OUT OF THE ASHES. LA RICERCA DELL’IDENTITA’ EBRAICA NEL XI° SECOLO

Molti hanno dato per scontato che il post-Olocausto e che la sopravvivenza degli ebrei siano legati alla creazione e al mantenimento di uno stato di Israele. Lei ha suggerito che ciò non può essere dato per scontato e dovrebbe essere dimostrato dal mondo intellettuale ebraico. Ma il peso della storia non insegna una cosa diversa? Ossia che gli ebrei in esilio hanno subito ripetutamente persecuzioni e un genocidio?

Ebrei ed ebraismo sopravviveranno con o senza Israele. Ma non è mia intenzione mettere in dubbio se Israele debba esistere o meno. Ho posizioni moderate riguardo all’esistenza di Israele, sulla soluzione del conflitto tra Israele e Palestina. Israele esiste. Non ci dovrebbero essere discussioni sulla sua esistenza. La dimostrazione che intendo io ha a che vedere con la configurazione di Israele e Palestina. Qui ogni soluzione è suscettibile di discussione, razionalmente, democraticamente e senza mai perdere di vista gli interessi della gente comune, ebrea e palestinese.

Fino a che punto essere israeliano significa essere ebreo? O, in altre parole, fino a che punto le azioni dello stato di Israele influenzano l’identità ebraica? Un ebreo americano, per esempio, ha il dovere di esprimersi contro l’ingiustizia della questione ebraico-palestinese più di un cittadino europeo non ebreo?

L’identità ebraica è profondamente influenzata dallo stato di Israele. Io non faccio distinzioni tra cittadini ebrei di Israele ed ebrei che vivono fuori dallo stato. Siamo tutti responsabili del modo di vivere ebraico. La divisione fondamentale non è tra gli ebrei che vivono nello stato di Israele e gli ebrei della diaspora. La divisione è tra ebrei costantiniani ed ebrei di coscienza. Si possono trovare ebrei costantiniani sia in Israele che nella diaspora; come in entrambi i luoghi si possono trovare ebrei di coscienza.

Una delle cose che si notano in Irlanda riguardo ai 'Troubles' [N.d.T.: letteralmente 'Problemi' – con questa dicitura in Irlanda si intende l'annosa questione del Nord Irlanda] è lo scetticismo, spesso giustificato, da parte di coloro che vivono al di fuori e che esprimono la propria opinione sul conflitto, senza aver alcun legame, ne’ intimo ne’ personale, con la quotidianità del conflitto stesso – la comunità irlandese americana, per fare un esempio. In riferimento alle sue pubblicazioni, lei ha notato un simile scetticismo da parte della comunità israeliana? E in caso affermativo, come lo ha affrontato?

Naturalmente ho dovuto affrontare lo scetticismo, anche se recentemente si è attenuato. Gli ebrei israeliani di coscienza capiscono di essere a un punto morto: il muro che Israele sta costruendo esclude la possibilità che gli ebrei israeliani vivano una vita etica. Ma, come ho detto, gli ebrei costantiniani d’America non sono migliori di quegli ebrei che costruiscono il muro. Sono esattamente la stessa cosa.

Nelle sue opere ha spesso auspicato un atteggiamento solidale nei confronti dei palestinesi. Ciò è possibile, se gli attentati dei kamikaze continueranno?

Gli attentati kamikaze sono il risultato di una devastazione abbattutasi sul popolo palestinese e che sembra non avere fine. Gli ebrei di coscienza sono solidali con il diritto dei palestinesi di essere liberi nella loro terra. Ciò significa opporsi alle politiche che spingono le persone a commettere atti di disperazione.

Gli ebrei di coscienza hanno un ruolo nelle imminenti elezioni americane? Non ci troviamo forse di fronte al caso in cui la violenza di stato in Israele è apertamente appoggiata dagli Stati Uniti e che ne’ i democratici ne’ i repubblicani potranno cambiare questa situazione?

Entrambi i partiti hanno essenzialmente le stesse politiche riguardo a Israele e ai palestinesi. Kerry non è diverso da Bush per quel che concerne ciò che l’America sta facendo riguardo all’abuso di potere di Israele. E non sono diversi neanche da Clinton. Le elezioni presidenziali americane sembrano sempre portare con se’ la possibilità di salvezza. Io lo definisco un 'mito di salvezza'. Ne esistono molti di questi miti di salvezza.

“E come potrei spiegare al pubblico di ebrei e di palestinesi che il problema, secondo me, non riguardava tanto Begin, Sharon e Shamir, benché essi costituissero un vero problema, ma piuttosto gli ebrei progressisti….perché essi sono coloro che, prima e dopo Sabra e Shatilla, che prima e durante la rivolta palestinese, hanno definito i parametri del dissenso – il regno del pensiero concepibile – il confine oltre al quale viene invocata la scomunica”2. Davvero Sharon è un problema maggiore degli ebrei progressisti?

Sì e no. Ad ogni modo, la differenza è minima. Prendiamo il Tikkun, il principale quotidiano ebraico progressista; per anni e anni ha sostenuto l’esistenza di un piccolo stato palestinese senza esercito ne’ controlli dei confini. Gli insediamenti attorno a Gerusalemme, la massiccia intrusione nella West Bank, non vengono quasi mai menzionate. Il Tikkun non fa altro che fare la predica ai palestinesi, in quanto persone e in quanto entità politica.

Quale pensa che sia oggi un modo di guardare avanti, sia sul piano pratico che su quello ideologico?

Sul piano pratico ci sono due stati riconosciuti a livello internazionale. Non solo una giustizia, per essere sicuri che ciò avvenga, ma la possibilità per i palestinesi di sopravvivere e cominciare a ricostruire. Ma questo non succederà. In questo momento è solo un altro mito di salvezza.

E sul piano ideologico – secondo lei, qual è la soluzione che porterà giustizia?

Ora come ora la soluzione ideale è troppo lontana e parlarne getterebbe solo benzina sul fuoco della delusione. Incoraggerebbe sogni irrealizzabili. Potrebbe diventare un pretesto per evitare le difficoltà reali.

1 (Out of the Ashes, pg 178)2 The Link – Americans for Middle East Understanding Volume 24, Issue 2

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