Dove nascono le canzoni? Intervista a Polly Paulusma

“È una cosa buffa”, dice Polly Paulusma parlando dell’impulso a scrivere canzoni. Polly ha cominciato a studiare pianoforte alla tenera età di tre anni e ha scritto la sua prima canzone a dieci. Quando le faccio notare la sua precocità aggrotta leggermente le sopracciglia e risponde: “Credo che tutti quelli che hanno questa necessità, questo tarlo che li rode, comincino molto presto a percepirla, ed è qualcosa che rimane nel tempo. È allo stesso tempo una benedizione e una maledizione”. Questo è un tema che ricorrerà spesso durante l’intervista: l’oscuro e intuitivo luogo dove nascono le canzoni.

E con questo non voglio certo dire che Polly Paulusma sia una primadonna al perenne inseguimento della sua musa; al contrario. Al nostro primo incontro la trovo pronta per un altro concerto e alle prese con un camioncino dall’aria decisamente scomoda con il quale ha viaggiato in lungo e in largo per l’Italia assieme al suo gruppo a dal quale sta scaricando lei stessa gli strumenti. Nonostante la stanchezza causata da un anno di tournée, Polly si presta volentieri e con un bel sorriso all’intervista. È consapevole del suo talento, talento che si nota immediatamente ascoltando il suo primo album, Scissors in my hands. Il disco è stato a ragione lodato dalla critica ed è entrato nella lista dei migliori album del 2004 della prestigiosa rivista Uncut.

È l’ultima serata del suo tour europeo, lo stesso tour che l’ha tenuta impegnata per un anno e che l’ha vista collaborare con artisti del calibro di Jamie Callum, Bob Dylan e, ultimamente, Marianne Faithful. La tournée è una naturale conseguenza del disco, che è stato registrato quasi dal vivo con sonorità molto intime. “Mi piace suonare dal vivo e continuerò a farlo ma per quanto riguarda questo album l’esibizione dal vivo è stata una necessità – spiega Polly, – Potevamo permetterci un solo giorno di registrazione, quindi abbiamo dovuto suonare tutto in una volta. Il resto l’ho fatto a casa”. Senza poter contare su un contratto discografico (ora è sotto contratto con la One Little Indian) e con una determinazione e una fiducia in sé stessa ammirevoli, Polly ha registrato e autoprodotto Scissors in my hands. Si identifica fortemente con quel gruppo di artisti che hanno registrato e autoprodotto i loro lavori, come ad esempio Damien Rice. “Questi dischi fatti in casa sono caratterizzati da un’inconfondibile acusticità dovuta al fatto che non abbiamo avuto l’appoggio dell’industria discografica, troppo indaffarata a glorificare il karaoke. Ne è uscito un lavoro meraviglioso. Come una foresta in fiamme: prima la distruzione, poi la ricrescita dei nuovi germogli, il tutto dovute a cause di forza maggiore”.

Il paragone con Damien Rice è forse il più significativo, anche se Polly è stata paragonata a numerosi artisti, da Joni Mitchell a Nora Jones. E’ quasi automatico, quando si parla di giovani artiste, fare di tutta un’erba un fascio e includerle nella categoria “Nora Jones”. Tutto questo non è frustrante e magari anche vagamente sessista? “Ho l’impressione che funzioni in questo modo: se hai i capelli scuri appartieni a una certa categoria – conviene – ma questo non succede con gli artisti maschi dal capello castano, però! Del resto la gente è pigra e ha bisogno di qualcosa su cui scrivere. Se parlano di quello che faccio, anche in modo critico, allora mi sta bene. Faccio quello che mi piace e sono consapevole di aver questa fortuna. Ci sono molte persone che conosco che non vengono neanche menzionate e questo è molto peggio, credimi”.

Scrivere belle canzoni e registrarle è però solo una parte del lavoro. Fare in modo che il disco venga ascoltato è l’altra. Per questo motivo Polly è sempre impegnata in tournée ed interviste e ultimamente ha prestato una sua canzone ad uno spot pubblicitario, cosa che ha suscitato alcune polemiche. Ma Polly non si lascia influenzare dalle critiche, seppur velate: “Trovo assurdo che la gente abbia da ridire solo perché ho prestato una mia canzone ad uno spot. In questo periodo è talmente difficile farsi notare al di sopra di questa cacofonia che tutto ciò che aiuta in questo senso è il benvenuto. In fondo sono una musicista, voglio che il maggior numero di persone possibile ascolti la mia musica e francamente non mi importa molto di come questo avviene. Da piccola ho scoperto un sacco di ottima musica grazie alla pubblicità. Non avrei mai conosciuto la Steve Miller Band se non fosse stato per la pubblicità dei Levi’s. Se qualcun altro è disposto a pagarmi perché presti la mia musica ad una pubblicità, ben venga”. Ci sono però ovviamente dei limiti: “Ci sono cose per le quali non presterei mai la mia musica, tipo l’esercito o un partito politico”. Quali sono i pericoli dell’eccessivo presenzialismo? Non c’è il pericolo che il disco abbia successo, venga ascoltato ma divenga poi onnipresente ed associato a certi prodotti, com’è successo con Moby? Sorride: “Forse lui ha esagerato! Se sei un’artista emergente che tenta di farsi un nome allora sei giustificato. Ma raggiunti certi livelli di popolarità, tipo gli U2 e la pubblicità dell’I-pod, allora diventa ridicolo. Loro non hanno certo bisogno di soldi o di pubblicità”.

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