a sostegno di Parnell e del partito parlamentare irlandese. Grazie all’aiuto di Gladstone a Westminster tutto faceva pensare che il nazionalismo costituzionale, reso cattolico da O’Connell, connesso alla lotta per la terra da Parnell, e divenuto anglofono e conservatore allo stesso tempo, si sarebbe imposto. L’unico problema del nazionalismo costituzionale era che il suo successo era costruito sulla promozione degli interessi dell’Irlanda cattolica e dal nord est sarebbe presto fatta sentire una voce, fino a quel momento ignorata, che intendeva impedire questo processo. Il veto unionista/conservatore d
ella Home Rule (N.d.T.: per Home Rule si intende il maggior potere decisionale concesso all’Irlanda riguardo al modo in cui essa veniva governata, potere che li affrancava dal dominio di Londra e che era teso a placare coloro che volevano una maggiore autodeterminazione per il paese) del 1886 fu la chiave di volta che portò a radicali cambiamenti dello scenario politico che avrebbero visto la lingua irlandese diventare un elemento centrale di una diversa concezione della nazione.

Mentre per tutto il XIX secolo l’uso della lingua irlandese fu limitato ai margini del nazionalismo, la situazione in Norvegia non era altrettanto definita. Dopo le guerre napoleoniche, la Norvegia, sotto il dominio della Danimarca dal 1397, venne annessa alla Svezia. La Norvegia si oppose e venne varata una Costituzione indipendente ma, dopo brevi ostilità, fu costretta ad accettare l’annessione alla Svezia. Le fu tuttavia concesso di mantenere la propria Costituzione e, con essa, buona parte della propria indipendenza5. Grazie all’improvvisa separazione dalla Danimarca, lo stato norvegese, che era stato represso per quattrocento anni, tornò ad esistere. Ma se non fosse nata una nazione norvegese ad affiancarlo, la recente indipendenza avrebbe potuto essere messa in discussione dagli svedesi. L’esigenza di una tempestiva reinvenzione della nazione coincise con l’affermarsi in Europa del nazionalismo di ispirazione romantica e molti norvegesi furono aderirono agli ideali tedeschi. Uno di essi fu il poeta Henrik Wergeland (1807-1845), il quale affermò:

“La Norvegia non deve più rimanere una provincia culturale della Danimarca. Se i norvegesi perderanno la fiducia in se stessi e nel loro futuro in ambito culturale la Norvegia non godrà più dei benefici dell’indipendenza politica.”6

La questione della lingua norvegese divenne motivo di grande interesse. Il vecchio norvegese aveva cominciato ad essere soppiantato dal danese in seguito all’annessione alla Danimarca avvenuta nel 1397 e, ai tempi della Riforma, grazie all’introduzione in Norvegia della Bibbia scritta in danese, questo processo fu completato. Il desiderio di troncare ogni legame con il passato danese, unito al nazionalismo linguistico di ispirazione tedesca, diede il via ad una riforma della lingua che aveva lo scopo di trasformare il danese parlato in Norvegia in lingua norvegese. In un suo saggio del 1835, intitolato Sulla riforma della lingua norvegese, Wergeland auspicò la necessità di una riforma e di una lingua scritta indipendente ma mise in guardia dal fatto che “la conquista e l’onore di una lingua indipendente” avrebbe portato la Norvegia ad “una guerra civile letteraria”7. Il danese parlato in Norvegia aveva una pronuncia caratteristica che si distingueva dall’originale. Le differenze tra le due lingue andavano dal danese quasi puro parlato nelle città a quello meno puro delle campagne fino agli oscuri dialetti delle aree più remote. L’approccio tradizionale alla riforma fu capeggiato da Knut Knudsen (1812-1895), la cui era intenzione era quella di prendere quello che lui definiva byfolkets talesprog (la lingua parlata dagli abitanti della città) e introdurre gradualmente e nel tempo un’ortografia più norvegese. Ivar Aasen (1813-1896) adottò un approccio più radicale che considerava i dialetti delle aree più remote non come forme degeneri del danese bensì come residui alterati del vecchio norvegese. La conseguenza fu che emersero due definizioni diverse di norvegese: una più comunemente accettata e conservatrice che cercava solo di dare lustro al danese parlato nelle aree urbane della Norvegia per poi definirlo norvegese; l’altra, più rivoluzionaria nel contenuto, sosteneva che quegli oscuri dialetti costituivano un legame con la vecchia lingua. Utilizzando questi dialetti Aasen ideò un linguaggio completamente nuovo che definì norvegese. Per distinguere tra le due lingue, la versione di Aasen fu chimata Landsmal (lingua delle campagne). Apprezzata da poeti e scrittori sarebbe rimasta poco più che una curiosità linguistica se nel 1880 non fosse stata utilizzata come strumento politico.

