Il Poeta della Prosa – Intervista a Jim Crace

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This article originally appeared in the english version of the magazine here.

Effettivamente, per essere un libro basato su di un ottimistico racconto di amore e relazione, Six possiede veramente un cuore oscuro. La storia è ambientata in una città immaginaria, ritratta in maniera talmente vivida che, come giustamente suggerisce un critico letterario del britannico Independent, “non vedi l’ora di organizzartici un week-end”. Mentre l’autore della recensione aveva ragione dal punto di vista del dettaglio realistico, mi permetto di dissentire sull’idea di prenotare un volo verso una città corredata di squadre di celerini sulle strade e repressione politica su vasta scala. Quando mi spiega cosa sta dietro a questa particolare ambientazione, Crace mi fà nascere lo strano sospetto che a lui piacerebbe un mondo trovare un volo low-cost verso un ambiente così carico dal punto di vista politico: “ha tutto il carattere di una nazione dell’Europa dell’est prima che venisse giù il muro, ma non la politica, che è invece più simile a quella di estrema destra di un Paese sudamericano, quindi è davvero un posto ben assortito. Non volevo una mia versione di una città reale. Volevo inventare una città che fosse, in qualche maniera, a causa della sua repressione, creativa emozionalmente e culturalmente e artisticamente. Una delle particolarità della vita artistisca è proprio questa. Considera alcuni di quei libri meravigliosi che sono saltati fuori dalla Russia sovietica, un posto in cui ci si doveva rivolgere necessariamente alla letteratura per la verità, perché la Pravda, che significa verità, non la forniva. Considera la letteratura odierna in Inghilterra. Non credo che le democrazie borghesi e liberali tipo la nostra siano un ambiente molto adatto alla produzione di capolavori della letteratura, perché siamo troppo a nostro agio. Penso che era questo che volevo mettere in evidenza in Six. Mi sono sentito nello stesso modo nella vita reale, in momenti di grandi sconvolgimenti politici (le marce di Aldermaston, la Poll Tax [N.d.T.: tributo che un individuo doveva versare indipendentemente dal suo reddito, dai beni posseduti, e dalle tasse pagate], le dimostrazioni contro la guerra in Iraq e decine di altri esempi). Anche se io presento me stesso come inorridito al pensiero dei motivi per cui devo venire allo scoperto a fare dimostrazioni, devo ammettere che c’è una parte di me stesso entusiasta di aver l’opportunità di scendere in piazza, e credo che questo si colga in Six. C’è qualcosa di emozionante nel darsi all’attivismo politico. E infatti, l’ultimo libro che ho intenzione di scrivere, perché non posso scrivere libri per sempre, affronterà proprio questo argomento. Parlerà di un uomo che si è atteggiato politicamente tutta la vita ma non ha mai fatto qualcosa di pericoloso da punto di vista politico, e arrivato sulla cinquantina fà qualcosa di veramente sciocco e pericoloso ma coraggioso per cercare di porvi rimedio”. Poi aggiunge, quasi en passant, “questo sarà tra tre libri, poi smetto”.

Questa è una delle cose secondo me più affascinanti a proposito di Crace, e cioè che in qualsiasi momento sembra avere in mente un’idea precisa del suo prossimo libro, ma anche forse dei due-tre successivi. Ed è talmente sicuro di sé da poterne parlare apertamente: “Al momento sto scrivendo The Pest House, sul futuro medievale dell’America. Che finirò entro quest’anno. Poi ci sarà un libro intitolato Archipelago [N.d.T.: Arcipelago], che parla di qualcuno che si reca a visitare un arcipelago [di isole] e arriva in isole sempre più remote, scoprendo il proprio lato più remoto. E’ un libro decisamente metaforico, con l’incontro con i genitori morti e tutto il resto”.

Ma come fa a tener separati i vari libri? Sarà pure fonte di distrazione il lavorare allo stesso tempo a più di un progetto? La risposta, almeno per lui, è semplice e anzi non può celare una sorta di sorpresa per l’inanità della domanda: “Non si mischiano sullo schermo. Qualche volta può capitare che un’idea che pensavi di mettere in un libro successivo trovi invece posto nel libro che stai scrivendo. Capita. Ma non è difficile. E’ come un pittore che ha tre grandi tele che progrediscono allo stesso tempo nello stesso atelier. Magari ne ha schizzati due e sta lavorando al terzo, non c’è nessuna confusione. Quello che c’è sulal tela è quello a cui stai lavorando. Non è difficile. Anzi il contrario, perché se stessi scrivendo un romanzo e non avessi altre idee che mi girano in testa, quello sì che sarebbe un problema”.

