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Maura Murizzi – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 Rincorrere il potere – intervista con lo scrittore Ernesto Aloia https://www.threemonkeysonline.com/it/rincorrere-il-potere-intervista-con-lo-scrittore-ernesto-aloia/ https://www.threemonkeysonline.com/it/rincorrere-il-potere-intervista-con-lo-scrittore-ernesto-aloia/#respond Mon, 01 Aug 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/rincorrere-il-potere-intervista-con-lo-scrittore-ernesto-aloia/ Ha da poco pubblicato la sua seconda raccolta di racconti per minimum fax. L'ha intitolata Sacra fame dell'oro, guardando alla Commedia di Dante ma ispirandosi anche ai nostri tempi, ai nostri piccoli eroi avidi di soldi e potere. TMO intervista via email Ernesto Aloia, per chiedergli conto dei suoi personaggi antipatici (a dire il vero, […]

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Ha da poco pubblicato la sua seconda raccolta di racconti per minimum fax. L'ha intitolata Sacra fame dell'oro, guardando alla Commedia di Dante ma ispirandosi anche ai nostri tempi, ai nostri piccoli eroi avidi di soldi e potere. TMO intervista via email Ernesto Aloia, per chiedergli conto dei suoi personaggi antipatici (a dire il vero, non più di uno specchio che rilevi impietosamente le nostre imperfezioni) e più in generale della fatica, e delle urgenze, legate alla sua scrittura. Tre dei tuoi quattro racconti sono ambientati nel passato, in anni che hai vissuto da bambino (1969, 1973) o in cui addirittura non eri ancora nato (1954). Come mai la scelta di andare così indietro nel tempo?

Non è stata una scelta a priori. Diciamo che un racconto nasce da una scena, un personaggio, un'atmosfera che svolgono un ruolo germinale, e che quando questi elementi mi sono venuti incontro erano già avvolti nella loro dimensione storica. Non mi sono mai chiesto: perché non ambientare Missilistica per dilettanti negli anni Cinquanta? Semplicemente non mi ha neppure sfiorato l'idea di fare diversamente. Antonio, Nives e Nicola erano lì, già nel loro tempo. Tra l'altro viaggiare nel tempo – sia pure con l'immaginazione narrativa – è molto divertente.

Una costante dei tuoi personaggi, anche di quelli presenti nella raccolta precedente, è la loro doppia vita: alcuni hanno la moglie raffinata, bella e ricca, la Triumph rossa e la casa in collina, ma poi si trovano a loro agio solo nelle braccia dell'amante operaia e cellulitica. Altri leggono il manifesto e fanno la spesa nei negozi del commercio equo e solidale, ma poi vivono in una villa hollywoodiana, viaggiano in Volvo e hanno la colf a tempo pieno. Pensi davvero che la coerenza e la coscienza non siano più di questo mondo?

Mi dispiacerebbe molto se qualcuno trovasse piena coerenza nei miei personaggi, perché gli esseri umani sono incoerenti per natura. Sono ambigui, pieni di zone d'ombra, e la loro vita psicologica ignora costantemente il principio di non contraddizione. La coerenza non è mai stata di questo mondo, e mi viene da dire per fortuna.

Sempre a questo proposito, ti chiedo: scrivere per te corrisponde a un'urgenza personale o è invece una sorta di 'dovere civile', un modo per denunciare politica e costumi ormai inaccettabili?

Non credo alla letteratura come denuncia e dovere civile. Con questo non voglio dire che non ci siano buone opere letterarie con un contenuto civile, ma che non fosse quella la spinta primaria dell'autore. Scrivere è un vizio: ti chiede molto, fa male perché assorbe energie importanti, ma può essere esaltante. Può anche essere penoso e umiliante, come gli altri vizi, ma uno scrittore che ha appena finito una scena ben riuscita lo riconosci perché cammina a un metro da terra, su un invisibile cuscinetto di narcisismo.

Locuste è il mio racconto preferito: sembra fantapolitica, è invece è terribilmente reale. Il protagonista cura le relazioni esterne di una banca che ha venduto bond argentini ai suoi clienti, e che adesso lucra sulla loro speranza di rivedere qualche soldo gestendo alcuni siti web di assistenza ai risparmiatori (naturalmente fasulli). In questa doppia truffa, già di per sé squallida, aggiungi un elemento ulteriormente disturbante: il webmaster è un 25enne part-time laureato in filologia germanica e la sua assistente una stagista laureata in Scienze della Comunicazione… Purtroppo la situazione che descrivi è tutt'altro che fantascientifica… Ti chiedo: da scrittore e da lavoratore (mi sembra che il tuo 'vero' lavoro sia l'impiegato) vedi uno spiraglio di luce oltre questo binario unico del Sesso-Soldi-Successo?

Il mio lavoro 'vero' è fare lo scrittore. Il problema del protagonista di Locuste è che ormai stenta a comprendere il mondo, tutto quello che non è denaro o non è direttamente accessibile tramite versamento di una congrua somma di denaro gli sfugge, perde consistenza ed è come se diventasse invisibile ai suoi occhi. Quando il suo amico Alec, un uomo solo reduce da un divorzio penoso, si innamora della giovane Rada, la prima cosa che fa è metterlo in guardia su questioni di portafoglio. D'altra parte, persino lui avverte confusamente che una possibilità di evasione esiste. Arriva la primavera, e questo personaggio sente che c'è una forza al lavoro che potrebbe cambiare la sua vita. A guardarlo bene, è un uomo che vive sull'orlo di un cambiamento ma, d'altra parte, tra le cose di cui non si accorge c'è anche il suo stato di semicecità. Dunque le occasioni esistono, però gli sfuggono. Quanto agli spiragli di luce… di per sé non c'è niente di male nella Tripla S di Sesso-Soldi-Successo, il problema rimane sempre quello di riuscire a stare al mondo da vivi, cioè con gli occhi aperti e senza farsi assorbire dall'inessenziale. Se giorno dopo giorno cammini a capo chino da un'abitudine all'altra e non ti accorgi del mondo, hai perso. Non c'entrano necessariamente i soldi. Certo, il modello della Tripla S produce infelicità, ma se è per quello anche il mito della povertà virtuosa.

Che rapporto hai con i tuoi personaggi? Pochissimi di loro sono 'puri' e positivi, nel senso eroico del termine, siano essi uomini o donne…

Ritorna il tema della coerenza. I miei personaggi non sono puri e positivi, ma neanche negativi al 100%. Non ce n'è uno che sia interamente negativo. Beh, forse un 'cattivo totale' c'è, il Danilo Serra di Locuste. I cattivi mi piacciono molto (sulla pagina, s'intende), direi che mi vengono bene.

Un romanzo che assomiglia parecchio all'atmosfera dolente, direi quasi sconfitta, dei tuoi racconti, è Il ritorno a casa di Enrico Metz appena pubblicato da Claudio Piersanti. L'hai letto? Credi che le somiglianze siano l'inevitabile frutto di questo momento storico?

Veramente no, non l'ho letto. Ma perché le somiglianze dovrebbero essere l'”inevitabile frutto di questo momento storico”? Se andassimo a vedere in quanta letteratura aleggia un'atmosfera dolente e sconfitta, scopriremmo che questo momento storico non finisce mai. Forse è la condizione umana.

Ci sono degli scrittori con cui fai 'squadra', insieme ai quali discuti di quello che scrivi e soprattutto delle urgenze letterarie e non che ne sono all'origine?

No, niente squadra. Conosco degli scrittori, ma raramente parliamo dei nostri libri. Per ovvi motivi gli scrittori preferiscono commentare i libri degli assenti…

È più difficile iniziare un racconto, trovare l'incipit e l'ispirazione giusta, oppure finirlo, individuare il momento giusto per la chiusura?

Questo dipende dal racconto. Generalmente l'inizio non è un problema, perché se non mi viene in mente un incipit evocativo e stimolante non mi metto neanche a scrivere un racconto. Poi, magari, lo modifico strada facendo. Comunque, mai fatto un piano a tavolino, uno schema con la trama, roba così. Bisogna che tutto nasca da un'immagine originaria che può anche non trovarsi all'inizio, ma che genera l'intero racconto. In Locuste, per quanto possa sembrare strano, l'immagine del protagonista che corre da solo, volontariamente murato in un isolamento ipnotico che taglia fuori lavoro, famiglia, amici, è nata prima dell'idea della disinformazione ai danni degli obbligazionisti argentini. La conclusion
e sì, qualche volta può essere un problema. Certe volte mi capita che un racconto rimanga senza finale per mesi. Ma a quel punto, non è più veramente preoccupante: il racconto è già lì, può fare resistenza quanto vuole, al massimo riesce a rallentare i tempi.