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They took all the trees
Put ’em in a tree museum
And they charged the people
A dollar and a half just to see ’em
Don’t it always seem to go
That you don’t know what you’ve got
Till it’s gone
They paved paradise
And put up a parking lot

[Joni Mitchell, Big Yellow Taxi ]

Presero tutti gli alberi
Li misero in un museo
E fecero pagare alla gente
un dollaro e mezzo per vederli
Non sembra sempre che vada a finire
Che non sapevi che cosa avevi
Finché lo hai perduto
Hanno pavimentato il paradiso
E ci hanno fatto sopra un parcheggio

Il concetto di 'selvaggio' è certamente una costruzione culturale. Se, per esempio, si considera il nord della Groenlandia, per gli Inuit è casa, ma per gli europei occidentali è natura selvaggia. L'idea di selvaggio è basata sul presupposto che l'umanità sia separata dalla Natura. E' un'idea che può esistere soltanto in opposizione a qualcos'altro. L'opposto di ciò che è selvaggio è inteso, almeno per quanto riguarda la società occidentale, come quelle porzioni di territorio occupate e controllate dall'uomo. E' il risultato di un processo iniziato quando Platone separò il naturale dall'estetico.

C'è una curiosa triangolazione che collega il modo di produrre di una società, il suo tipo di religione e il suo atteggiamento rispetto al mondo circostante. I cacciatori-raccoglitori, per esempio, vivono in armonia con l'ambiente e i loro culti animisti riflettono quest'armonia. La società occidentale ha cessato da lungo tempo di vivere in armonia con l'ambiente, ciò è riflesso nella tradizione religiosa giudaico-cristiana. Sin dall'inizio le civiltà hanno adattato le loro credenze religiose per giustificare il loro cambiamento di rapporto con l'ambiente. Da quando la società si è sviluppata attraverso la fase agricola, la religione si è evoluta nel politeismo, riflettendo un equilibrio tra l'intervento umano e il bisogno di un intervento divino. Con l'evoluzione nel monoteismo si formò la credenza che la terra fosse creata da Dio per il beneficio dell'umanità. Quando combinata con la razionalità greca, la separazione tra l'umanità e la Natura divenne completa. Ogni connessione tra Natura e divinità fu dissolta con la svolta verso la modernità, svolta basata sulle idee dell'Illuminismo.

In questo modo l'umanità poté giustificare il suo sfrenato sfruttamento dell'ambiente. La Natura divenne una comodità da essere usata e abusata a piacere. Ciò che non era 'umanizzato' era selvaggio, indomato e minaccioso. Durante l'età del progresso, l'imperativo morale era di migliorare la Natura, intromettersi, reprimere il selvaggio per renderlo produttivo. Quelli furono giorni di sviluppo progressivo; congegnando una tecnologia più avanzata, l'umanità fu in grado di usare le risorse naturali 'gratuite' che portarono alla Rivoluzione Industriale e alla conseguente esplosione demografica. La modernità portò con sé un pronunciato dualismo che esasperò il contrasto tra l'umanità e la Natura, tra l'ordine e il caos. A questo stadio, l'attitudine occidentale verso il selvaggio era quasi esclusivamente negativa. La Natura, nel suo stato rozzo, sarebbe stata poco più che un ostacolo all'espansione della popolazione e il suo unico uso sarebbe stato quello di fonte di materie prime. Dopo aver eliminato le foreste e averlo ripulito da orsi e lupi, il territorio poteva essere trasformato in terreno agricolo.

