L'escretore di canzoni: Glen Hansard dei Frames a colloquio con Three Monkeys Online


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This article originally appeared in the english version of the magazine here.

Ci sono cantautori che parlano con timore riverenziale dell’ispirazione delle proprie canzoni, come se la musa aristica fosse veramente una dea che potrebbe offendersi per mancanza di rispetto e andarsene. Il lead singer dei Frames ha una spiegazione più sanguigna sul da dove vengono le sue canzoni: “Fondamentalemente tutte le canzoni sono dei residui. Per me sono solo delle schifezze. Non sono pezzi di artigianato. Immaginati una lumaca che lascia la sua striscia, poi se ne va a morire da qualche parte, e per anni rimane una striatura argentata sulla parete del tuo capanno da giardino. Sembra bellissima, ma [fa una pausa] io immagino sempre che la gente che produce l’arte semplicemente viva la sua vita. Non importa se conducono una vita buona o cattiva, ma in ogni modo si lasciano dietro questi incrementi di tempo, pezzetti, tracce del paesaggio emozionale o della mappatura emozionale che si svolgeva a quei tempi. Qualche volta, semplicemente lasciamo cadere una canzone, letteralmente la secerniamo. Ecco come funziona. Io non me ne sto seduto a fabbricarla. Le canzoni che ho creato, generalemente non le canto più dopo un paio di mesi. Vado e le suono dal vivo, ma non hanno una risonanza. Sono state costruite, non vissute. Le canzoni che vengono escrete restano con te per sempre, per qualche motivo. Qualsiasi modo usi per secernerle dai tuoi pori, significa qualcosa per te.”

Prevedibilmente, le metafore vengono facilmente ad Hansard: “A volte si scrive una canzone senza avere idea di cosa significhi, sai solo che ti piace. Le canzoni sono come delle selle: le metti su e calzano bene. Puoi cavalcare quella canzone, se capisci cosa voglio dire, se riesci ad immaginare una canzone come un cavallo. Ti sembra giusto. Invece altre canzoni ti danno la sensazione di sbagliato, e quelle muoiono. Hanno vita breve e muoiono.”

Tutto questo non è per dire che Hansard non riconosca e non rispetti l’arte di scrivere canzoni, solo che, per lui, non è questa la maniera di scriverle. “Credo che il dono di saper scrivere canzoni sia spettacolare”, si entusiasma. “Ci sono persone che si mettono lì sedute, con una tazza di caffè, e dicono ‘oggi è un giorno lavorativo’, e tra la mattina e l’ora di pranzo, hanno costruito una canzone. Credo che sia fantastico, cazzo! La gente che sa fare così ha del talento. Io non sono capace. Casco dal letto alle quattro di pomeriggio, magno, esco. La evito. Evito la musica più che posso. Fino a quando mi acchiappa. A essere onesto, l’ho sempre evitata, ed è sempre successo in ogni caso. Col passare del tempo, mi ci sono applicato un po’ di più, perché è la mia fonte di sostentamento adesso. E’ quello che faccio. Però è una relazione strana, perché non voglio che si trasformi in qualcosa che devo fare. Non voglio neanche dover podurre un disco all’anno per mantenermi.”

Siamo tornati al bisogno: “Quando non siamo in tournée, onestamente, non prendo mai su una chitarra fino a quando non devo farlo. Fino a che la noia o la depressione mi porta al livello in cui devo prenderla su [mima l’atto di prendere in mano una chitarra con la fronte aggrottata]. Ecco quando la musica viene a me in maniera spontanea. Non dico a me stesso ‘Ok, adesso sono depresso, scrivo una canzone’. Non è così, non esiste una relazione. Non ho mai avuto delle scadenze per cui qualcuno mi dice: ‘Devi andare a casa e scrivere dei brani per il prossimo album’, anche se so come si fa. Quel che devo fare è andare a casa, spegnere la TV, la radio, perché il buio è solo a due passi di distanza, o ventiquattr’ore in un edificio da soli prima di iniziare a vedere i demoni, prima che i muri inizino a brulicare, hai presente? Mi è se
mpre stato accessibile. Come dicevo, se arrivi a casa e le mura risuonano dei rumori dei bambini, e la cena si sta cuocendo, non si riesce a scrivere una canzone, ci si siede là felici, con un sorriso a trentasei denti!”, conclude, battendosi la pancia quasi anticipando il piacere della cena quella sera nel ristorante dell’albergo.