Se dovessi bilanciare la 'quota' autobiografica e generazionale e quella di pura invenzione nei personaggi e nelle situazioni che descrivi, che percentuale indicheresti? A cosa è dovuto il prevalere dell'una o dell'altra componente?

È impossibile stabilire delle percentuali. Non mi capita mai di utilizzare materiali autobiografici puri e semplici. D'altra parte, tutto deriva dall'autobiografia. Un personaggio può nascere dallo stato d'animo di un giorno o può rappresentare l'estrapolazione di una tendenza che nell'io dell'autore coesiste con altre cento, magari contraddittorie. È un po' come per gli attori: se devi impersonare, che so, Adolf Hitler, devi cercare dentro di te quelle spinte alla violenza e alla sopraffazione che di solito tieni ben nascoste (però ci sono, ci sono…), isolarle e portarle alla luce.

Libro sul comodino in questi giorni? Libro che tieni sulla scrivania come una Bibbia?

In questi giorni sto leggendo Dies Irae, di Giuseppe Genna. Un libro da cui imparare: l'autore ci si è gettato a corpo morto, senza riserve. Senza timore dell'eccesso, della dismisura. Sul comodino i libri vanno e vengono. Tra quelli che ci tornano più frequentemente ci sono Underworld di De Lillo (ho un comodino molto spazioso), i romanzi di Cormac McCarthy, Il falò delle vanità di Tom Wolfe e la Commedia di Dante, da cui ho tratto il titolo Sacra fame dell'oro.

Rispetto alla raccola precedente, ho notato che hai scelto la via del realismo (mentre Peter Szoke aveva situazioni più surreali e uno stile in alcuni casi iperbolico) e che sei passato da temi privati ad argomenti 'pubblici'. A cosa è dovuto questo cambio di rotta? Ti ha condizionato il dibattito intorno a La qualità dell'aria?

Peter Szoke rappresentava una varietà di strade possibili, in qualche caso divergenti. Sacra fame dell'oro ne sceglie una e va fino in fondo. Il dibattito sull'antologia La qualità dell'aria non mi ha influenzato (c'è stato un dibattito?), anche perché io all'epoca avevo già abbandonato iperboli e situazioni surreali: se vai a rileggere il racconto Pavel in Chi si ricorda di Peter Szoke?, il secondo della raccolta ma l'ultimo in ordine cronologico, vedrai che ha molto in comune con quelli di SFDO [Sacra fame dell'oro], molto più degli altri. Quanto al passaggio dagli argomenti 'pubblici' a quelli 'privati', non credo che le cose stiano così, non c'è stato alcun passaggio. Anzi, io sono per abolire la distinzione. In Chi si ricorda di Peter Szoke, Le notti cieche parlava della grande bolla speculativa borsistica del 1999-2000 e dei bombardamenti notturni della seconda guerra mondiale. Pavel parlava di Chernobyl. In Concentrazione c'è di nuovo la seconda guerra mondiale. Ammiro molto gli scrittori che riescono a creare una corrispondenza simbolica tra le vicende dei loro personaggi e il contesto storico (che tra l'altro così non è più semplice contesto). I narratori americani, con tutte le ovvie differenze, sono bravissimi: Philip Roth, De Lillo, Wolfe. Non esiste contraddizione tra storia pubblica del paese e privata dei personaggi, anzi si potenziano a vicenda.

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‘Non sono solo un romanziere’ – Palazzo Yacoubian e Ala-Al-Aswani, https://www.threemonkeysonline.com/it/non-sono-solo-un-romanziere-palazzo-yacoubian-e-ala-al-aswani/ https://www.threemonkeysonline.com/it/non-sono-solo-un-romanziere-palazzo-yacoubian-e-ala-al-aswani/#respond Mon, 01 Aug 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/non-sono-solo-un-romanziere-palazzo-yacoubian-e-ala-al-aswani/ Di questi tempi, Palazzo Yacoubian dovrebbe diventare una lettura obbligatoria nelle scuole, un libro a distribuzione gratuita (o quasi) nelle edicole, un film che raggiunga il grande pubblico (ormai ci siamo, la pellicola è stata girata con un budget stratosferico per i canoni del cinema arabo e presto sarà nelle sale). Insomma tutti, per un […]

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Di questi tempi, Palazzo Yacoubian dovrebbe diventare una lettura obbligatoria nelle scuole, un libro a distribuzione gratuita (o quasi) nelle edicole, un film che raggiunga il grande pubblico (ormai ci siamo, la pellicola è stata girata con un budget stratosferico per i canoni del cinema arabo e presto sarà nelle sale). Insomma tutti, per un verso o per l'altro, dovrebbero conoscere storie e personaggi di questo romanzo, che abbina a un'altissima valenza letteraria un ancor più importante valore sociologico, alla maniera dei tanti film e romanzi neorealisti che, negli anni Cinquanta, raccontarono al mondo l'Italia del dopoguerra.

Palazzo Yacoubian è stato pubblicato in Egitto, tra mille difficoltà, un anno dopo l'11 settembre 2001, e da allora è il libro più venduto nel mondo arabo dopo il Corano. Con i toni ora brillanti ora amari della commedia, il suo autore Ala-Al-Aswani (che per anni nello Yacoubian vero del Cairo ha avuto il suo studio dentistico) racconta le microstorie degli abitanti di questo vivacissimo palazzo, che per ospiti, litigi, urla, pettegolezzi ricorda un qualunque condominio del Sud Italia: c'è la ragazza bella e prosperosa costretta a farsi palpare dal suo datore di lavoro per mantenere il posto di commessa, c'è il suo fidanzato che sogna un futuro in polizia, negatogli in quanto figlio di misero portiere, e che da giovane mite e pacifico finisce per diventare un kamikaze; c'è il vecchio trafficone che compra un posto in politica e il giornalista gay protagonista di una tragica storia d'amore…

Spirito di osservazione da entomologo e abilità nell'intreccio di destini e personaggi hanno assicurato all'autore la definizione (che condividiamo) di “Robert Altman in salsa mediorientale”, ma avendo conosciuto Aswani in occasione di un incontro pubblico, la sensazione è che, più che onori letterari o riconoscimenti di stile, il suo Palazzo Yacoubian voglia attirare un'attenzione politica sul mondo musulmano, che il libro venga letto come un reportage neanche troppo romanzato sulla insostenibile situazione egiziana ed araba in genere. Ecco le dichiarazioni di Aswani a questo proposito, e lo scambio di battute con cui abbiamo cercato di capire meglio un mondo per noi così lontano, ma in definitiva così vicino.

“Ho scritto questo libro anche per trattare il tema della religione. In Egitto sono presenti le tre più grandi religioni monoteiste, l'Islam, il Cristianesimo e l'Ebraismo, ma il problema non è la religione ma l'interpretazione che si dà di essa. Come forse sapete, l'Islam è nato nel deserto ma poi si è sviluppato e ha prosperato nei grandi luoghi dove esisteva la civiltà, in Iran, in Iraq e in Medio Oriente. La realtà dell'Egitto è fondata su due elementi estremamente negativi: la dittatura e, una sua conseguenza, la povertà di milioni di persone. Molti egiziani sono stati costretti ad emigrare in Arabia Saudita per cercare lavoro e una fonte di guadagno; lì sono entrati in contatto con una realtà molto ricca ma anche permeata di wahabismo, che è una delle interpretazioni più intolleranti dell'Islam. Questo ha portato conseguenze negative su tutto l'Egitto.”

Ha parlato di dittatura senza virgolette.

Il signor Mubarak governa e comanda sull'Egitto da trent'anni con una serie di elezioni fintamente democratiche, e adesso sta cercando di spingere il figlio in una posizione di potere. Non c'è altro modo per descrivere questo regime se non parlare di dittatura.

E allora come mai il suo libro non è stato censurato?

