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Robert Looby – Three Monkeys Online Italiano https://www.threemonkeysonline.com/it La Rivista Gratuita di Attualità & Cultura Thu, 08 Dec 2016 08:16:06 +0000 en-US hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.0.21 110413507 Ancora in lotta contro l'apartheid – Three Monkeys intervista l'attivista sudafricano Denis Brutus https://www.threemonkeysonline.com/it/ancora-in-lotta-contro-lapartheid-three-monkeys-intervista-lattivista-sudafricano-denis-brutus/ https://www.threemonkeysonline.com/it/ancora-in-lotta-contro-lapartheid-three-monkeys-intervista-lattivista-sudafricano-denis-brutus/#respond Wed, 01 Jun 2005 09:00:39 +0000 https://www.threemonkeysonline.com/it/bwp/ancora-in-lotta-contro-lapartheid-three-monkeys-intervista-lattivista-sudafricano-denis-brutus/ Denis Brutus, nato nel 1924 da genitori sudafricani nella, all’epoca, Rodesia Britannica, finì sulle prime pagine dei giornali (e in carcere) quando, negli anni '60, condusse una campagna per il boicottaggio del Sud Africa nel mondo sportivo. Attivista di lunga data, poeta e professore di letteratura africana, Brutus continua la sua protesta contro l’ingiustizia economica. […]

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Denis Brutus, nato nel 1924 da genitori sudafricani nella, all’epoca, Rodesia Britannica, finì sulle prime pagine dei giornali (e in carcere) quando, negli anni '60, condusse una campagna per il boicottaggio del Sud Africa nel mondo sportivo. Attivista di lunga data, poeta e professore di letteratura africana, Brutus continua la sua protesta contro l’ingiustizia economica. Oggi i suoi obiettivi sono le multinazionali, le banche e quelle istituzioni che traggono profitto da ciò che egli definisce “un sistema globale di apartheid economico”. Robert Looby ha avuto il piacere di parlare del passato, del presente e del futuro con il professor Brutus.

Come è cominciata la sua battaglia contro l’ingiustizia?

Sono nato in una zona dove la segregazione razziale era molto presente. Si veniva classificati come non bianchi o di colore e quindi si era esposti alla segregazione molto precocemente e, è bene ricordarlo, io sono cresciuto durante gli anni ’20 e ’30. Ma, come non perdo occasione di fare notare, vivere all’interno di una comunità protegge dalle forme più dure di razzismo che invece si sperimentano all’esterno. Fummo uno dei primi prodotti di ciò che venne definita la politica della segregazione che, dal 1948 in avanti, quando venne istituito il governo dell’apartheid, divenne poi la politica dell’apartheid. Negli anni ’20 e ’30 esisteva un razzismo di tipo coloniale non diverso da quello del sud degli Stati Uniti, dove esistevano scuole e chiese separate per bianchi e neri. In Sud Africa esistevano addirittura degli uffici postali con entrate diverse per bianchi e neri o, come si usava dire, per bianchi e per non bianchi. (Il termine “non bianchi” comprendeva ampie sottocategorie con cui venivano indicate le persone di colore). C’erano autobus solo per bianchi e autobus per non bianchi.

Io crebbi in questo clima ma non ne ero molto consapevole perché, come ho già detto, ero protetto dalla mia comunità. Quando, per andare a scuola, cominciai a girare per la città cominciai anche a notare quei cartelli che dicevano “solo bianchi” o “solo non bianchi”. Allora il termine usato era “europei” e “non europei”, il che era buffo perché, a volte, chi veniva dall’America si sentiva in dovere di salire solo sui bus per “non bianchi”. Infatti non erano europei, erano americani. Questo era solo uno dei problemi minori.

Alle superiori divenni più consapevole della discriminazione razziale tra bianchi e non bianchi nell’utilizzo degli autobus e ovviamente il servizio peggiore capitava sempre ai non bianchi. Credo fu all’epoca dell’università che me ne resi definitivamente conto, anche se avevo già cominciato a realizzarlo ai tempi del liceo. E me ne resi conto in un modo molto particolare. Mi iscrissi a Fort Hare, un college frequentato da neri che era stato una avamposto militare comandato da un colonnello di nome Hare all’epoca della guerra coloniale contro gli Africani. Il forte passò in seguito alla chiesa, una sorta di impresa ecumenica, che lo trasformò in un’università per non bianchi – per neri, in verità – che prese il nome di Fort Hare. Una delle cose che mi colpì fu che molti tra i migliori atleti del paese frequentavano Fort Hare e, pur avendo un rendimento superiore di qualsiasi bianco in un determinato sport, non erano ammessi nella squadra olimpica perché, come il nostro governo aveva orgogliosamente annunciato, un nero non avrebbe mai fatto parte della squadra olimpica.

