A Milano Peter Brook porta in scena Dostoevskij

A Milano il regista Peter Brook porta in scena Il grande inquisitore tratto da I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij. L'ultimo grande capolavoro dell'autore russo resta intramontabile anche a più di un secolo dalla sua pubblicazione nel 1879, e rispecchia nelle parole come nel teatro tutto il suo genio.

Secondo di sette figli, Fedor Dostoevskij vive un'infanzia infelice, alleviata dalla lettura di Puskin e dalla musica, due passioni tramandate dall'affetto materno. Nel 1831 si trasferisce con tutta la famiglia in un villaggio vicino Tula, ma ben presto Dostoevskij lascia la casa per seguire il fratello e completare gli studi presso la Scuola Superiore di Ingegneria di Pietroburgo, coltivando in segreto l'amore per la letteratura, di cui si nutre avidamente.
Dopo la morte della madre, e del padre cominciano i suoi primi attacchi di epilessia. Porta a termine gli studi, ma pur lavorando come ufficiale in un distaccamento di Pietroburgo, non è soddisfatto del lavoro, e decide di ritirarsi dal servizio presso il comando di Ingegneria militare. Finalmente può dedicarsi alla scrittura, e diventare uno scrittore inarrestabile fino alla morte nel 1881.

Nel 1846 esce il suo primo racconto Povera Gente, l'anno dopo Il sosia che affronta un tema psicologico. Nel 1849 viene condannato a morte mediante fucilazione, con l'accusa di appartenere ad una società segreta guidata da Michail Petrasevskij, sostenitore del socialismo utopistico di Fourier.
Fortunatamente la pena gli viene commutata in condanna ai lavori forzati in Siberia, dove passa quattro anni e raccoglie il materiale per scrivere Memorie da una casa di morti. Dopo aver scontato la pena, viene mandato a Semipalatinsk, vicino al confine cinese, dove conosce Marija Dmitrevna, che poi sposerà. Tornerà a Sanpietroburgo nel 1859 dedicandosi completamente alla stesura dei romanzi, e collaborando anche con diverse riviste letterarie, nel 1867 uscirà Delitto e Castigo. Nel 1878, dopo la morte del terzo figlio, lo scrittore stringe l'amicizia con il filosofo Valdimir Solovev, e si reca spesso con lui al monastero di Opiuta, centro della spiritualità russa, dove incontra lo starec Amvrosuj, che poi lo ispirerà per lo starec Zosima de I Fratelli Karamazov, il suo ultimo libro. Del quale comincia la pubblicazione nel 1879.

La vita di Fedor Dostoevskij è in tutti i suoi lavori, e la tensione intellettuale ed emotiva delle sue parole sopravvive ancora oggi, non solo nella letteratura. Infatti, dall'ultimo lavoro dell'autore è stato tratto un monologo, che verrà portato in scena al Piccolo Teatro di Milano a partire dal 18 ottobre, e proseguirà fino al 28.
La firma dello spettacolo è quella di un altro grande nome, Peter Brook, da sempre uno dei giganti della regia del Novecento. Provocatore del linguaggio scenico, erede della scuola di Artaud, il regista inglese di origine russa è ricordato per le scene drammaturgiche del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, del 1970, nelle quali mescolò sapientemente influenze del teatro orientale a situazioni sceniche del teatro cinese. Dopo diverse esperienze registiche tra Parigi, Londra e New York, Brook ha diretto per venti anni la Royal Shakespeare Company, e a Parigi in particolare, negli anni Settanta, ha fondato il Centre International de Recherche Teatrale, orientando le ricerche verso culture diverse da quella occidentale.

L'ultimo lavoro del regista mette in scena Dostoevskij, le musiche sono di Antonin Stahly, lo spettacolo è stato tradotto in francese da Henri Mongault e adattato da Marie-Hélène Estienne.
Il grande inquisitore, questo il titolo dello spettacolo, è tratto da un paragrafo de I fratelli Karamazov e racconta il ritorno di Cristo sulla terra, a Marsiglia, nel periodo della Grande Inquisizione. Il Salvatore si aggira muto per la città francese, e non c'è modo più forte del suo silenzio per mostrare il suo dissenso per quello che accade tra gli uomini. Un modo di recitare che evidenzia il contrasto con il modo di agire del Grande Inquisitore, interpretato da Maurice Bénichou.
In questo frammento di Dostoevskij, Cristo è condannato per una seconda volta, e la sua colpa è stata quella di aver risvegliato le coscienze, dando loro la possibilità del libero arbitrio. Ma anche questa volta Cristo perdona i suoi giudici, e questo perdono è trasferito simbolicamente da Ivan, il narratore della storia, al fratello, in modo che i due si riappacifichino.
In teatro invece la metaforizzazione del concetto di perdono assume un ruolo diverso, diventa molto più personale, quasi come se il regista volesse utilizzare il metodo diretto del teatro per 'privatizzare' la dimensione del perdono e dirigersi verso ogni singolo spettatore.

La drammatizzazione viene resa da Peter Brook nello spazio e nel tempo del palcoscenico, come una possibile alternativa morale.