Ha le idee chiare in merito al futuro, e ragionevolmente chiare su quando appenderà il mestiere di scrittore al gancio. “Fra tre libri ci sarà l’ultimo libro [come si diceva, il libro che parla del cinquantenne che compie il gran gesto politico]. Credo che quello sarà l’ultimo. Lo so che continuo a dire che smetterà dopo il prossimo, ma compirò 59 anni fra un paio di settimane, sessantacinque anni sembra un momento perfetto per andare in pensione, prima che arrivi l’amarezza”.

Continua con la sua spiegazione: “Se ti guardi intorno, che possono aspettarsi la maggiorparte degli scrittori ai loro inizi? Ecco, la maggiorparte possono aspettarsi di non trovare nessuno disposto a pubblicare i loro lavori, e quelli che arrivano sul mercato possono aspettarsi di non raggiungere il successo, e quelli che lo ottengono, possono aspettarsi che il successo non duri a lungo. Io ho avuto una fortuna pazzesca. Non pretendo di essere Philip Roth o Ian McEwan, con una carriera duratura e un futuro promettente. O Margaret Atwood o J.M. Coetze. Questi autori sono quasi al di là di ogni critica. Io non sono parte di questi scrittori. Io vedo che la maggiorparte degli scrittori che hanno avuto un po’ di successo, e che continuano a scrivere, e magari migliorano pure, raggiungono un punto in cui nessuno li legge più! Voglio dire, quanti libri scritti da me è possibile che uno legga? Ti immagini già il tipo di roba che ti aspetta. Passerò di moda, se non è già successo. Non si vuole arrivare a 67 anni e scrivere un romanzo quando ci si sente amareggiati e messi da parte. Ci sonop parecchi scrittori, non farò nomi, di questo tipo”.

L’altro tono che caratterizza Crace a colloquio è quello dell’auto-denigrazione. In parte risale al fatto che, prima di scrivere il suo primo romanzo, era un giornalista di successo. “Perché quella parte di me stesso, – ragiona Crace, – che si vergogna del genere di libro che scrivo si rende conto, come si rendeva conto al tempo in cui ero un giornalista, che è possibile occuparsi di grandi argomenti da giornalista. Suona falso dire che io, da scrittore, possa cambiare i cuori e le menti delle persone, perché quando osservo le persone che vengono alle letture pubbliche dei miei libri, [mi rendo conto che] sono dei cloni di me stesso. Puoi incontrare qualcuno che è un fan dei miei libri e è contrario alla guerra in Iraq, attento a non mangiare carne rossa, eccetera. Il tipo di persone che legge i miei libri mi assomigliano. Quando facevo il giornalista, nion era così. L’ultimo giornale per cui ho lavorato era il Sunday Times, in cui c’era la possibilità di un pubblico di 7 milioni, la maggiorparte dei quali non era come me, quindi c’era la possibilità di affrontare degli argomenti e magari cambiare la mentalità delle persone. Per una persona politicizzata, questo era qualcosa di importanza fondamentale ed è qualcosa che non posso fare ora, da scrittore. Mi manca questo, questo senso di avere un ruolo. Quello che faccio sembra un po’ da dilettanti, a dirti la verità”.

Niente da dire, ma mi permetto di mettere in evidenva qualcosa che lui sa benissimo, che la forza dei suoi libri si fonda precisamente sul fatto che essi possiedono un tale grado di ambiguità e complessità da affascinare un pubblico ben diversificato. Coem dimostrato dalla posta dei suoi ammiratori del solo Il diavolo nel deserto. Sotto pressione, ammette che “forse sto esagerando un po’ quando dico che i miei lettori sono tutti miei cloni, ma meglio questa esagerazione che quella opposta in cui gli scrittori sovrastimano il significato delle proprie opere, in cui gli scrittori immaginano che, grazie al romanzo che hanno scritto, saranno aperte loro le porte del Paradiso. Questi sono quegli autori che non psseggono una vita politica, che non hanno una vita al di là della letteratura e che sono conviunti che la letteratura sia la risposta ad ogni esigenza, e naturalemente non lo è! E’ pericoloso fingere che lo sia. Ciò che è importante nella vita è avere una qualche forma di trascendenza, e noi atei non abbiamo neppura la terminologia adatta per esprimere questo, ma può essere qualsiasi tipo, dalla falegnameria al flauto, ma quel che importa è che la gente abbia una vita ed un mondo di fantasia, poiché è questo che gratifica. Non è necessariamente importante che [la gente] legga romanzi. Risulta dannoso per gli scrittori pretendere che lo sia. Cosa ancora più importante, risulta dannoso per il libro che uno sta scrivendo il continuare a ripetersi che esso sia di immenso valore. E’ preribile dire a se stessi che il libro non ha alcun valore, per creare così l’impulso a migliorarsi. Parte della mia autodenigrazione è in realtà una strategia per far sì che io a) non mi trasformi in un mostro (che è fonte di tentazione per tutti gli scrittori) e b) sia disciplinato per quanto riguarda questo argomento”.