La situazione era un po’ più complessa di così perché secondo il comitato olimpico la selezione deve avvenire in base al merito senza alcuna discriminazione di razza. Fu così che cominciai ad oppormi alla politica del razzismo e dell’apartheid, dal punto di vista sportivo. È buffo che ora molte persone mi facciano notare che fu una mossa furba individuare nello sport il punto debole dell’apartheid ma a in verità non mi opposi al sistema perché pensavo che quello fosse il suo punto debole. Pensavo solo che fosse una vera e propria ingiustizia escludere degli atleti dalla squadra a causa del colore della loro pelle. Comunque, in fin dei conti, finii per oppormi al sistema e fui arrestato, portato in un carcere da cui fuggii, fui ferito alla schiena a Johannesburg e finii a Robben Island in compagnia di Nelson Mandela, a spaccare pietre. Ma cominciò tutto con lo sport, questo devo ammetterlo. Non voglio prendermi il merito di una cosa che non ho fatto, ossia avere avuto l’astuzia di combattere l’apartheid tramite lo sport. Non fu questo il mio approccio. Il mio approccio fu quello di prendermela con il mondo sportivo, che era razzista, e trovarmi così in conflitto con il sistema dell’apartheid…

Che insegnamenti bisogna trarre dalla sconfitta dell’apartheid?

Prima di tutto bisogna estendere la pressione a livello internazionale. Questo aiuta a definire degli obiettivi precisi. La squadra di rugby di Springbok ce ne ha fornito uno, la Barclays Bank, operando in 80 paesi diversi, potrebbe offrirci la stessa opportunità. Quando ero in Inghilterra, insieme a Peter Hain, ora membro del governo di Tony Blair, organizzai una campagna piuttosto efficace contro la Barclays e, come sapete, riuscimmo a cacciarli dal Sud Africa. Ora sta per tornare, nonostante sia stata una grande alleata dell’apartheid, e quindi stiamo organizzando una campagna di opposizione. La cosa fondamentale è che la Barclays ha sedi in 80 paesi del mondo e noi stiamo organizzando proteste in tutti e 80 questi paesi. Se l’oppressione diventerà globale, allora renderemo tale anche la resistenza.

All’inizio del mese mi trovavo in tribunale a Johannesburg per oppormi all’acquisizione della ABSA (Amalgamated Bank of South Africa, la banca maggiormente utilizzata dalla popolazione), la più importante banca sudafricana, da parte della Barclays Bank. Va ricordato che la Barclays è stata una delle banche che ha finanziato il sistema dell’apartheid prestandogli grosse somme anche quando le Nazioni Unite lo condannavano apertamente e ne richiedevano il boicottaggio. La campagna continua.

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Alcuni sembrano provare piacere nel vantarsi del tempo che impiegano per andare al lavoro in auto. Come i tizi dello Yorkshire nello sketch dei Monty Python, si alzano mezz'ora prima di andare a letto la sera precedente, per poter arrivare in tempo al lavoro la mattina dopo. Vivono, per la maggior parte, in periferia.

James Howard Kunsler, autore di The Geography of Nowhere (1993), The City in Mind (2001) e del prossimo The Long Emergency, sostiene che lo sviluppo selvaggio dei sobborghi a bassa densità, tipico “in particolare” delle città del Nord America, sia un modello di sviluppo urbano insostenibile, cresciuto a fronte di prezzi petroliferi irrealisticamente bassi, che ha deturpato il paesaggio urbano statunitense e distrutto le comunità urbane. Come potrà testimoniare chiunque sia stato arrestato perché si faceva una passeggiata (cioè non guidava) per un sobborgo statunitense, il paesaggio urbano americano non è “camminabile”, non conduce quindi a quei caldi rapporti umani così amati dagli americani che si è tentato di ricreare l'atmosfera della Main Street USA in cittadine di proprietà delle grandi corporation del divertimento. Nel mondo reale, scrive Kunstler, gli edifici sono separati dalle strade perché la gente guida o si aspetta di andare in macchina dappertutto (The City in Mind