Da 14 anni in Egitto vige una legge che dice più o meno: “Tu puoi dire quello che vuoi, noi facciamo quello che ci pare”. Da un lato può essere in qualche modo positivo, ma in realtà è solo una dichiarazione di facciata per il regime, una libertà di parola passiva. In un paese democratico, la libertà di parola dovrebbe produrre dei risultati politici, ad una denuncia dovrebbe seguire un'inchiesta e, all'inchiesta, le dimissioni di qualcuno. Invece in Egitto non succede mai niente, siamo in una realtà senza un libero parlamento, perché le persone che vi siedono sono state elette attraverso elezioni finte, perché c'è la tortura come scrivo nel libro, ci sono migliaia di persone detenute illegalmente e così via. Il mondo arabo non conosce l'espressione ex-presidente, i presidenti sono tutti defunti, è l'unico modo in cui si cambia.

Dal punto di vista di uno scrittore, la possibilità di una parola politicamente inefficace è una frustrazione o al contrario ne rafforza il ruolo, in quanto può esercitare almeno questo primo grado di libertà?

Nelle intenzioni del regime questa nuova legge non ha sortito l'effetto voluto, perché invece di avere degli intellettuali sempre più frustrati, vediamo la possibilità di intervenire e di creare un movimento democratico secolare, laico. E infatti io non sono solo un romanziere, ma sono anche un attivista politico, scrivo saggi e articoli di giornale.

Qui la parola 'laico' è diventata quasi una parolaccia, come se fosse una forma ideologica e non una premessa di convivenza per tutti. Da quel che dice sembra che lì sia altrettanto difficile.

'Laico' può essere sinonimo di democratico, civile, senza alcuna accezione religiosa. D'altra parte in Egitto si sono nutriti a vicenda due poli, il regime e il fanatismo, che solo apparentemente sono in contraddizione. Ma non è affatto così, anzi si autoalimentano: attraverso l'ingiustizia diffusa e la repressione, il regime utilizza il fanatismo dopo averlo creato.

A scuola di medicina uno degli insegnamenti fondamentali è che il medico deve imparare subito la differenza tra patologia e malattia, e questo discrimine è molto importante: se si cura la malattia, si può guarire realmente, se si cura la complicanza come se fosse una malattia, il paziente muore. Questa è una similitudine per dire che nel mio paese è accaduta la stessa cosa: la malattia è il regime, la complicanza della malattia è il fanatismo. Il regime vuole convincerci in tutti i modi che il fanatismo e l'integralismo siano la malattia da curare, mentre invece sono una conseguenza della malattia. Questo elemento traspare anche nel giovane protagonista del mio libro, che inizialmente è un idealista, ma che poi viene portato alla scelta del terrorismo perché imprigionato ingiustamente, torturato ecc.

Nei paesi arabi, Palazzo Yacoubian è stato accolto in maniera diversa a seconda dei diversi gradi di democraticità di ogni nazione?

Questo libro è stato un best seller nel mondo arabo per quattro anni, pubblicato in Egitto all'inizio con difficoltà (quattro editori lo hanno letto, ne hanno parlato benissimo però non lo hanno pubblicato) e poi con grande successo (la prima ristampa è arrivata dopo due mesi). Ho ricevuto molti feedback da parte di lettori che mi hanno contattato, scritto email, e da tutti ho sentito le stesse parole, e cioè: “stai parlando del mio paese, descrivi la situazione del mio paese”. Questo conferma la mia opinione, e cioè che ci sono 22 paesi arabi con 22 tipologie di regime: c'è la monarchia, ci sono i rivoluzionari, ma non c'è la democrazia. Credo si ritorni sempre al concetto che la mancanza di democrazia è la patologia da curare. Adesso la malattia sembra aggravarsi, in quanto dopo l'11 settembre c'&egrav
e; una mancanza di democrazia anche nei paesi occidentali.

Lei è uno scrittore ma fa anche il lavoro quotidiano di dentista, che è un mestiere che lascia una libertà di gestione del tempo e anche una libertà di scrittura notevoli (se facesse il giornalista potrebbero metterla a tacere immediatamente). Come mai fa ancora il dentista, dopo tutti i soldi che ha guadagnato grazie a questo libro?

Credo fermamente nello scrittore indipendente, che non deve essere vincolato, per questo ho continuato a mantenere il mio ambulatorio di dentista. Sono riuscito a farlo perché è una libera professione, ma meno impegnativa ad esempio della chirurgia, una specialità che richiederebbe una presenza 24 ore su 24 e che non mi permetterebbe di scrivere. Un altro motivo per cui continuo a fare il dentista è che mantengo forti i contatti con le persone, mi occupo di loro, e questo è veramente importante per la mia scrittura.

Questo libro è diventato anche un film: ha mai pensato di scrivere per il cinema, non è anche quello un modo per arrivare più facilmente al popolo?

La letteratura è molto importante per me, ma ho seguito il consiglio di mio padre, che è morto quando avevo 19 anni e mi ha detto che se la letteratura diventa la cosa dominante, devo smettere di scrivere. Mi hanno fatto tantissime offerte di sceneggiatura, soprattutto dopo l'uscita del libro. Offrono anche moltissimi soldi, ma alla fine mi sono reso conto che mi rovinerei la vita. Io ho una vita pacifica, tranquilla, posso scrivere tutti i giorni con calma. Se invece si guadagna in maniera spropositata per un lavoro di tre o quattro mesi, a un certo punto il gioco può diventare davvero pericoloso, può impedirmi di scrivere un altro romanzo. Se guadagni così tanto, come fai a vivere per due, tre anni senza guadagnare mentre scrivi il prossimo libro? Poi immagino i miei personaggi al cinema e non riesco a vederli. Ho molti amici sceneggiatori, non ho niente contro di loro, ma io non mi ci vedo!

Palazzo Yacoubian, di Ala-Al-Aswani – Feltrinelli, pp. 215, euro 16

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Il ritratto di un&apos;Italia che non ci piace – Sacra fame dell&apos;oro vs. Il ritorno a casa di Enrico Metz https://www.threemonkeysonline.com/it/il-ritratto-di-unitalia-che-non-ci-piace-sacra-fame-delloro-vs-il-ritorno-a-casa-di-enrico-metz/ https://www.threemonkeysonline.com/it/il-ritratto-di-unitalia-che-non-ci-piace-sacra-fame-delloro-vs-il-ritorno-a-casa-di-enrico-metz/#respond Mon, 01 Aug 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/il-ritratto-di-unitalia-che-non-ci-piace-sacra-fame-delloro-vs-il-ritorno-a-casa-di-enrico-metz/ “Seppure non eravamo testimoni né partecipi di nessun 25 aprile o 8 settembre, seppure gli ideali per cui combattevano le migliori menti della nostra generazione erano un contratto a tempo indeterminato e la normalità dei cicli circadiani, seppure avremmo fatto volentieri a meno di ricordare i nomi di quei ministri che ogni sera in televisione […]

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“Seppure non eravamo testimoni né partecipi di nessun 25 aprile o 8 settembre, seppure gli ideali per cui combattevano le migliori menti della nostra generazione erano un contratto a tempo indeterminato e la normalità dei cicli circadiani, seppure avremmo fatto volentieri a meno di ricordare i nomi di quei ministri che ogni sera in televisione sbagliavano la pronuncia dell'inglese, le addizioni a due cifre, le minime cognizioni di geografia e storia recente; ecco, seppure il contesto invitasse al rifiuto assoluto o alla narcolessia, avevamo una responsabilità: raccontare questo tempo”. Dichiarazioni che abbiamo ripescato da un'antologia letteraria pubblicata qualche tempo fa da minimum fax: si intitolava La qualità dell'aria. Storie di questo tempo e raccoglieva gli umori, le visioni, le reazioni di venti scrittori al nostro tempo devastato e vile. Sono passati due lunghissimi anni da quel manifesto, e l'aria che respiriamo è ancora satura di polveri sottili e soffocanti; ma se c'è un elemento nuovo e rassicurante nella situazione, va colto nel fatto che scrittori appartenenti a generazioni, geografie e scuderie editoriali diverse stanno rinunciando a raccontare il proprio ombelico e le storie minimaliste cui sono avvezzi per dare spazio invece a scandali finanziari, avidità di potere, aziende in mano a manager spregiudicati e corrotti, mediocrità trionfante al potere. Insomma il ritratto di un'Italia che non ci piace per niente ma con cui siamo costretti a convivere, e che i libri di Piersanti ed Aloia ci raccontano impietosamente, anche se con stile e approcci differenti.