In risposta alla frenesia della modernizzazione, dell'urbanizzazione e di una pura visione materialistica della natura, emerse un'alternativa rappresentata dal Romanticismo. Lo sfruttamento delle risorse provocò un enorme aumento della popolazione che portò ad un conseguente aumento dell'urbanizzazione, dello squallore, dell'inquinamento e della distruzione dell'ambiente naturale. La gente cominciò a realizzare cosa fosse la mancanza di aria pulita, spazio aperto e silenzio e una visione positiva di selvaggio iniziò ad emergere. In America furono fondati i primi parchi naturali allo scopo di preservare ciò che di selvaggio era rimasto. Il fenomeno dei parchi naturali si diffuse sul globo. Sebbene simboleggiassero una valorizzazione dell'ambiente incontaminato e una speranza di conservazione di almeno una parte di esso, i parchi perpetuavano la contrapposizione umanità – Natura. Il contributo dell'approccio conservazionista alla salvaguardia ambientale fu l'idea di creare poche isole protette in un contesto in cui il resto del globo restava comunque non salvaguardato e poteva essere usato e abusato. Come sottolinea John Vidal nel suo articolo, “Il grande mito del selvaggio”, queste aree di selvaggio gestito sono in realtà controverse. La gente è esclusa e l'ecologia è controllata, divenendo così innaturale. Potrebbero ben essere i “musei degli alberi” a cui fa riferimento Joni Mitchell nella sua canzone.

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Sulle tracce del passato – Il dilemma dello Storico. https://www.threemonkeysonline.com/it/sulle-tracce-del-passato-il-dilemma-dello-storico/ https://www.threemonkeysonline.com/it/sulle-tracce-del-passato-il-dilemma-dello-storico/#respond Thu, 01 Jul 2004 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/sulle-tracce-del-passato-il-dilemma-dello-storico/ Gli storici prendono dal passato solo ciò che si addice ai propri fini. La veridicità di questa affermazione contraddistingue probabilmente la maggior parte del percorso della storiografia degli ultimi 2500 anni come pure il maggior numero degli storici che ne sono stati gli artefici. È peraltro lecito obiettare che il lavoro dello storico è proprio […]

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Gli storici prendono dal passato solo ciò che si addice ai propri fini.

La veridicità di questa affermazione contraddistingue probabilmente la maggior parte del percorso della storiografia degli ultimi 2500 anni come pure il maggior numero degli storici che ne sono stati gli artefici.

È peraltro lecito obiettare che il lavoro dello storico è proprio quello di prelevare dal passato ciò che più si addice ai propri fini. Lo storico infatti è necessariamente obbligato ad essere selettivo, in quanto è impossibile ricreare il passato nella sua interezza. Il suo compito è quello di carpire gli indizi disponibili, determinare quelli più affidabili e significativi, per poi fornirne l'interpretazione a beneficio dei lettori. Naturalmente in questo contesto si presenta il problema di quali siano le motivazioni che spingono gli storici ad adottare o ad ignorare determinate testimonianze e quale sia l'interpretazione dei fatti di cui effettivamente si servono. La problematica legata alla selettività e alla soggettività ha acquisito una ragione d'essere soltanto nel diciannovesimo secolo quando Von Ranke affermò che il compito degli storici è quello di raccontare 'come sia realmente successo'. Da allora, il dibattito a cui ha dato vita continua ad imperversare, mentre gli storici si prodigano nel tentativo di definire la natura stessa della Storia e le regole fondamentali a cui attenersi nell'assolvimento del loro compito.

