Niente di nuovo: Globalizzazione ed economia nel 19° secolo.

Quali insegnamenti deve trarre il 21° secolo dallo studio del commercio e della globalizzazione del 19° secolo?

Per prima cosa che i paesi poveri possono trarre enorme profitto dall’immigrazione. Mettendo la popolazione di certe nazioni nell’impossibilità di emigrare, ostacoliamo il progresso dei paesi in via di sviluppo in termini di qualità della vita. In secondo luogo l’immigrazione, il commercio e altre dimensioni della globalizzazione influiscono sulla distribuzione del reddito in modi diversi in paesi differenti. La fine del 19° secolo vide vincitori e vinti: la mano d’opera non specializzata irlandese, per esempio, trasse vantaggio dall’emigrazione dei suoi compatrioti: i salari aumentarono notevolmente. I contadini europei, al contrario, ci rimisero, in quanto generi alimentari a buon mercato venivano importati dagli Stati Uniti e dall’Ucraina. Inoltre, poiché vi furono vincitori e vinti, le reazioni politiche furono inevitabili. I governi reagirono alle pressioni aumentando le tariffe o imponendo restrizioni all’immigrazione. Ma se si vogliono mantenere i mercati aperti bisogna essere consapevoli che vi saranno sempre vincitori e vinti e di conseguenza occorre adottare politiche complementari che, in un modo o nell’altro, vadano a sostegno di chi ha perso. Questo è quello che in effetti accadde in Europa nel 19° secolo. Molti degli odierni programmi di assistenza affondano le loro radici in questo periodo. Esistevano piani pensionistici e di assistenza per i disoccupati, regolamentazioni del mercato del lavoro che tutelavano i lavoratori oltre a tutte quelle condizioni necessarie al mantenimento dell’apertura dei mercati e del libero commercio. Per quel che riguarda i paesi in via di sviluppo, un mercato aperto li agevola sicuramente. La Cina e l’India stanno crescendo rapidamente grazie all’esportazione ma allo stesso tempo le tensioni all’i
nterno di questi due paesi le costringeranno ad installare reti di sicurezza per consentire il proseguimento di questo processo.

Lei ha citato l’immigrazione come una delle lezioni del 19° secolo. È essenziale per i paesi in via di sviluppo?

In linea di principio esistono altri aspetti della globalizzazione che sostituiscono l’immigrazione. Se un paese riesce ad attirare il capitale non è necessario che mandi poi la sua mano d’opera a cercare lavoro in altri paesi. Ma una cosa che abbiamo imparato è che il capitale non sempre, anzi assai di rado, va nei paesi poveri alla ricerca di mano d’opera a buon mercato. È una cosa che non accadeva nel 19° secolo e che non accade nemmeno oggi.

In definitiva quello di cui questi paesi hanno bisogno è la crescita economica, cosa che necessita di oculate politiche interne. Vi sono certe cose che non favoriscono la crescita: guerre civili e dittature che non garantiscono i diritti individuali. I paesi non possono considerare il mercato internazionale come un rimedio per tutti i mali, devono prima sistemare le cose al loro interno. Ma è chiaro che, una volta sistemate le cose all’interno del paese, è comunque difficile crescere se i paesi ricchi impediscono l’esportazione. Sul piano politico, mi sentirei di affermare che la situazione è più difficile per un paese che esporta beni piuttosto che forza lavoro, perché esisteranno sempre barriere all’immigrazione. Se si limita l’immigrazione si assisterà a fenomeni raccogliticci come quello delle politiche agricole comuni. Dobbiamo smettere di impedire a questi paesi di esportare quei beni che essi sono in grado di esportare.

Una delle cose che più ci differenziano dal 19° secolo è proprio l’emergenza costituita dai grossi blocchi commerciali quali l’Unione Europea e il NAFTA (North America Free Trade Arrangement).

Questa è una delle differenze. Un’altra, e più rilevante, differenza è che il paese più potente ed importante del 19° secolo, ossia l’Inghilterra, aprì, in modo unilaterale, il mercato ai paesi in via di sviluppo. Era meno difficile esportare materie prime, cibo e altri prodotti in Inghilterra. Mentre oggi l’America e i paesi europei ostacolano in modo sistematico la crescita attraverso il commercio dei paesi in via di sviluppo.

Lei ha studiato la relazione tra parità/disparità e globalizzazione. A quale è conclusione è giunto? La globalizzazione favorisce la parità o la disparità?

La risposta a questa domanda è: dipende. Dipende a quale paese e a quale dimensione della globalizzazione ci riferiamo. Se si considera l’immigrazione di forza lavoro non specializzata, questo farà levitare i salari della forza lavoro non specializzata nei paesi più poveri, il che è un bene per la parità; ma allo stesso tempo, questo fenomeno farà abbassare i salari della forza lavoro non specializzata o farà aumentare la disoccupazione della forza lavoro specializzata nei paesi più ricchi, il che è un male per la parità. Dipende quindi dal paese e dagli aspetti considerati. L’importazione di mano d’opera specializzata in Irlanda avrà un certo effetto ma se, per esempio, l’Irlanda importasse a costi inferiori molta forza lavoro qualificata tipo dottori e ingegneri questo avrebbe un effetto molto diverso. La conseguenza ultima di tutto questo è che generalizzare è impossibile.

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