Nel caso di Piersanti, classe 1954, autore di splendide storie intime come L'amore degli adulti e Luisa e il silenzio, il potere che si stanca di se stesso e si ritira a vita privata (non senza prima essere insidiato da Guardia di Finanza e magistratura) è incarnato dalla figura di Enrico Metz, avvocato cinquantenne che dopo aver passato metà della sua vita a Milano come consulente legale di un ricco industriale, si ritira dal suo ruolo pubblico per far ritorno alla casa paterna in provincia. Il passaggio dal 'grande' al 'piccolo', dalla metropoli alla cittadina, dai santuari della finanza allo studio legale ricavato in una stanza dell'abitazione è tutt'altro che indolore, soprattutto per il carico di rimpianti che porta con sé. Poiché Metz è un eroe da romanzo, il suo esilio non contempla la nostalgia per il potere, i soldi, i benefits aziendali o la visibilità mediatica, ma è invece una sorta di pausa (definitiva) da una forsennata partita a Monopoli, necessaria a fare dolorosi bilanci: soldi e successo sono costati (a lui come a una generazione di manager e politici) non solo paurosi compromessi morali, corruzione e comportamenti spregiudicati, ma anche rinuncia alla propria vita interiore, al proprio ruolo di padre (Metz si accorge di non aver visto crescere i suoi due gemelli ormai adulti, concentrati sulle fidanzate e lontanissimi per lavoro), all'amicizia, e perfino alla vita matrimoniale, ridotta a una convivenza tra estranei. Ripartendo da cose semplici e banali per riconciliarsi con gli anni sprecati (per dirla con gli Afterhours), a cinquant'anni Metz può finalmente concedersi una tregua, andare in giro nella piccola città di provincia senza essere riconosciuto, fermarsi davanti a una vetrina “come un soldato che torni dopo una lunga guerra in terre lontane. E come un soldato non voleva più pensare alle battaglie combattute, alle delusioni, ai successi, alle sconfitte cocenti… Non era più un capo, era finalmente libero”.

Il romanzo si sviluppa raccontando il progressivo re-inserimento dell'avvocato nella sua città natale, tra amici ritrovati, una segretaria fin troppo materna, una giovane fanciulla in fiore che gli fa perdere il sonno e una casa che gli ricorda in definitiva gli anni più belli. Piersanti è bravissimo ad alternare momenti di struggente malinconia (il protagonista invecchia velocemente dentro e fuori, addirittura sollecitando, se possibile, la sua lenta decadenza) ad altri di assoluto cinismo, in cui riaffiora il ruolo pubblico del personaggio e le meschinità ad esso collegate: ad esempio quando, in vista delle elezioni, i papaveri locali vorrebbero trascinarlo in politica sfruttando il suo nome ancora pulito da sospetti e pendenze giudiziarie. Poiché Metz declina l'offerta, la sua ingiuria viene ripagata con l'invio della Finanza in casa, nel segno di una persecuzione umana e fiscale che è il prezzo da pagare per chi non rispetta più le regole del gioco…

Altre ambientazioni, ma stesso sguardo intenso e pietoso sulla nostra realtà, si ritrovano nei quattro racconti che compongono Sacra fame dell'oro di Ernesto Aloia, collocati in anni diversi della nostra storia recente. La situazione è ambientato nella Torino del 1973, ai tempi dei maxi-licenziamenti alla FIAT e dei terroristi che sequestravano i dirigenti per portarli nel carcere del popolo. I due racconti centrali parlano invece di ragazzini che subiscono o esercitano violenza (fisica ma soprattutto psicologica) in due Italie diverse: quella del 1954, ancora molto povera e in Lambretta, e quella del 1969, dove invece tanti hanno la seconda casa a Cortina, Antibes o Portofino e tanti altri si affannano ad ostentare una ricchezza che non hanno. L'ultimo racconto, il più coinvolgente secondo chi scrive, si intitola programmaticamente Locuste, ed è ambientato ai tempi del crac argentino e degli iPod. Come in Enrico Metz, anche qui c'è un protagonista in crisi di coscienza che deve espiare qualcosa, e una moglie benpensante che vive in una specie di luna-park a prezzo di qualche scrupolo passeggero. Angela (pura di nome e nello spirito) legge il manifesto e Le monde diplomatique, odia il liberismo, l'America, Israele e le multinazionali e fa la spesa nei negozi del commercio equo e solidale, ma intanto vive in una villa con due palme e una magnolia nel giardino. Hanno “dieci stanze, una vasca idromassaggio, due Volvo, un home theater e altri due schermi al plasma. Hanno anche una casa a Cortina, un Manet presunto autentico, tre Mac portatili, due impianti stereo, una tonnellata di vestiti, una colf a tempo pieno, due assicurazioni sulla vita, due piani di risparmio e un bel po' di fondi lussemburghesi”. Da dove arrivano tutti questi soldi? Dal lavoro del marito, che 'cura' le relazioni esterne di una banca piegandosi a comportamenti illeciti e frodi doppie e triple ai danni dei risparmiatori, al limite del premio Nobel per l'ingegno.

Il piano della banca per speculare sui clienti rimasti in mutande è diabolicamente plausibile, e Aloia lo descrive con precisione svizzera. Ma ciò che l'autore sottolinea con altrettanta abilità è la sete di soldi, l'egoismo e l'istinto competitivo universale che governano giovani e anziani, ricchi e poveri, uomini e donne senza alcuna distinzione: da Angela, anima candida di cui sopra, ai risparmiatori che hanno creduto di poter guadagnare il 12% annuo da obbligazioni argentine, dalla stagista della banca (che si dedica con entusiasmo al confezionamento della frode) all'amico medico, che nel giro di 48 ore rinuncia alla sua missione con Medici senza Frontiere per stare con la donna che ha appena conosciuto.

Se c'è una via d'uscita da questo tunnel malefico e lastricato di buone intenzioni, ancora non l'abbiamo trovata. Forse non rimane che conviverci, e leggere libri come questi per 'allenare' (almeno ogni tanto) la nostra coscienza stordita da tv, riviste patinate e pubblicità.

Sacra fame dell'oro, di Ernesto Aloia – minimum fa
x, pp. 179.

Il ritorno a casa di Enrico Metz, di Claudio Piersanti – Feltrinelli, pp. 205.

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Caos Calmo di Sandro Veronesi https://www.threemonkeysonline.com/it/caos-calmo-di-sandro-veronesi/ https://www.threemonkeysonline.com/it/caos-calmo-di-sandro-veronesi/#respond Fri, 01 Jul 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/caos-calmo-di-sandro-veronesi/ Quarant'anni vedovo. Seppur ricalcato in parte su un film recente (e sicuramente dimenticabile), forse questo sarebbe stato un titolo più adatto del criptico Caos calmo per questo strabordante romanzo. Un romanzo che potrebbe spaventare, appunto, per titolo, mole e argomento impegnativi (il lutto di un uomo che perde la moglie giovane e rimane solo con […]

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Quarant'anni vedovo. Seppur ricalcato in parte su un film recente (e sicuramente dimenticabile), forse questo sarebbe stato un titolo più adatto del criptico Caos calmo per questo strabordante romanzo. Un romanzo che potrebbe spaventare, appunto, per titolo, mole e argomento impegnativi (il lutto di un uomo che perde la moglie giovane e rimane solo con la figlia decenne e molti sensi di colpa…), ma che invece si legge tutto d'un fiato grazie alla brillante scrittura di Veronesi, e alla sua capacità di giocare con una carrellata di personaggi unici e uno spirito toscano che rende umoristiche anche le situazioni più drammatiche. Basta leggere le prime pagine del libro per restare intrappolati nella sua trama, e andare avanti a capofitto per scoprire come Pietro Paladini sopravvivrà nell'ordine a: un salvataggio rocambolesco di una culona in alto mare, accompagnato da un'erezione memorabile; la morte improvvisa della moglie, o meglio della donna che avrebbe dovuto sposare di lì a cinque giorni, mentre lui era in mare a salvare la culona e non rispondeva al telefonino che gli chiedeva di tornare a casa; la responsabilità di reagire a questo lutto insieme alla figlia Claudia; la forza di resistere alla tentazione di una cognata bellissima, con un fisico da velina e una predisposizione naturale per gli uomini sbagliati (e infatti punita con tre figli avuti da tre uomini diversi, e inopportunamente chiamati Aldo, Giovanni e Giacomo…).

