Ancora in lotta contro l'apartheid – Three Monkeys intervista l'attivista sudafricano Denis Brutus

Dopo il crollo dell’apartheid non ha avuto la tentazione di ritirarsi dalla vita pubblica e di lasciare che altri proseguissero la battaglia per la giustizia?

Vorrei poter rispondere sì. Purtroppo tornai in Sud Africa, su invito di Mandela, all’epoca del suo trionfo alle elezioni. L’ANC (African National Congress) non era più fuorilegge e vi furono grandi festeggiamenti. Fu allora che capii che l’ANC era sceso a patti con il potere dei bianchi e che le grandi multinazionali erano ancora a capo del sistema. Avrebbero ancora una volta posseduto l’oro, le banche e sarebbero stati a capo del comitato olimpico. Erano i bianchi a dominare, anche se la lotta era stata portata avanti proprio per ottenere una struttura di governo più rappresentativa. Ma l’ANC, forse ansioso di impadronirsi del potere (molti dei suoi membri erano scesi a patti in segreto), scelse di negoziare. Mandò giovani, uomini e donne, a formarsi presso la Banca Mondiale, a riprova del fatto che non era interessato tanto a cambiare il sistema quanto chi ne era a capo. Quando lo capii, realizzai, con una certa riluttanza, che la lotta non era finita e che avrei dovuto continuare a combattere. Quando rimpatriai, all’aeroporto mi fu chiesto: “Come ci si sente a tornare in una democrazia?”, al che io risposi: “Piano, piano. Non credo che siamo ancora una democrazia”. Naturalmente divenni impopolare perché dicevo cose che la gente non voleva sentire.

Lei è stato anche ad Edimburgo per il G8. Che risultati ha ottenuto?

È giusto concentrarsi sugli avvenimenti di oggi. Edimburgo e il summit del G8 sono stati un passo avanti per noi e uno scacco per i nostri avversari. Il tentativo da parte di Blair di distogliere l’attenzione pubb
lica dalla guerra in Iraq, la rabbia degli inglesi per le sue bugie, e il fatto che abbia vigliaccamente seguito le folli politiche del cow-boy Bush sono tutti fallimenti; la rabbia nei confronti della guerra e del modo in cui è stata condotta si è, al contrario, intensificata. Anche l’aver monopolizzato un fetta importante della società, in modo che le NGO [N.d.T.: Organizzazioni Non-Governative] fossero tutti a predominanza bianca e tutti quegli sproloqui su Make Poverty History si sono rivelati controproducenti. Sempre più gente in Gran Bretagna e nel mondo comprende meglio la natura essenzialmente crudele e rapace di un economia globale – l’apartheid globale ed economico – che sfrutta e opprime migliaia di persone nel mondo.

Credo che la nostra maggiore vittoria sia stata quella di mobilitare e organizzare le voci radicali in un’occasione storica della Gran Bretagna e di aver trasformato gli appelli alla pietà e alla carità in pressanti richieste di giustizia sociale. La consapevolezza politica in Gran Bretagna e nel mondo ne ha grandemente beneficiato. Vorremmo ringraziare coloro che hanno organizzato in modo così eccellente e generoso.

Ma la lotta più importante continua, naturalmente. In Africa ci stiamo impegnando nella lotta contro le mire imperialistiche dell’AGOA (African Growth and Opportunity Act), proprio come la lotta del Sud America contro il CAFTA (Central America Free Trade Agreement) rappresenta un contributo alla lotta globale. Complessivamente penso che stiamo facendo dei passi avanti.

I Bono e i Geldolf confondono le cose facendo credere a molte persone che i problemi possano essere risolti con la beneficenza. Per un’opinione diversa si veda Monbiot. Non sono riusciti a convincere i più al G8, quindi possiamo andare avanti. Abbiamo anche acquistato slancio, visto che ora molti comprendono meglio il problema.

George Monbiot ci ha parlato delle “condizioni” correlate con i programmi di cancellazione del debito.

Il problema è che le condizioni variano da paese a paese. Ai paesi cui è concesso un prestito vengono solitamente imposte tre condizioni (ne vengono imposte anche di più ma quelle fondamentali sono tre). Uno: sono costretti ad accettare il SAP [N.d.T.: Structural Adjustment Programme, ovvero Programma di aggiustamento strutturale], che impone al paese di cambiare radicalmente la struttura della sua economia. Devono concentrare i propri sforzi sull’esportazione, produrre per l’esportazione. Questo implica diverse cose. Una è che se si produce grano per poi esportarlo, non ne rimane per il consumo nazionale. Per riuscire a introdursi sul mercato estero, si fa morire di fame la gente in patria. In secondo luogo si è alla mercé del mercato e si deve vendere ai prezzi da esso imposti, prezzi che raramente avvantaggiano l’economia del paese; ma il fatto che si producano beni per il mercato estero e non per il consumo nazionale è più grave. Perché si insiste su questo punto? Vi sono molte ragioni ma ve ne dirò solo una. Quando i paesi occidentali concedono un prestito ai paesi in via di sviluppo, il debito è concesso in dollari e in dollari deve essere ripagato. Il che significa che bisogna guadagnare in dollari e per fare questo occorre mettersi sul mercato estero e guadagnare valuta estera. Questa è una delle condizioni.