Ma a Kunstler piacciono le città, gli edifici e persino le strade, se sono costruite come si deve, così come, a suo giudizio, è il caso di Parigi. Kunstler non è pedissequamente in favore degli spazi verdi in città, sostiene che spesso la gente cerchi lo spazio verde con la deprimente convinzione che non siamo più in grado di disegnare un edificio che possa competere con un angolo di verde. E neppure si oppone al processo di imborghesimento delle aree residenziali, che considera una routine essenziale senza il quale quartieri e città non riuscirebbero mai a riprendersi dalle fasi di recessione. “In America,” mi racconta, “abbiamo adottato l'idea sentimentale che i benestanti non dovrebbero occupare i quartieri fatiscenti spodestandone gli abitanti. Questa posizione è filosoficamente indifendibile, dato che presuppone che nelle città i benestanti non siano benvenuti per se, e non gli spetti mettersi a ristrutturare vecchi immobili. Ne consegue che dovrebbero limitarsi a vivere nelle periferie o nell'hinterland rurale. Una città senza le classi agiate non può sopravvivere”.

L'incombente crisi globale del petrolio però è di gran lunga più grave rispetto alla generale bruttura delle città statunitensi e dei loro centri desolati. Sta per essere raggiunta la produzione massima di petrolio e, a detta di Kunstler e di molti altri, ne seguirà a scia un periodo di agitazione sociale senza precedenti. Il nuovo libro di Kunstler, in uscita a maggio per la Atlantic Monthly Press, si intitola The Long Emergency ma già nel 1993 scriveva: “Emergerà fra di noi qualche dotato agitatore di folle che prometterà agli Americani di essere in grado di far rivivere i bei tempi passati 'se solo avremo le palle per invadere qualche regione con grandi riserve di petrolio'” (The Geography of Nowhere). L'agitazione sociale causata dal raggiungimento della produzione massima di petrolio è già presente, e chiamarla 'agitazione' è un eufemismo.

Lo stile di Kunstler (è anche un romanziere) spazia dall'energetico al pugilistico assoluto ed i suoi libri su questioni di pianificazione urbana e di espansione della periferia costituiscono delle gustose letture. Una fila di facciate, in The Geography of Nowhere, ha “l'aspetto del cretinismo con mandibola cascante”. In The City in Mind scrive che St Louis è “la tomba di una mummia virtuale”, Baltimora “una carcassa coperta di mosche”, Atlanta “un grande parcheggio sotto una cappa tossica”, Manhattan un “agglomerato fisicamente sordido di tipologie mediocri ripetute all'infinito e d enormi acrobazie ingegneristiche”, Buffalo “sembra che abbia subito un prolungato bombardamento aereo”, e Appleton, nel Wisconsin, ha una “fascia asteroidale di striscie autostradali e spazzatura architettonica cinque miglia fuori della città”.

Ho contattato Kunstler via e-mail subito dopo il suo ritorno dall'Europa e gli ho chiesto se questa volta ha visitato qualche città europea tetra. “Beh, sono stato in due di quelle veramente buone,” mi ha risposto. “Immagino che in Europa ci siano molti spazi industriali abbandonati niente affatto attraenti. Ma per la maggior parte i loro centri urbani sono molto più piacevoli delle città e metropoli d'America”. Una delle ragioni per cui le città americane sono meno piacevoli è l'edificazione a bassa densità, le cui carenze civiche Kunstler spiega così: “la mancanza di spazio pubblico decente, l'estrema separazione degli usi, gli svantaggi per bambini e anziani che non guidano. Ci sono miriadi di città nel mondo con quartieri composti da case monofamiliari su spazi ridotti, le case possono a volte essere sontuose. Inoltre non è difficile combinare tipologie, mescolare case monofamiliari con case a più appartamenti su piccoli lotti di terreno. Le differenze spesso sono culturali. A Parigi, per esempio, gli appartamenti sono la norma; il moderno condominio ha il suo precursore, fino ad un certo punto, a Parigi. Londra invece è stata per molto tempo riluttante ai condomini. Lì il risultato è stato una serie di quartieri composti interamente di case a schiera mononucleari, una visione piuttosto monotona e grigia. La disposizione abitativa meno naturale e normativa è l'espansione selvaggia, nata negli Stati Uniti, che cominciarono il ventesimo secolo con delle grasse riserve di petrolio in casa. Oggi dipendiamo disperatamente per più di metà del petrolio che utilizziamo da nazioni che ci odiano. L'epoca dell'espansione a macchia d'olio come alternativa credibile è agli sgoccioli”.

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