Se in privato Pietro attraversa una fase decisamente delicata, aspettando di vivere e di scontare una sensazione di lutto, di angoscia e di disperazione che non arriva mai, dal lato professionale vive un periodo altrettanto movimentato, poiché la sua azienda sta per fondersi con una grande multinazionale televisiva, al costo di riduzioni del personale e nuovi equilibri al vertice (giochi di potere da cui non rimane escluso, a patto di attaccarsi al carro del vincitore). Con innaturale indifferenza, Pietro trascorre tutte le giornate di un'intera stagione (da settembre a Natale) nell'abitacolo della sua auto, parcheggiata di fronte alla scuola della figlia, e da questa specie di acquario osserva la vita che scorre fuori da lì, in un angolo verde di Milano che neppure sembra metropolitano, e all'occorrenza riceve i suoi colleghi e superiori come in un confessionale, seguendo senza partecipazione le fasi di questa titanica fusione.

Così abilmente congegnata, la struttura del romanzo potrebbe dilatarsi all'infinito, dal momento che l'Audi di Paladini diventa la meta del pellegrinaggio di curiosi e disperati, di attaccabottoni e perfino di conoscenti in vena di sfogo. Per fortuna Veronesi si ferma un attimo prima che le storie diventino troppe o troppo lunghe, e stupisce con un finale in qualche modo 'profondo' che non avremmo mai attribuito a un personaggio come Pietro. Che rimane un personaggio indimenticabile per humour, umanità e schiettezza (i suoi dettagliati racconti di erezioni e pompini sono 'sinceri' tanto quanto l'ammissione di non riuscire a disperarsi per la morte di Lara), e infatti siamo pronti a scommettere che Caos calmo diventerà presto un film, ma che forse un po' delude per l'insistenza sulla descrizione di un certo ambiente alto-borghese, con casa al mare – nonno con badante in Svizzera – navigatore satellitare, a discapito di un tempo e di una società in realtà molto più tristi e magri.

CAOS CALMO, di Sandro Veronesi – Bompiani, pp. 451, euro 17,50

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Profilo di una vittima – di Gabriella Revelli https://www.threemonkeysonline.com/it/profilo-di-una-vittima-di-gabriella-revelli/ https://www.threemonkeysonline.com/it/profilo-di-una-vittima-di-gabriella-revelli/#respond Fri, 01 Jul 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/profilo-di-una-vittima-di-gabriella-revelli/ Titolo (improprio) e copertina (fuorviante) non rendono affatto giustizia a un romanzo che, pur senza essere particolarmente originale, rappresenta un esordio interessante per la torinese Gabriella Revelli, e la candida secondo noi a un brillante futuro di sceneggiatrice oltre che di scrittrice. Il suo libro infatti ha il ritmo asciutto di un copione cinematografico, dialoghi […]

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Titolo (improprio) e copertina (fuorviante) non rendono affatto giustizia a un romanzo che, pur senza essere particolarmente originale, rappresenta un esordio interessante per la torinese Gabriella Revelli, e la candida secondo noi a un brillante futuro di sceneggiatrice oltre che di scrittrice. Il suo libro infatti ha il ritmo asciutto di un copione cinematografico, dialoghi abbondanti e mai artefatti e infine una serie di colpi di scena che ne rendono intrigante la lettura.

La storia ruota intorno a uno psichiatra che immaginiamo trentacinquenne, dibattuto tra l�attrazione per una giovane paziente depressa (a causa dell�abbandono subito dal solito uomo narciso) e la deontologia professionale, che invece impone distacco e cautela soprattutto con soggetti cos� intimamente instabili.
In realt�, per�, gi� a pag. 8 le acque si confondono, perch� il medico � tutt�altro che un amatore idealista o un eroe romantico; � invece un uomo qualunque che conduce una vita mediocre, cerca la compagnia occasionale di una donna sexy ma che non ama, ha un paio di amici veri un po� petulanti, e fondamentalmente � appagato dalle proprie abitudini e dalla propria �singletudine�.
Giulia, la paziente che Piero saltuariamente riceve in ambulatorio, scardina poco a poco le sue certezze di uomo e di medico, facendo riaffiorare quasi accidentalmente una persona e un episodio rimossi, una domenica di maggio di quindici anni prima in cui, come nel film L�uomo senza sonno, una tragica fatalit� ha cambiato per sempre i destini di tante persone.

Come si diceva in apertura, il plot non � dei pi� originali e anzi si risolve solo nelle ultime pagine, con rarissime anticipazioni nei capitoli centrali del libro: sembra quasi che l�autrice abbia iniziato a scrivere con questa idea, l�abbia poi accantonata nel corso del romanzo per dare spazio alle vicende e agli incontri (peraltro molto godibili) che coinvolgono e sconvolgono i vari personaggi, e l�abbia ripresa solo nel finale per concludere univocamente la storia. Al di l� per� di questo �sbilanciamento� tra intenti (supponiamo) programmati e risultati concreti, questo lungo racconto si legge come un gustoso spaccato di vita borghese, come sempre avvezza al compromesso tra apparenza e sostanza, tra ideali giovanili e meschinit� adulte (e adulterine), tra progressismo sbandierato a parole e pistole da sceriffo tenute in tasca – anche se solo per autodifesa.

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Dal racconto di una Vita a quello di Un giorno perfetto: intervista a Melania G. Mazzucco. https://www.threemonkeysonline.com/it/dal-racconto-di-una-vita-a-quello-di-un-giorno-perfetto-intervista-a-melania-g-mazzucco/ https://www.threemonkeysonline.com/it/dal-racconto-di-una-vita-a-quello-di-un-giorno-perfetto-intervista-a-melania-g-mazzucco/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/dal-racconto-di-una-vita-a-quello-di-un-giorno-perfetto-intervista-a-melania-g-mazzucco/ Melania Mazzucco è una delle autrici più felicemente mainstream della nostra narrativa. Dopo il successo di Vita, premiato con lo Strega nel 2003 e in arrivo al cinema per la regia di Paolo Virzì, l’abbiamo intervistata (via email) sul suo nuovo libro, Un giorno perfetto, romanzo-specchio di questi anni e di quest’Italia, e sulle urgenze, […]

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Melania Mazzucco è una delle autrici più felicemente mainstream della nostra narrativa. Dopo il successo di Vita, premiato con lo Strega nel 2003 e in arrivo al cinema per la regia di Paolo Virzì, l’abbiamo intervistata (via email) sul suo nuovo libro, Un giorno perfetto, romanzo-specchio di questi anni e di quest’Italia, e sulle urgenze, letterarie e non, che sono all’origine delle sue storie.

Com’è nata l’architettura del romanzo, l’idea di bilanciare una famiglia ricca con una famiglia monoreddito, una moglie che passa le giornate tra parrucchiere e agenzie immobiliari e un’altra che fatica ad arrivare al 27 del mese, un uomo di successo (per quanto al declino) con un poliziotto ossessionato dalla fine del suo matrimonio?

Nel mio romanzo precedente, Vita, avevo raccontato una storia lunga cent'anni – dal 1903 al 2003. In Un giorno perfetto volevo utilizzare una struttura temporale antitetica: solo ventiquattro ore. Ma in queste ventiquattro ore volevo raccontare il respiro di un'epoca – e di una città – e per fare ciò avevo bisogno di attraversare le classi sociali e le generazioni. Lo schema più semplice era quello di incrociare i destini di due famiglie che non si incontrerebbero mai se il lavoro non le legasse – se uno non lavorasse per l'altro. Il lavoro, in tutte le sue implicazioni, è uno dei nuclei di Un giorno perfetto. Così Antonio lavora per l'onorevole, e la vita dei Buonocore e quella dei Fioravanti finiscono per intrecciarsi.

Dopo il successo planetario di Vita, cosa ti ha spinto a scrivere un libro così diverso, a osare così tanto? Mentre scrivevi Un giorno perfetto, hai mai pensato alle attese dei tuoi lettori o hai assecondato solo l’urgenza di raccontare la ‘tua’ storia?