L’altra condizione, a mio avviso più seria (benché lo siano tutte), è che la Banca Mondiale e altre banche diventano, come si dice, “creditori prioritari” il che significa che le si devono ripagare o almeno pagare gli interessi sul debito. Ma considerato che sono creditori prioritari, i servizi in patria – che siano scuole, ospedali, acquedotti, edilizia, strade, infrastrutture – devono aspettare fino a che non si è assolto il debito o si sono pagati gli interessi su esso. Questo comporta un grosso onere per la popolazione che non ottiene i servizi che le spettano e il denaro che entra, sotto forma di tasse, serve a pagare gli interessi. In ciò che noi definiamo Sud globale (Africa, Asia e Sud America, tutti paesi vittime del debito), i servizi alla popolazione sono spaventosamente carenti. Dai calcoli più recenti si tratta di 180 paesi e il debito totale ammonta, secondo i parametri anglosassoni, a 2.000 miliardi. Quindi la seconda condizione è la pesante ripercussione sui servizi alla società perché tutto il denaro della popolazione viene usato per pagare gli interessi.

La terza condizione varia da paese a paese ed è probabilmente la peggiore: per candidarsi alla remissione, anche parziale, del debito o una remissione fasulla dove a un paese viene prestato il denaro per saldare il suo debito, contraendo un nuovo debito al posto di quello vecchio, ossia diventare un HIPC [N.d.T.: Highly Indebted Poor Country, ovvero Paese povero pesantemente indebitato), bisogna impegnarsi, in modo vincolante e improrogabile, a sottostare agli ordini dalla Banca Mondiale e del FMI (Fondo Monetario Internazionale] In caso contrario, si è colpevoli del cosidetto “malgoverno”, opposto al “buongoverno”, in pratica si firma la propria condanna a morte virtuale. Questa è una moderna forma di schiavitù ed è stata ben descritta dall’ African Council of Churches e da altri. Contraendo l’impegno vincolante di obbedire agli ordini, alle prescrizioni e alle condizioni della Banca Mondiale e del FMI si viene di nuovo colonizzati, di nuovo ridotti in schiavitù da una catena di debiti.

Come fa a resistere alla pressione?

E’ l’informazione continua quella che ci fa andare avanti; e il crescere. È così che alla fine abbiamo vinto in Sud Africa. Ora abbiamo risorse migliori, ma ci troviamo di fronte a forze più potenti, quali il consumismo, che distrae i giovani che vorremmo portare dalla nostra parte. Ma continuiamo a crescere, in Sud Africa e anche in Sud America.

Ci battiamo non solo contro le banche ma contro la Banca Mondiale e il FMI. Dunque il quadro è piuttosto ampio. Quello che facciamo, in particolar modo contro la Barclays, dipende dalla mia campagna e dalle strategie sviluppate. Vi illustro tre tra le strategie di più recente sviluppo. Una è quella di esigere delle scuse da parte della Barclays per aver finanziato il sistema dell’apartheid. Vogliamo delle scuse pubbliche. In secondo luogo vogliamo un risarcimento per le vittime dell’apartheid. Vi sono molte persone che ancora non hanno ricevuto alcuna assistenza da parte del governo, nonostante si stata istituita la Truth and Riconciliation Commission [N.d.T.: Commissione di verità e riconciliazione], come sicuramente ricorderete. Vi furono pressioni affinché delle somme di denaro venissero date alle vittime dell’apartheid, ma quel denaro non è stato mai ricevuto. La terza strategia è abbastanza complessa. Abbiamo fatto causa presso la Corte Suprema di New York a 23 multinazionali, esigendo un risarcimento. La Barclays è una di esse e non vogliamo che apra delle sedi in Sud Africa, anche se il governo ha dato il permesso, fino a che la causa della Corte Suprema di New York non si sia conclusa.

In questo momento sono molto preso da tre progetti per i quali non riceveremo alcun supporto, anche se non mi lascio scoraggiare. Alla fine riusciremo a realizzarli. Il primo prevede una conferenza negli Stati Uniti in cui combineremo gli sforzi di africani e afro-americani rispetto al problema dei risarcimenti. Entrambi i gruppi stanno conducendo campagne al riguardo ma lo fanno separatamente. Stiamo tentando di farli incontrare, è un progetto assai arduo in quanto, se riusciremo a portarlo a termine, coinvolgerebbe centinaia di persone. In secondo luogo stiamo organizzando in Sud Africa un confronto tra le vittime dell’apartheid e il ministro all'interno del palazzo del parlamento stesso. Ci sarà u
na marcia affinché il governo si impegni a risarcire le vittime e questo porterà via un po’ di tempo. Inoltre, all’inizio del nuovo anno, uscirà il mio nuovo libro. Ne è appena uscito un altro, una raccolta di poesie intitolato Leaf Drift [N.d.T.: Movimento di foglie]. È un misto: foglie che si ammucchiano. Mi tengo occupato. Ho compiuto 80 anni e ne compirò 81 l’anno prossimo, se ci arriverò. È sufficiente per tenermi occupato.

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