I Frames hanno una vasta collezione di brani, che vanno da versi puramente personali a storie intricatissime tipo la summenzionata Santa Maria. Concludo con una domanda che non mi pare mai perdere di validità con i cantautori. Si tratta dell’eterna questione sull’opportunità o meno per un paroliere di mescolare musica e politica nelle proprie canzoni. “Non ho mai avuto un gran interesse nella politica, a dire la verità”, risponde quasi automaticamente, poi prosegue: “La sento accadere tutto intorno a me, ma è come se fosse un rumore di sottofondo. Non so se sono stato fortunato o meno ad aver vissuto una vita in cui non ho bisogno di prendervi parte. Non mi alimenta; non mi esaurisce. Semplicemente esiste. Ne so quanto basta per poterne parlare, ma non mi appassiona. Politica e musica? Per me, e questo può sembrare ipocrita [esita], ma vaffanculo, magari lo sono [ride], la musica è medicina e sogno. Per me ecco cos’è la musica, quando è al suo meglio. Fa fermare il tempo. E’ un balsamo. Per me la musica è un momento di pace e di calma, ironicamente. La poesia d’altro canto è differente. La poesia fa ribollire il sangue. La poesia fa andare gli uomini in guerra. Se ascolti uno qualsiasi dei discorsi di Bush o di Al-Qaeda, è tutta poesia, ed questo ciò che spinge gli uomini ad uccidere. Per me il cantare una canzone politica sarebbe come cercare di venderti una Volvo, solo perché sarebbe come venderti un’idea. Se scrivessi una canzone su di una situazione, qualcuno lo può fare in maniera molto convincente, ma io non credo di esserne capace. E’ qualcosa che ammiro. Ammiro Damien Dempsey per esempio. Non è neanche che lui scrive canzoni politiche, scrive di situazioni sociali e della sua gente. Devi essere molto forte per scrivere e cantare canzoni così. Si può considerare qualcuno di questo tipo come un trovatore, un eraldo, che non è quello che sono io. Io sono più un cinemino. Sono un cinemino internazionale all’angolo della piazza principale in città, che ti invita a dare un’occhiata. Segui la trama e scordati della politica per un po’. Mi hanno sempre creato problemi quelle persone che salgono sul palcoscenico e cantano quelle canzoni. Per quanto ami Dylan, e per quanto ami tanti altri cantanti che l’hanno fatto, a mio parere vendere un’idea è come usare la musica per vendere McDonalds. E’ sbagliato. Non è che il commercio sia sbagliato, no, ma non sta nello stesso reame della musica. E’ come usare le donne nude per vendere la birra. Le donne nude sono bellissime, sono sacre. Sono state considerate per millenni come la sorgente di ogni ispirazione umana, eppure mettono una donna con un reggiseno a stelle e strisce e una bottiglia di Budweiser – si prende qualcosa di sacro per vendere un paio di bottiglie.”

Più tardi quella sera, in una iperdiscoteca tappezzata di festoni con le bandiere britanniche, da qualche parte in mezzo alla campagna, le domande sulla politica, sull’etica e sull’industria musicale spariscono, mentre la band si esibisce con entusiasmo nel suo reportorio vecchio e nuovo, che per la maggiorparte del pubblico non fa alcuna differenza. I fan, alcuni dei quali sono arrivati dall’Austria nonché da diverse zone d’Italia, sono relativamente pochi, ma estremamente entusiasti. Anche quelli che sono arrivati lì per caso per assistere al concerto, attirati dalla serata brit-pop, battono il tempo con il piede. Ci saranno anche conflitti e contraddizioni nella loro testa, ma quando i Frames sono sul palco, di questi non v’è traccia.

Quando sono sul palco, sono straordinari.

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