Sai, uno scrittore sente la mancanza dei libri che non ha ancora scritto, dei libri che da qualche parte dentro di lui aspettano di essere trovati. Non può provare nostalgia di quelli che ha compiuto, anche se gli sono riusciti. Ogni libro ne genera un altro, spesso è legato a quello che lo precede da fili sottili, impalpabili. Un giorno perfetto, in questo senso, è profondamente legato a Vita. Con quel romanzo, ho raccontato una storia italiana che attraversava un secolo – il Novecento: le vicende dei protagonisti mi hanno portato dalla grande povertà dell'Italia rurale all’apparente ricchezza di un paese che crede di essere diventato l'America, e si è fatto paese di accoglienza e di immigrazione. Era di questa Italia del Duemila – ricca ed egoista, appagata e delusa, sgretolata e confusa – che volevo scrivere, proprio del mondo in cui viviamo. Ed è Vita che mi ci ha portato. I lettori che con Vita mi hanno seguito in America – e poi nell'Italia del dopoguerra – vivono, come me, nel mondo di Un giorno perfetto, e sono certa che in questa storia di oggi possono riconoscersi: è del nostro paese, è di noi che si parla. Forse scrivere di questo era osare, ma nessuno scrittore può accontentarsi di ripetere una formula vincente: a meno che non sia un imprenditore, un venditore di parole come altri vendono prosciutti, occhiali o automobili. Io non lo sono. Preferisco mettermi in discussione, e ricominciare ogni volta daccapo.

Il tema dell’immigrazione ritorna in Un giorno perfetto come argomento di salotto sulle nazionalità delle colf: meglio le equadoregne o le rumene, meglio le cattoliche o le musulmane? Un approccio completamente diverso rispetto al racconto appassionato dell’odissea di Vita e Diamante…

La scena delle chiacchiere delle signore durante la festa di Camilla è ovviamente satirica, le banalità che dicono vanno lette in controluce. Ma mi pare che le parole di queste donne – frivole e superficiali mentre discutono di temi come razza e religione – siano esattamente quelle che riecheggiano in conversazioni simili e che ognuno di noi ha ascoltato dozzine di volte, in treno o in aereo, sull'autobus o a cena. È la trascrizione di una conversazione qualunque. Purtroppo. Nessuna di quelle donne si chiede davvero chi sia la propria domestica, quale dramma abbia affrontato lasciando i propri bambini al suo paese, separandosi dal marito per guadagnarsi la vita, quali difficoltà di lingua, abitudini, cultura, abbia trovato. Vita raccontava proprio questo, ma dall'altra parte: con la prospettiva di chi è dovuto partire, di chi ha lasciato il proprio paese, gli affetti, la lingua, la storia, l'identità. La differenza sta nel rovesciamento culturale e sociale che ha subito l'Italia in questi cento anni: i migranti di ieri sono i nonni e i genitori delle signore del salotto di Un giorno perfetto.

Pur raccontando una sola giornata, il tuo libro ha il respiro di un affresco storico, di un film che ho amato molto come La meglio gioventù. Tu hai corso un rischio in più, che è quello di raccontare l’oggi, il contemporaneo. È stato più facile o più difficile, rispetto ad esempio alla stesura di Vita?

Credo che la 'firma' di uno scrittore non stia tanto nel soggetto che racconta quanto nel modo in cui lo fa. Le storie, in fondo, sono sempre le stesse. Ciò che costituisce il nostro segno, ciò che ci rivela, è lo sguardo che dedichiamo alle persone, ai paesaggi, alle idee e alle cose. Il mio, credo, è sempre lo stesso – sia che racconti dell'America del primo Novecento sia che racconti della Roma del 2001. Mi riconosco nella parola 'affresco': ci ritrovo il respiro narrativo delle mie storie, i molti personaggi, i molti piani, la simultaneità del tempo e così via. È ugualmente difficile costruire dei personaggi che restino nella memoria, dei dialoghi veri, un mondo che abbia la sua coerenza e la sua necessità. Nel caso di un romanzo contemporaneo c'è forse una difficoltà in più. Quando uno scrittore scrive – che ne so – della Londra vittoriana, il lettore si fida della sua descrizione. Si affida al mondo narrativo che gli viene raccontato. Quando lo scrittore scrive invece di oggi, non può confidare sulla 'sospensione dell'incredulità' – perché il mondo narrativo che evoca è lo stesso del lettore, e il lettore può abbandonarti se ciò che gli racconti non è vero, se non sei credibile. In un certo senso, giochi con lui ad armi pari, in un corpo a corpo che vi vede entrambi disarmati: e questa è una sfida che uno scrittore non può eludere, e che mi è piaciuto accogliere.

Qualche tuo amico o conoscente si è riconosciuto nelle storie o nei personaggi che racconti? La vita quotidiana di Maja, i timori di Elio, le alienazioni del lavoro in un call center sono troppo realistici per non essere veri…

Nessuno dei personaggi di Un giorno perfetto ha un modello reale. Sono tutti personaggi inventati. Però ho lavorato molto 'dal vero' – dall'interno degli ambienti rappresentati. Invece di documentarmi in archivio o in biblioteca, ho proceduto come se dovessi scrivere un reportage, o interpretare una parte secondo il Metodo – immergendomi di volta in volta nella professione dei poliziotti, dei politici, delle telefoniste, passando del tempo con loro, entrando nelle stazioni dei carabinieri, ascoltando i comizi e così via. Ho pensato che come un lettore non sapeva com'era la pensione di un emigrato italiano a New York nel 1903, così in fondo non è mai stato a un comizio politico in periferia, nell'o
pen space di un call center, a farsi un piercing al capezzolo, e ho provato a portarcelo col mio racconto. E' vero che molti si sono riconosciuti nei personaggi del romanzo. La cosa più bella però me l'hanno detta lettori che non conosco, e perciò non potevano essere miei 'modelli': Emma sono io, Valentina è mia figlia, io sono stato Aris a vent'anni – e così via. Per me, è stato come sapere di aver colto una verità che va al di là dell'esistenza di una singola persona.

Un romanzo che per certi versi assomiglia al tuo è La bestia nel cuore di Cristina Comencini. Anche lì la famiglia è tutt’altro che “il luogo che fa spuntare le ali ai sogni”. È un romanzo che hai letto? Che rapporto hai con gli scrittori contemporanei, in particolare romani? Esiste un gruppo che riflette e produce sugli stessi temi, oppure preferisci restare estranea a queste ‘associazioni di categoria’?

Non so se anche a Roma esiste un gruppo coeso di scrittori che condividono un progetto letterario – forse sì, ma non ne faccio parte. Qualche occasione di incontro e scambio ce l'ha offerta la Casa delle Letterature, e anche la redazione romana de La Repubblica, che ha coinvolto una trentina di scrittori che vivono a Roma (qualche nome, Giartosio, Guarnieri, Picca, Trevi), in progetti collettivi – come la narrazione dei quartieri di Roma. Abbiamo fatto dei reading insieme, coinvolgendo la città in un modo quasi impensabile per un singolo. Mi piacciono i progetti collettivi, e vi partecipo quando posso, ma sento che non ci tengono insieme esperienze condivise. Anche in letteratura, ognuno segue la propria strada. A volte i percorsi si incrociano, più spesso no. Siamo una generazione dispersa. Ci aggreghiamo volentieri, poi scompariamo – e ci ritroviamo alla fine solo leggendoci.

Uno dei temi che nel libro è solo accennato ma è molto importante è il potere, in qualche caso taumaturgico, della televisione. Se il caso di Antonio ed Emma finisse a Stranamore o a C’è posta per te, credi che il finale sarebbe diverso?

Decisamente sì, e questo è qualcosa di abbastanza sconvolgente. La gente come Emma e Antonio (o, nel caso di un romanzo come Vita, la gente come Vita e Diamante) finisce sul giornale solo quando viene ammazzata. Diventa interessante solo da morta. La televisione, invece, trova interessante anche la gente viva – perché la cannibalizza. La 'mette in scena' (nei reality show, nei talk show efferati e via dicendo) perché presuppone che nella sua storia e nel suo comportamento il presunto telespettatore medio può riconoscersi. La televisione è diventata un camera di decompressione dei conflitti (personali e sociali), un limbo che depotenzia ogni impulso e ogni follia, proprio perché lo disvela. Olimpia crede che se la figlia andasse in televisione a fare un appello all'ex-marito, tutti loro sarebbero in salvo. E credo che abbia ragione: la televisione è una paradossale salvezza (c'è chi muore, oggi, perché NON è riuscito ad andare in televisione: si uccide per questo).