Erodoto, spesso considerato come il primo degli storici, è anche il primo ad essere accusato di scrivere la storia per adattarla ai propri fini. J.A.S. Evans si è domandato se il Nostro fosse davvero il padre della storia o piuttosto il padre delle fandonie. Erodoto era un novelliere per antonomasia, scriveva in uno stile letterario magistrale scegliendo argomenti interessanti, siano essi di natura geografica che antropologica e non disdegnava di mettere le parole in bocca ai propri personaggi. Nel suo approccio al passato, negli argomenti che sceglieva e nello stile narrativo era condizionato dall'esigenza di produrre una Storia intrisa di qualità retoriche ai fini della divulgazione al pubblico in forma orale.

Il resoconto della guerra del Peloponneso di Tucicide fu un tentativo sincero di imparzialità da parte di uno scrittore che era stato testimone oculare del conflitto da entrambi gli schieramenti in quanto esiliato da Atene a Sparta durante la guerra. Malgrado ciò, egli è incline a plasmare le fonti storiche per dar risalto al suo intento di moralizzatore. Di fatto, nel descrivere il cinismo proprio del potere, dà risalto alla lealtà e all'onestà degli abitanti di Melos che vennero poi trucidati o ridotti in schiavitù dagli Ateniesi. Contrappone quindi il trattamento di Melos con la tragedia che funestò Atene in seguito al fallimento della spedizione contro Siracusa, onde il suo insegnamento che il Fato non perdona coloro che si sono comportati in maniera immorale.

La tendenza verso una storiografia ad impronta moralista è proseguita con Polibio che poneva le fonti storiche in suo possesso a sostegno delle proprie teorie di governo. Questi storici greci di età posteriore tendevano a scorgere l'esigenza di una Storia che fosse educativa; si servivano del materiale storiografico per fabbricare teorie sulla morale e sulla politica, il che condusse, in Grecia, al superamento della storia da parte della filosofia.

Pur conformandosi nello stile ai loro predecessori greci, la qualità delle opere degli storici romani, con la probabile eccezione di Tacito, si rivela di caratura inferiore. Giulio Cesare scriveva in uno stile facilmente accessibile, ma i suoi resoconti erano plasmati per glorificare le proprie imprese, mentre Tito Livio introduceva il mito e la leggenda al fine di rendere le sue opere più appetibili. Al declino dell'Impero Romano e della storia militare e politica che aveva generato fece seguito l'insorgere della Cristianità e di un nuovo stile storiografico.

La storia cristiana è stata inevitabilmente propagandista. La funzione della Storia era cambiata; adesso la si utilizzava come una arma per combattere il paganesimo. Dallo studio del passato, gli storici dell'era cristiana come San Martino di Tour ricavavano le testimonianze dell'intervento divino nel mondo e narravano una storia infarcita di miracoli e calamità per convincere i lettori della grandezza del loro Dio cristiano. Persino il Bede, che a dispetto del suo tempo si atteneva rigorosamente al metodo storiografico dell'indagine e dell'individuazione scrupolosa delle fonti, non mancava di schierare le proprie risorse con il palese obiettivo di impartire l'insegnamento della vera fede. Nella veste di monaco era peraltro vincolato al potere secolare del tempo. Il fatto che la sua Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum sia dedicata a Re Ceovulfo di Nortúmbria indica la parzialità tutta anglosassone della sua opera.

Il Medioevo, con la sua società dominata dalla Chiesa, ha visto la cronaca del passato ridursi ad una elencazione di annali monastici e compilazioni cronologiche. Gli annali esemplificano la subordinazione della narrazione storica ai dettami della società. L'assenza di rigore critico nel metodo storiografico alimentò la fede nel potere e dominio incontrastati di Dio, come pure la credenza che il passato non fosse alcunchè diverso dal presente. La rivelazione che era esistita un'antichità completamente diversa dal Medioevo permise agli storiografi rinascimentali di attingere dalle fonti del periodo classico e proporre modelli su come vivere ed agire nel presente. La cultura umanistica si fece artefice di un esame più approfondito del classicismo, pur imitando in gran parte lo stile moralistico degli storici dell'epoca classica.

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