Quo vadis, Salvatores?

Spinto a dichiarare chi è il suo regista preferito, e ce ne sono molti che gli piacciono, Salvatores sceglie Stanley Kubrick, “perché è comunque un regista che è stato in grado di cambiare tante volte […]e questa è la cosa più bella”. Ma mentre sceglie un regista americano, ai tempi dell'Oscar Salvatores confuse diverse aspettative quando rifiutò la possibilità del grande salto hollywoodiano e continuò a lavorare in Italia, facendo film che hanno avuto in generale un profilo non così alto. “E' stata una forma di paura,” ammette candidamente. “Il sistema americano è molto diverso dal nostro. Il regista è un tecnico e licenziabile, lavori veramente all'interno di un qualcosa che è un'industria. Loro la chiamano proprio industry, intendendo 'l'industria del cinema', per dire quanto è importante per loro e controllato. Noi abbiamo ancora qui in Italia un sistema di produzione molto più artigianale. Io ero al mio terzo film, non ne sapevo molto – non che io adesso ne sappia molto di più ma un pochino di più sì – e quindi adesso con Maurizio [Totti], mano nella mano, proveremo ad andare a fare lì però i 'nostri' film. Questo è il tentativo. Penso che sia interessante il confronto con un'industria cinematografica, una tecnica diversa dalla nostra.”
Ci sono dei vantaggi per i registi europei, ma essi devono essere consci di ciò che loro hanno da offrire, e non solamente grati: “lì stanno finendo [le idee], non so se ve ne siete accorti, ma stanno finendo, quindi hanno bisogno. Allora perfetto, usiamo questo bisogno, loro hanno altre cose, sostanzialmente i soldi, e la notorietà nel mondo. C'è un film americano, però si rivolge al mondo quando esce; mentre un nostro film se già si rivolge a tutto il territorio nazionale è già molto fortunato”.

A questo punto la domanda successiva è obbligata: perché il cinema italiano non ha maggior seguito all'estero? Dalla moda alle auto sportive, il mondo si inchina ai prodotti italiani, ma i film raramente hanno successo al di fuori dei confini nazionali. “Noi siamo figli nella cinematografia di due genitori importantissimi,” si affretta a rispondere come se questa fosse una questione su cui ha meditato a lungo, “che sono il neorealismo da una parte e la commedia all'italiana dall'altro, due generi cinematografici italiani nati tra gli anni '50 e '60 che hanno reso veramente famoso il cinema italiano nel mondo. Grazie a un'idea fondamentale nascono queste due cose: non facciamo più film 'di teatro', dei telefoni bianchi, tutto finto, gli attori che recitavano in una certa maniera. A qualcuno in Italia è venuto in mente 'no, prendiamo qualcuno dalla strada, riprendiamo quei sorrisi lì [indica una bimbetta] che sono molto più veri e sinceri […] e giriamo nei luoghi reali', perché non c'erano soldi per costruire. Questa idea, che era un pensiero, un qualcosa che era stato poi elaborato, ha reso celebre il cinema italiano. E siamo poi rimasti un po' legati a questo papà e a questa mamma, che sono importanti, ma che, come tutti i papà e tutte le mamme, vanno uccisi, o perlomeno superati. Il problema che abbiamo noi è un pochino questa sudditanza verso questi due generi, in cui l'autore deve raccontare sé stesso davanti al mondo, e che a volte ha creato dei problemi. Per esempio qui in Italia i generi, e cioè il giallo, il noir, il western, la fantascienza, non sono più frequentati, o raramente. E' un po' come se fossero considerati cinema di serie B. […] Voglio dire che in genere tendiamo un pochino troppo a costruire delle storie che parlano di noi del nostro cortile e invece dovremmo forse alzare lo sguardo e dire siamo qui, con i piedi piantati in questa nazione, questa cultura e queste radici però la cosa bella è con queste radici guardare il mondo e raccontare storie che investono tutti. Ecco perché facciamo un po' fatica a uscire [ad esportare il cinema italiano].”

Ci sono anche, tuttavia, problemi strutturali: “l'Italia è veramente un Paese ridicolo da molti punti di vista e lo è anche per il cinema. Qui si parla di libero mercato, di profitti, di investimenti che devono riprendere dei soldi,” commenta, incredulo. “Noi siamo l'unico Paese che finanzia dei film col denaro pubblico poi non fà assolutamente nulla per riprendersi almeno questi soldi. In Francia per esempio i film finanziati dallo Stato hanno almeno la garanzia di uscire nelle sale, di una distribuzione, di un appoggio sull'estero, c'è promozione del cinema francese all'estero. A noi non ce ne frega niente”. Continua con una metafora che, forse inconsciamente, evoca il recente referendum sulla procreazione assisitita. Una metafora che riguarda la produzione cinematografica, ma che prende un respiro più ampio: “noi siamo molto bravi a fare i bambini, e poi non ci occupiamo di loro. Che è il delitto più grande, perché fare un bambino è facile, a volte anche piacevole, anzi spesso piacevole, ma l'avere vero amore secondo me nasce poi quando questo bambino c'è, quando nasce e cresce e devi pensare ad un altro e non solo ed unicamente sempre solo al
tuo interesse. E' questo che ai nostri politici proprio non entra in testa, è ovvio che, da quello che fanno, l'interesse degli altri è solamente secondario rispetto al proprio. In questo momento in particolar modo”.
Salvatores è uno dei tanti artisti italiani che ha apertamente criticato il capo del governo Berlusconi e la sua amministrazione. L'Italia, adesso più che mai, a sentire artisti tipo Salvatores ha bisogno di affrontare se stessa e guardarsi in uno specchio che riveli non solo la superficialità, il sole e le ville al mare, ma anche gli aspetti più brutti che lì sotto si nascondono. “Non sono io,” conclude Salvatores, “è Giorgio Bocca che lo dice, su dieci leggi varate dal nostro Parlamento, otto sono legate agli interessi del nostro Primo Ministro.”


Quo Vadis, Baby? – Una recensione

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