Crace è molto famoso, non solo nel Regno Unito, ma anche in America e in Europa. E anzi molti critici letterari fanno particolare riferimento a scrittori europei quando trattano delle sue opere. C’è un’influenza europea nei suoi lavori? “Io non trascrivo altri libri, ma mi sento europeo e leggo molti autori europei. Gunter Grass è qualcuno per cui nutro molta ammirazione, e così pure Calvino e Primo Levi. Un po’ meno Kundera, molto di più i latinoamericani del realismo magico. I miei romanzi non sono come il romanzo inglese classico. Esso è realistico, autobiografico. Il tono è molto ironico. L’ironia è il grande contributo degli inglesi alla letteratura, ed allo stesso tempo la nostra scelta automatica e il tono caratteristico in ogni situaziuone dalla politica alle cene fra amici. L’ironia è ciò che ci permette di essere seri senza sembrarlo, perché la serietà ci imbarazza molto. ‘Intellettuale’ è un’offesa in Gran Bretagna invece che un complimento. Nella mia vita privata, sono una persona ironica e mi piace il tono ironico, ma i miei libri non sono ironici per niente. Sono molto moralistici.”

Prosegue sul tema del tono moralistico dei suoi libri: “Sono perfettamente conscio che, nonostante le mie affermazioni su come la penso in termini di religione, ci sia un grado notevole di ambiguità sia in me che nei miei libri per quanto riguarda la spiritualità. C’è una spiritualità che ti viene incontro in un modo molto all’antica, biblico. Ma poi io nego l’esistenza di Dio. Quello che faccio è sostituire a Dio la storia naturale. Sostengo che il mondo sia una cosa fatta dall’interna piuttosto che dall’esterno, ma poi mi comporto come un prete all’antica. Ci fu una recensione in cui si riferirono a me come il Reverendo Crace, che per un attimo mi fece arrabbiare, ma poi mi divertì perché è veramente azzeccata. Sono un moralista e faccio paternali nei miei libri. C’è una certa ambiguità in tutto ciò.”

Il reverendo Crace però utilizza anche un forte senso di malizia nella sua narrativa, più apertamente nella bellissima collezione di storielle La dispensa del diavolo, in cui per esempio ha messo nella prefazione una citazione dal libro delle Visitazioni, un libro apocrifo della Bibbia, inventata da se stesso. Ingannò parecchie persone. “Sono una persona prona alla marachella e si vede. Alcuni aspetti del proprio carattere traspirano nei libri, è inevitabile. Non c’è scampo. Sono conscio quando vado alle letture pubbliche del tipo di persona che la gente si aspetta. Si aspetta, come ha detto qualcuno a Galway [Irlanda] in occasione di una delle mie letture in pubblico, una specie di profeta dal viso arcigno e i capelli lunghi, che si erano immaginati dopo aver letto Il diavolo nel deserto e Una storia naturale dell’amore. E invece hanno detto, ‘si è presentato con le mani intasca, fischiettando e avrebbe potuto essere un qualsiasi padre di famiglia’ [ride]. La solennità dei libri però, la seriosità imbarazzata, sono una parte nascosta del mio carattere. Ma non te ne accorgeresti se mi incontrassi”.

Sia che discuta di urbanistica (Arcadia), del modo in cui cibo e mangiare siano cuciti a doppio filo al nostro tessuto sociale (La dispensa del diavolo) o di credenze religiose, o della loro mancanza (Il diavolo nel deserto e Una storia naturale dell’amore), le opere di Crace contengono sempre una complessa miscela di inventiva, cura del dettaglio, solennità e malizia. Durante la nostra conversazione, quando si discuteva della sua tortuosità inventiva, mi ha detto qualcosa che mi pare riassuma la maggiorparte della sua pulsione creativa, ed è un punto come un altro per terminare l’articolo: “Rimango invariatamente sconcertato quando la gente si arrabbia o resta confusa dai sotterfugi della fiction, e ti dicono: ‘ma ci hai ingannati’, e potrà anche essere ingenuo, ma ancora oggi io penso ‘No, non vi ho mentito. Non tentavo di ingannarvi, non è stato per mancanza di generosità. Anzi si trattava proprio di generosità: vi stavo raccontando una storia. Ho provato di raccontarti una storia che funzioni, cui voi possiate credere’”.


www.jim-crace.com (in inglese)

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