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Voci Fuori Campo – Ali Smith https://www.threemonkeysonline.com/it/voci-fuori-campo-ali-smith/ https://www.threemonkeysonline.com/it/voci-fuori-campo-ali-smith/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/voci-fuori-campo-ali-smith/ Questo strano libro presenta un'anomalia fin dal titolo, che in originale suona The accidental e in italiano Voci fuori campo. Inoltre ha una trama e dei personaggi che ti sembra di aver già incontrato (in Teorema di Pasolini, in American Beauty, in un qualunque libro di Jonathan Coe…), eppure si legge avidamente una pagina dopo […]

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Questo strano libro presenta un'anomalia fin dal titolo, che in originale suona The accidental e in italiano Voci fuori campo. Inoltre ha una trama e dei personaggi che ti sembra di aver già incontrato (in Teorema di Pasolini, in American Beauty, in un qualunque libro di Jonathan Coe…), eppure si legge avidamente una pagina dopo l'altra, grazie allo splendido stile (un coro di voci fuori campo, appunto) più che al The accidental della fabula. Quest'ultima è apertamente ispirata a Teorema di Pasolini, film in cui l'angelo Terence Stamp arrivava a scompigliare un'intera famiglia padana e altoborghese degli anni Settanta procurando ad alcuni salvezza, ad altri perdizione e morte. Nella trasposizione inglese, gli anni sono i nostri (torture di Abu Ghraib comprese) e i ruoli familiari piuttosto tipici: c'è Astrid, l'adolescente scontrosa che definisce 'dozzinale' ogni cosa che la circonda, ed è inseparabile da una telecamera con cui registra tutte le prove che le assicurino di essere viva. C'è Magnus, suo fratello maggiore, divorato dai sensi di colpa per aver spinto al suicidio una compagna di scuola (oscenamente presa in giro con un fotomontaggio in .jpeg), e c'è la madre Eve, sciacallo in modo diverso (scrive biografie di successo sulle vittime di crimini orrendi), che ha deciso di portare la famiglia in vacanza sperando di superare in campagna il suo blocco creativo. Infine c'è Michael, patrigno dei due ragazzini e insegnante universitario col vizietto incurabile per i sonetti e le studentesse.

In questa famiglia in fase di stallo irrompe Ambra, concepita nel cinema Alhambra nel 1968, durante la proiezione di Poor Cow (con il divino Terence Stamp, appunto). Si presenta agli Smart con la classica scusa dell'auto in panne e si ferma a dormire nel loro giardino, come una specie di hippy che non si trucca e non si depila, ma capace di affascinare immediatamente tutti e quattro. Gli effetti della sua limitata permanenza nel Norfolk non saranno devastanti ed estremi come in Teorema, ma di sicuro disarmano i quattro personaggi, li sbloccano dal loro lasciarsi vivere e infine deludono la loro smisurata fiducia nell'Ospite.

Sulla trama, di più non si può dire per non rovinare la sorpresa ai lettori. Ma come sostenevo in apertura, l'elemento più attraente e originale del romanzo è sicuramente lo stile, inteso come capacità di scrivere e riscrivere la stessa storia e le stesse giornate non solo dal punto di vista dei vari protagonisti, ma anche col mezzo espressivo che meglio li rappresenta: il sonetto per Michael, l'intervista per Eve, il monologo interiore per Astrid, il linguaggio algebrico per Magnus. Il risultato è tutt'altro che un meccanico esercizio di stile alla maniera di Queneau, è un romanzo dal sapore cinematografico in cui la telecamera passa di mano in mano tra i personaggi, che una volta finito il giro si scambiano i ruoli e ricominciano a interpretare la stessa storia, il solito teorema (un viandante bussa alla porta ecc. ecc.). Così Ali Smith si spinge dal già pericoloso remake del film di Pasolini all'ancor più rischioso remake nel remake. Speriamo davvero che tanta audacia venga premiata dal gradimento dei lettori.

Voci fuori campo, di Ali Smith – Ed. Feltrinelli, pp. 277, euro 16,50

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Eleanor Rigby, di Douglas Coupland https://www.threemonkeysonline.com/it/eleanor-rigby-di-douglas-coupland/ https://www.threemonkeysonline.com/it/eleanor-rigby-di-douglas-coupland/#respond Sun, 01 May 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/eleanor-rigby-di-douglas-coupland/ “Ah, guarda tutti coloro che sono soli. Ah, guarda tutti coloro che sono soli. Eleanor Rigby raccoglie il riso in chiesa, dove è stato celebrato un matrimonio, e vive in un sogno. Aspetta alla finestra, indossando il volto che conserva in una caraffa vicino alla porta: per chi tutto ciò? Tutti coloro che sono soli, […]

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“Ah, guarda tutti coloro che sono soli. Ah, guarda tutti coloro che sono soli. Eleanor Rigby raccoglie il riso in chiesa, dove è stato celebrato un matrimonio, e vive in un sogno. Aspetta alla finestra, indossando il volto che conserva in una caraffa vicino alla porta: per chi tutto ciò? Tutti coloro che sono soli, da dove vengono? Tutti coloro che sono soli, a chi appartengono?” Suona più meno così, in traduzione, l’attacco di Eleanor Rigby dei Beatles, canzone che colpisce al cuore non solo per i violini ‘rock’ voluti da McCartney, ma anche per il modello di donna (anch'esso sempreverde) tracciato acutamente in poche battute.

Solitudine e sogno, attitudine alla vita immaginaria e autostima da zitella sono anche le caratteristiche della nostra eleanorrigby@artic.ca, all’anagrafe Liz Dunn, trentasei anni portati malissimo e neanche un gatto a farle compagnia… insomma, il contrario della protagonista eponima di un romanzo. Ma solo apparentemente, perché: 1) Liz ha un sense of humour irresistibile, il suo sguardo ironico e la logorrea mentale conquistano immediatamente anche il lettore più distratto; 2) la nostra donna riflette continuamente sui vantaggi e gli svantaggi di essere single, brutta, anonima agli occhi dell’azienda, della famiglia, e in definitiva della società sempre più finta e omologante (e la cosa non può non riguardarci); 3) appena fuori da Vancouver, sua città natale, Liz si trasforma suo malgrado in una specie di Bridget Jones poco telegenica ma molto molto pericolosa. Per esempio, durante una gita scolastica a Roma, all’età di sedici anni, Liz ha fatto la sua prima ed unica esperienza sessuale, ritrovandosi incinta per grazia di un aitante sconosciuto. Il figlio nato da quel fugace e immemorabile rapporto, dato in adozione subito dopo il parto, torna all’improvviso dalla madre naturale e ne colora finalmente la vita (oltre che le pareti di casa).

Tutto questo ci viene raccontato nelle prime trenta pagine del romanzo, rischiando di ridurne la fabula a una brillante ma innocua commedia inglese. Ma con lo svilupparsi dell’azione e il ritrovato interesse del mondo (dei parenti in primis) nei confronti del brutto anatroccolo, la storia prende invece pieghe inaspettate, e Liz dovrà fare i conti con malattie inabilitanti, uso strumentale dell’handicap, ansie e orgoglio materni, e perfino con l’innamoramento. Situazioni banalmente e dolorosamente quotidiane, gestite da Coupland con le stesse armi del suo romanzo d'esordio (Generazione X), e cioè con dosi massicce di cinismo e auto-ironia ai limiti del surreale. Ora quel ragazzo prodigio è un uomo di quarantatré anni, ha affinato l’acume e il sarcasmo, e a partire da una canzonetta di Revolver ha creato una specie di libro-boomerang, tanto spassoso e avvincente in superficie quanto autentico e insidioso nel raccontare le nostre moderne insicurezze, a partire dall'ossessione per lo specchio (fisico o simbolico, ma comunque ‘giudice severo’ dell’immagine privata e pubblica di ognuno di noi).

