Pinter, tra tradizione realista e teatro dell'assurdo

“Nelle sue opere svela il baratro nascosto sotto le chiacchiere di ogni giorno e costringe ad entrare nelle chiuse stanze dell'oppressione”, questa la motivazione dell'Accademia di Svezia al conferimento del nobel per la letteratura del 2005. Parole perfette per descrivere in due righe l'opera del drammaturgo inglese di origine ebrea Harold Pinter.
Nato in uno dei quartieri più poveri e malfamati di Londra, Hackney, il più grande merito dell'autore è stato quello di essere riuscito nell'intento di rappresentare in modo rivelatore, lancinante, quello che spesso si tende a non voler mostrare o che per comodità si preferisce addirittura non accettare. Le sue opere descrivono infatti il mondo contemporaneo come un mondo dove gli esseri umani sono costretti a combattere ogni giorno contro problemi sociali quali incomunicabilità, ingiustizia, violenza e si ritrovano di conseguenza rinchiusi nelle 'stanze dell'oppressione'.
Questa è la forza delle sue opere. Partire da storie comuni di individui inglesi, reietti della società o borghesi alto-locati che siano, dalla trama talvolta insulsa e senza soluzione, apparentemente così lontane dalla vita reale, che finiscono invece per suscitare nello spettatore la sensazione amara di avere davanti a sé proprio il mondo reale di cui fa parte, quella stessa stanza in cui è rinchiuso. Una riproduzione talmente fedele da lasciare attoniti.

Per farlo Pinter usa uno stile tutto suo che potremmo metaforicamente considerare come un ponte che collega due luoghi lontani, due modi di fare teatro completamente distinti tra loro: quello realista di Chechov e quello surreale di Beckett.
Di certo ai critici che erano presenti alla prima di The Birthday Party, messo in scena per la prima volta nel 1958, – “Cosa significa tutto questo solo il signor Pinter lo sa.” 1 – il termine 'realista', associato all'autore dell'opera che avevano appena visto rappresentata sul palco, sarebbe sembrato quanto mai inappropriato. I critici hanno infatti sempre associato il teatro pinteriano degli esordi a quello dei grandi maestri dell'assurdo, da Ionesco a Genet fino a Beckett2. “Alcuni elementi isolati delle sue opere sono profondamente realistici, ma la combinazione risultante è totalmente assurda.”3 Sebbene nelle opere di Pinter si alternino dialoghi surreali, pause e silenzi, che servono a rappresentare un mondo in cui presente e passato convivono, con un metodo (vedi The Room, Dumbwaiter, Silence) molto vicino a quello di Samuel Beckett, il tipo di interesse sociale che Pinter propone, specialmente nella rivelazione e psiche dei suoi personaggi, attraverso soventi monologhi, è molto vicino alla tradizione del diciannovesimo secolo, quella di Ibsen e Chechov. Beckett rifiutava qualsiasi convenzione naturalistica, a suo modo di vedere incapace di descrivere il mondo contemporaneo, mentre Pinter ne fa largo uso, fissando spesso l’attenzione sul subtesto, i così detti 'lapsus Freudiani', su ripetizioni convulsive, sulla nostalgia e i misteri della memoria che si vanno a intersecare con la storia presente. Questo tradisce i personaggi e perciò il pubblico è immerso nella lettura delle loro personalità, del loro passato, domandandosi allo stesso tempo cosa accadrà nel loro futuro con una curiosità che sarebbe inappropriata per personaggi beckettiani quali Estragon (Waiting for Godot) o Hamm (Endgame).

'Pinter's Nobel lecture', la ricerca della verità

Tuttavia il 7 dicembre a Stoccolma, durante la nobel lecture di rito in cui l'Accademia di Svezia concede 45 minuti ai premiati, Pinter non ha parlato per nulla di Beckett o Chechov, bensì, ha preferito occuparsi di argomenti di stretta attualità politica, piuttosto che del suo teatro. Ha sì iniziato cercando di definire il teatro, inteso come ricerca della verità, spesso elusiva, una verità che ogni spettatore, ma anche semplicemente essere umano in quanto cittadino, dovrebbe ricercare, “Tuttavia come ho detto, la ricerca della verità non deve mai fermarsi. Non può essere rinviata o rimanandata. Va affrontata proprio là, nel suo punto cruciale.”, per poi allargare tuttavia il discorso alla verità in senso lato che, secondo il drammaturgo inglese, raramente possiamo incontrare nel linguaggio politico, in quanto la maggior parte degli uomini politici non è interessata alla verità, bensì a mantenere il potere e per farlo ha bisogno che il popolo rimanga nell'ignoranza. Da lì è poi stato facile e scontato collegarsi alla recente invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti.

Dopo essersi soffermato nuovamente sui suoi plays, cercando di spiegare che, se essi sono pieni di incomunicabilità, assurdità e violenza, è proprio perché così si presenta la vita di tutti i giorni, ha in seguito fatto uso degli stessi aggettivi per descrivere la politica estera degli Stati Uniti d’America dalla seconda guerra mondiale ad oggi, citando i casi di Indonesia, Grecia, Uruguay, Brasile, Paraguay, Haiti, Turchia, Filippine, Guatemala, El Salvador e quello, più tristemente famoso, del Cile. Usando l'esempio del suo dramma Mountain Language che fa riferimento alle vicende del popolo curdo e che, insieme all'opera di denuncia sociale The Hothouse, potremmo definire tra le opere pinteriane più palesemente politicizzate, arriva quindi a citare e condannare gli episodi di tortura di Abu Ghraib (Iraq) e Guantanamo (Cuba).

Dopo aver lasciato spazio alla forza delle parole della poesia di Pablo Neruda I'm Explaining a Few Things, poesia sugli omicidi di civili occorsi durante la guerra civile di Spagna, e del suo stesso componimento in versi Death, ha poi concluso la nobel lecture usando una bellissima metafora dello specchio e dell'artista: “Quando ci guardiamo allo specchio pensiamo che l'immagine che ci riflette sia accurata. Stiamo in realtà guardando una serie infinita di riflessi. Tuttavia a volte lo scrittore deve rompere lo specchio, perché è dall'altra parte di quello specchio che la verità si rivela a noi”. Una sorta di esortazione a rompere anche noi quello specchio di riflessi, mezze verità o illusioni, sperando di trovarvi dietro la verità e uscire così dalla stanza chiusa dell'oppressione.

Note:

Manchester Guardian Review, 20 maggio 1958.
Martin Esslin fu il primo con il suo saggio Godot and his children: The theatre of Beckett and Pinter.
V.E. Amend, “Pinter – some credits and debits” in Modern Drama 10, 1967.


Il testo originale della nobel lecture

Il video della nobel lecture