Lo Sciamano di Harvard: Intervista a Wade Davis

Io amo la lingua inglese, è la mia lingua madre e, a mio parere, è una lingua bella ed efficiente, ma non voglio che diventi come un gas nervino culturale che grava sull’intero pianeta. È fondamentale capire anche questo, la minaccia alla cultura non è il cambiamento. Nel corso della storia tutti i popoli si sono dovuti adattare all’impossibilità della vita. La minaccia non è nemmeno tecnologica. Gli indiani Sioux non cessarono di essere tali quando abbandonarono arco e frecce più di quanto gli agricoltori americani non fecero quando abbandonarono aratro e cavallo. La cosa interessante è che ciò che minaccia la cultura è il potere, sia esso rappresentato dal disboscamento delle terre del Panang o dal trionfalismo ideologico nel caso dell’occupazione cinese del Tibet. Come ho detto prima, questa è un’osservazione ottimistica perché noi possiamo essere gli agenti della sopravvivenza di una cultura e agevolare la sopravvivenza della stessa. Ma la vera domanda è: in che tipo di mondo vogliamo vivere? In un mondo monocromatico fatto di monotonia o in un mondo a colori fatto di diversità? La sfida più grande non è escludere le persone dalla modernità, ma fare in modo che tutte possano beneficiare dei vantaggi di questa modernità, senza che questo (impegno) implichi la loro svalutazione in quanto etnia.

Ma se una collettività sceglie di cambiare come possiamo proteggerne la cultura?

Non è questione di proteggere una cultura. Nessuno tenta di congelare le persone nel tempo come se fossero un esemplare biologico. Non si tratta di una visione romantica o sentimentale o di farci paladini degli indigeni, come tenere lontane le T-shirt dagli indigeni. La questione fondamentale della nostra era è come vivere in un mondo multiculturale; non è possibile costruire dei cancelli attorno alla nostra mente o sequestrare le persone per farne dei campioni biologici, ma ci si può sforzare di cambiare l’aspetto del mondo e di apprezzare i contributi delle diverse visioni del mondo. La grande scoperta dell’antropologia è che il mondo in cui siamo nati non esiste in senso assoluto, è solo un modello di realtà e le persone diverse non sono un tentativo fallito di assomigliarci ma esperimenti unici nell’immaginazione umana.

Esiste però un dilemma: in ogni cultura vi sono certi aspetti che l’umanità, nel suo complesso, non desidera o non ha bisogno di proteggere. La circoncisione femminile, per fare un esempio.

È un’ottima osservazione ma è frutto di un fraintendimento. A volte si accusano gli antropologi di abbracciare un relativismo estremo, secondo cui ogni tratto culturale è legittimo, come se si potesse sbagliare nel condannare il nazismo perché aveva una ideologia religiosa. Niente è più lontano dalla verità. Gli antropologi non hanno mai auspicato un’eliminazione del giudizio. Auspicano invece la sospensione del giudizio, in modo tale che quei giudizi che sono obbligati, per etica, ad emettere possano essere validi e informati. Nessun antropologo esiterebbe a condannare i nazisti e certi tratti del comportamento umano – come ad esempio la circoncisione femminile – nelle sue espressioni più brutali. Questi sono tratti culturali, almeno a mio parere, che meritano di finire nell’immondezzaio della Storia.

Lo scopo dell’antropologia diventa assai più utile quando rivolge la sua attenzione a quelle pratiche religiose o culturali che sono state ingiustamente condannate da chi che non le conosce affatto. Un buon esempio di ciò è il Voodoo o i sacrifici animali nelle religioni africane. Gli irlandesi potrebbero trovarle molto disturbanti, ma per chi pratica il Voodoo il sangue è una sostanza sacra e quando una persona si ritrova malata, parte di quest’arte consiste nel ricambiare il dono del potere alla Terra allo scopo di ristabilire l’armonia e l’equilibrio tra luce e tenebre. Prima di condannare l’uccisione delle galline durante i rituali dobbiamo ricordarci che nella religione cattolica, in Irlanda per esempio, quando si fa la comunione si viene coinvolti in un atto di endo-cannibalismo per definizione perché l’atto della transustanziazione da’ al sacerdote il potere di tramutare il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo. Non si sta mangiando semplicemente del pane e del vino a meno che non si sia ipocriti e non si dubiti dei fondamenti della propria religione. Chi siamo noi dunque per condannare chi pratica il Voodoo?