Eleanor Rigby, di Douglas Coupland – Frassinelli, p. 277, euro 17

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Un Giorno Perfetto – Melania G. Mazzucco https://www.threemonkeysonline.com/it/un-giorno-perfetto-melania-g-mazzucco/ https://www.threemonkeysonline.com/it/un-giorno-perfetto-melania-g-mazzucco/#respond Sun, 01 May 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/un-giorno-perfetto-melania-g-mazzucco/ A dispetto del titolo vagamente rassicurante (riferito all'omonima canzone di Lou Reed e in particolare al ritornello anticipatore “stai per raccogliere quello che hai seminato”) e di una copertina dalle atmosfere tenui (nuvole bianco-celesti sovrastano una città di tetti ordinati e puliti), Un giorno perfetto è uno dei libri più spietati che mi sia capitato […]

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A dispetto del titolo vagamente rassicurante (riferito all'omonima canzone di Lou Reed e in particolare al ritornello anticipatore “stai per raccogliere quello che hai seminato”) e di una copertina dalle atmosfere tenui (nuvole bianco-celesti sovrastano una città di tetti ordinati e puliti), Un giorno perfetto è uno dei libri più spietati che mi sia capitato di leggere ultimamente, e non tanto per la vicenda di cronaca nera che apre e chiude il romanzo, simile a tante altre che, ormai anestetizzati, apprendiamo quotidianamente dai tg, quanto per la lucidità con cui è raccontata questa nostra epoca di lavoro precario, campagne elettorali populiste e vanesie, sogni piccolo-borghesi e amori impossibili da realizzare con l'aiuto della televisione. È il 4 maggio 2001, vigilia di elezioni politiche per Elio Fioravanti, onorevole a caccia degli ultimi voti nei quartieri popolari romani con supporter a pagamento al seguito (pescati tra un popolo di disoccupati). È il compleanno della sua bimba Camilla, per cui è pronta una festa principesca anch'essa elemento della parata elettorale, ed è un giorno importante anche per Maja, moglie giovane e raffinata di Elio, sospesa tra la realtà di una seconda gravidanza, di un nuovo bimbo da crescere con un politico facoltoso ma viscido, e la fantasia di scappare dal mondo pariolino con Zero, il figlio ventenne e noglobal di primo letto di Elio.

Soffocata da problemi ben più drammatici è la famiglia Buonocore, legata a quella dei Fioravanti dal fatto che Antonio è il calabrese sanguecaldo che per mestiere scorta l'onorevole e che il figlio Kevin va a scuola con Camilla. Emma, la moglie procace e decisamente sensuale del poliziotto, ha lasciato Antonio dopo l'ennesima dimostrazione manesca di gelosia, ed è tornata ad abitare dalla madre con i suoi due figli Valentina (14 anni) e Kevin (7). Dopo aver conosciuto la passione furiosa e i suoi eccessi ben poco romantici, Emma è in cerca di un amore gentile, mentre Antonio non si arrende all'idea del divorzio e del suo nido d'amore ormai vuoto.

Questo è solo un assaggio della trama del libro, che per complessità di intrecci, parentele e personaggi ricorda un film come La meglio gioventù. In quel caso, Giordana aveva condensato in una pellicola destinata al pubblico televisivo trent'anni di Storia italiana, vissuta attraverso gli amori, le amicizie, le scelte professionali e gli eventi traumatici di una famiglia (il poliziotto che si suicida, la donna che abbraccia la lotta armata, il ragazzo che diventa psichiatra applicando la legge Basaglia…). Qui Melania Mazzucco compie un'operazione simile, anche se circoscritta nel tempo: i suoi personaggi vivono una fortissima e dolorosa crescita privata, che culmina per tutti proprio in questo fatidico giorno perfetto, ma oltre al loro dramma familiare il romanzo descrive un'intera 'società di costumi': dal lavoro precario in un call center, confermato mese per mese da un sms e negato alle quarantenni (escluse da un lavoro banale ma stabile per mere ragioni anagrafiche) alle feste mondane in cui si parla di colf ecuadoriane e polacche, badanti tunisine e ucraine, e se ne fa con supponenza la classifica. Un giorno perfetto parla di ragazzine, del loro infilarsi Marilyn Manson in cuffia sull'autobus per non ascoltare la voce della madre, della mania di farsi piercing e tatuaggi per dimostrare cinque o sei anni in più (oltre che una certa personalità), della sensazione di onnipotenza data dal possesso di un'arma, dei secondi figli fatti nascere per salvare il matrimonio, della convinzione diffusa per cui 'la tv risolve i problemi', e dunque se hai un problema di cuore, di dialogo con parenti e amici, di identità, in tv c'è sempre il programma che fa per te e il presentatore che ti aiuterà a riconciliarti col mondo.

Un giorno perfetto è insomma il ritratto della nostra odiosamata Italia, e si spera che un romanzo come questo, oltre ad emozionarci per la sorte dei suoi dieci, diversissimi personaggi, e per l'abilità con cui il narratore ne incrocia i destini, ci faccia riflettere su questi nostri tempi e mode, e sull'opportunità, ormai improrogabile, di sovvertirli.

Melania G. Mazzucco – Un Giorno Perfetto
Rizzoli, pp. 410, euro 18,00

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Dirt Music – Tim Winton https://www.threemonkeysonline.com/it/dirt-music-tim-winton/ https://www.threemonkeysonline.com/it/dirt-music-tim-winton/#respond Fri, 01 Apr 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/dirt-music-tim-winton/ Ogni romanzo di Tim Winton potrebbe intitolarsi “Ti prendo e ti porto via”, perché tutte le sue storie, i personaggi maschili, i paesaggi sconfinati includono al contempo un invito e una minaccia, un vortice e una brezza fresca, un seme di tragedia e un inno all’amore passionale… La sensazione di spaesamento che ci aveva conquistato […]

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Ogni romanzo di Tim Winton potrebbe intitolarsi “Ti prendo e ti porto via”, perché tutte le sue storie, i personaggi maschili, i paesaggi sconfinati includono al contempo un invito e una minaccia, un vortice e una brezza fresca, un seme di tragedia e un inno all’amore passionale… La sensazione di spaesamento che ci aveva conquistato con i precedenti Cloudstreet e I cavalieri ritorna potentissima fin dalla prima pagina di questo Dirt Music, dove una donna quarantenne trascorre le sue giornate (e notti) sempre uguali attaccata al computer, aspettando qualche email che le porti una novità, chattando per noia e bevendo qualche bicchiere di vodka che stordisca un po’ la sua monotonia.

Georgie è un’ex infermiera che per amore di un uomo si è trasferita nel suo villaggio di pescatori e si è caricata della responsabilità di crescerne i due figli adolescenti, orfani della madre. Ma l'impressione è che si sia pentita di tanta disponibilità, al punto da esercitarsi per ‘prove di fuga’ dalla famiglia. Durante uno di questi tentativi incontra fortuitamente Luther Fox, ed è attrazione e com-passione a prima vista, un po’ come nel film Lezioni di piano. Lu è l’antitesi del marito Jim: è costretto a vivere nascosto mentre Jim è il boss del villaggio, fa il pescatore di frodo mentre l’altro con le sue barche dà da lavorare a tante famiglie; ha la sola compagnia di un cane mentre Jim ha due figli e un lutto per la prima moglie mai superato…

Come sempre accade in amore, Georgie non esita a scegliere l’alternativa più lesionista, ma a questo punto le complicazioni diventano inenarrabili almeno per due motivi: sia perché il romanzo si sviluppa anche come un thriller, per cui sarebbe sciocco anticipare le motivazioni e il senso di tanta violenza (anche se non si arriva a tagliare le dita come nel già citato Lezioni di piano, parente prossimo del romanzo per australianità, paesaggi e scandali al sole); sia perché la mole di incontri, segreti, lutti, intrecci familiari, colpe da scontare che investono Georgie, Jim e Lu è distribuita in dosi massicce, quasi da telenovela, e quindi impossibile da riassumere.

Si arriva al finale storditi da tanti inseguimenti, svelamenti, pentimenti, e fino all’ultima pagina si resta ansiosi di capire se e come i due innamorati si ricongiungeranno (e il marito troverà la sua pace). Ma purtroppo si ripone il libro delusi, stupiti per come lo stesso Winton abbia a un certo punto perso il controllo delle fila di una storia tanto rocambolesca: il finale supera infatti qualunque patto di fiducia e sospensione del giudizio stipulato col lettore. Fino alla penultima pagina, però, Dirt Music resta una bellissima, intrigantissima storia d’amore.

Dirt Music – Tim Winton, Fazi editore, pp. 410 euro 16,50

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