Riguardo al Voodoo, cosa ne pensa della versione cinematografica de Il serpente e l’arcobaleno, il suo libro su Haiti e sul processo della zombificazione?

La detesto. All’inizio, quando eravamo in fase di contrattazione, pensai : “Se volete pagarmi 20.000 dollari l’anno per i diritti di opzione…”, e tenete conto che ben pochi libri che vengono 'opzionati' diventano poi dei film. Quando mi proposero l’affare, mi promisero che avrebbero affidato la regia a Peter Weir e offrirono a Mel Gibson più soldi di quanti ne avesse mai ricevuti per interpretare la parte del protagonista. Lui rifiutò, il che non sorprende, considerato il fatto che è un cristiano devoto. Non mi sarei mai immaginato che il progetto sarebbe finito in mano a Wes Craven, una persona meravigliosa, che avrebbe voluto fare un film migliore di quello che gli hanno permesso di fare. La suprema ironia di tutto questo è che il mio libro, che è una pura esaltazione della religione africana, una denuncia del modo in cui il genere pulp e quegli orribili film della RKO degli anni ’40 avevano razionalizzato l’occupazione di quel paese da parte dei Marines, è finito ad ispirare un film del genere.

Mentre viaggiava per il Sud America lei ha provato l’Ayahuasca, una pianta fortemente allucinogena. Era preoccupato per i suoi possibili effetti?

No. Ho cercato di chiarirlo n
el libro: l’Ayahuasca è tutto tranne che piacevole. Questo lo sapevo dalla letteratura. Chi vuole provare una sostanza psicoattiva leggera, prenda una pasticca di mescalina. L’Ayahuasca non è adatta ne’ a chi è debole di cuore ne’ a chi si avvicina alle droghe per la prima volta. È affascinante sapere che negli Stati Uniti esiste un movimento underground che fa uso di Ayahuasca; mi stupisce che continui ad esistere perché, nella mia esperienza, questa sostanza non è per nulla piacevole. Io appartengo alla generazione degli anni ’60, ho un interesse attivo per gli allucinogeni. Sono stato fortunato a possedere una certa disciplina nell’uso delle droghe. Non ho mai avuto interesse per la cocaina, anche se ho vissuto a Medellin, dove nei primi anni ’70 quella roba arrivava in valige e passava davanti alla fattoria in cui vivevo. Quello che in parte stavamo facendo era un sincero atto di ricerca spirituale, ma, poiché all’epoca ero uno studente di Harvard, eravamo anche consapevoli di quello che facevamo. Non lo facevo in un contesto accademico, c’era anche una ricerca spirituale, se vogliamo, ma è importante sapere che eravamo tutti allievi di Richard Evans Schultes, che faceva parte del quadro di questi interessanti personaggi: Aldous Huxley, Weston La Barre, l’esperto di peyote, e Albert Hoffmann, che fu il primo a sintetizzare l’LSD. In un’epoca in cui non esistevano punti di riferimento, questi uomini erano incuriositi da queste piante e da queste sostanze intellettualmente, farmacologicamente, spiritualmente e socialmente. In un certo senso, tutto questo ci influenzò, mi riferisco a Tim Plowman, a Andrew Wild, a me stesso; eravamo ricercatori seri e sinceri, poi eravamo anche sperimentatori. In retrospettiva è quasi come se ci fossimo fatti strada a morsi attraverso il Sud America (ride).

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